L’Ultimo giorno della Legge è un’epoca di conflitti, un tempo in cui tutte le persone indistintamente sono portate necessariamente a scontrarsi. La forza di resistere a questo corso tumultuoso deriva dalla ferma convinzione che la natura di Budda esiste in noi e negli altri. La pratica di riverire gli altri equivale ad agire in base a questa convinzione e kosen rufu non è altro che l’estensione della rete di coloro che condividono questa convinzione e avanzano di conseguenza. (Daisaku Ikeda)

Sbagliano di grosso quelli che non praticano la nonviolenza nei loro rapporti personali con gli altri, ma sperano di usarla nelle questioni più grandi […] La nonviolenza non è sopportazione reciproca. Appena ci si convince che la nonviolenza è la legge della vita, è necessario praticarla nei confronti di coloro che sono violenti con noi: e questa legge deve valere tanto per le nazioni, quanto per gli individui. Se c’è questa convinzione il resto viene da sé. (Mahatma Gandhi) 

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Il pensiero della nonviolenza

Il pensiero della nonviolenza

Introduzione

È “antica come le colline”1, diceva Gandhi della nonviolenza. L’idea della nonviolenza non è una creazione recente, ma risale all’antica tradizione indiana, e viene indicata nel Jainismo e nel Buddismo antico con il termine sanscrito ahimsa che letteralmente vuol dire “assenza del desiderio di nuocere”2. E già lì si ritrova la “doppia natura” di questo concetto, che nega e al tempo stesso afferma. Infatti, nel termine ahimsa, il rifiuto di ogni forma di violenza si esprime con la precisa intenzione di adottare un comportamento di “innocenza” o “innocuità”, e diventa poi con Gandhi una attiva “affermazione della verità”, come egli stesso ha definito il suo metodo (satyagraha), trasferendo così l’idea di nonviolenza a pieno titolo nel campo della politica.
Perché caratteristica del pensiero della nonviolenza è di essere allo stesso tempo un’istanza etico-religiosa e un metodo politico per risolvere problemi politici.

Ma cosa è esattamente la “nonviolenza”? «La nonviolenza si oppone a ogni forma di violenza, sia diretta sia strutturale, senza mai giustificare il ricorso all’una per eliminare l’altra: spezza il circolo vizioso della violenza rifiutando a priori di farvi ricorso, […e] va ancora più a fondo, rifiutando anche la violenza che si ritrova a livello culturale, nascosta nelle pieghe delle nostre convinzioni religiose, morali, sociali»3.
Un rifiuto che, a partire da un profondo convincimento interiore («La nonviolenza non è un vestito che possiamo mettere e togliere quando ci pare. Essa abita nel cuore e deve essere una parte inscindibile del nostro essere»4), lungi dall’essere un mettersi da parte e un sottrarsi all’agire sopportando gli effetti della violenza esercitata da altri, si esprime in una lotta con mezzi diversi: in resistenza attiva, protesta nonviolenta, persuasione, noncollaborazione.
Perché alla base del pensiero nonviolento c’è la convinzione che se le ingiustizie sono così radicate il motivo è che godono della complicità e della cooperazione della maggior parte dei membri della società (un’idea presente in figure diverse come Henry David Thoreau – vedi p. 26 – e Lev Tolstoj, entrambe ispiratrici di Gandhi). E che se un numero sempre maggiore di persone si rifiuta di collaborare con leggi, istituzioni e regimi che creano e mantengono le ingiustizie, alla fine questi verranno neutralizzati e deperiranno. Ci sarà una specie di “effetto boomerang”, perché la violenza dell’oppressore si ritorcerà contro di lui, secondo quello che Gene Sharp chiama “ju-jitsu politico” (ju-jitsu nelle arti marziali è la tecnica di difesa personale che sfrutta la forza o la presa dell’avversario).5

Quando Gandhi fu processato per aver disobbedito alle leggi dell’impero britannico e per aver incitato i suoi concittadini a fare lo stesso, aveva affermato: «La nonviolenza richiede che ci si sottometta volontariamente alla pena che comporta il non aver cooperato con il male», e Martin Luther King, in seguito all’arresto per il boicottaggio degli autobus a Montgomery aveva detto: «Sono fermamente convinto che chi trasgredisce una legge, da lui in coscienza ritenuta ingiusta, accettandone di buon animo la pena relativa e restando in carcere per destare la coscienza della comunità di fronte a tale ingiustizia, costui ci offre il più alto esempio di rispetto per la legge».
Lottare senza usare violenza per essere coerenti con i propri principi e rifiutarsi di sottostare alla “legge del più forte” non è una scelta di comodo e neppure un sacrificio sterile, ma un’azione forte, coraggiosa, contagiosa. E anche vincitrice. Così ha dimostrato Gandhi, vincendo contro il colonialismo inglese, e Martin Luther King vincendo nella lotta per i diritti civili degli afroamericani, e Nelson Mandela e Desmond Tutu vincendo contro l’apartheid in Sudafrica. Ci sono anche casi più recenti di regimi totalitari abbattuti senza armi, come la cacciata di Marcos dalle Filippine nel 1986 o la caduta delle dittature nell’Europa dell’est nel 1989. E i numerosi episodi di resistenza civile non armata durante il nazifascismo, come l’opposizione della popolazione danese contro la deportazione degli ebrei o degli insegnanti norvegesi contro il regime filonazista di Quisling, o l’episodio delle donne di Rosenstrasse, a Berlino nel 1943, quando migliaia di donne ariane sposate con uomini ebrei imprigionati, rimasero per giorni sotto la sede della Gestapo fino a quando i mariti non furono liberati.6
Di casi di nonviolenza che ha la meglio sulla violenza ce ne sono molti, più di quanto non si immagini7. Perché spesso, se qualcosa si crede impossibile, si stenta a riconoscerla anche quando è sotto i nostri occhi. Ma è pur vero che questi casi sono sempre troppo pochi.

Abbiamo dedicato alla nonviolenza le pagine di questo speciale per riflettere ancora su questo tema (vedi DuemilaUno n. 49), che affonda le radici nei principi fondamentali della dottrina buddista (vedi articolo p. 16) ma che tocca persone e movimenti in modo “trasversale”. In Italia, per esempio, ha visto come pionieri esponenti del pensiero cattolico, Aldo Capitini e Danilo Dolci, di cui abbiamo offerto un ritratto e pubblicato poesie (vedi pp. 22, 24 e 64). Altre pagine sono state dedicate a due donne molto diverse che hanno consacrato la loro vita a battaglie senza armi: Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, per la liberazione del popolo birmano, e Vandana Shiva, scienziata indiana, per la difesa della biodiversità e del sapere tradizionale della natura; e a Henry David Thoreau, autore di un Trattato sulla disobbedienza civile che ha ispirato Gandhi e Luther King. Oltre a due esperienze raccontate direttamente dai protagonisti: Enrico Euli, docente di formazione alla nonviolenza, e Bienvenu Kasole, ex rifugiato congolese, vittima di torture, oggi consulente esperto in processi di pace, cooperazione e sviluppo.
Per finire con le interviste a due esponenti di spicco della nonviolenza: Rocco Altieri, docente di teoria e prassi della nonviolenza all’Università di Pisa e direttore della rivista Satyagraha interamente dedicata a questi temi, e Jan Øberg e Christina Spänner, creatori della Transnational Foundation for Peace and Future Research, la fondazione che lavora sul campo insegnando risoluzione dei conflitti e riconciliazione nelle zone di guerra.
Legata allo speciale è la settima e ultima puntata della serie “Sette sentieri per l’armonia globale” di Daisaku Ikeda (p. 52), che ha per oggetto il tema disarmo. Lo stesso tema che costituisce il cuore della Proposta di pace 2004, presentata alle Nazioni unite lo scorso gennaio, che verrà prossimamente pubblicata qui per i nostri lettori: non basta la non proliferazione, scrive Ikeda, le armi nucleari devono essere completamente abolite.

«Il primo passo dell’azione nonviolenta è quello di prendere la parola per proclamare la verità: questa presa di parola è una presa di potere. Con essa viene a interrompersi il monopolio della parola che i potenti tendono sempre ad acquisire. Con la parola e con l’azione la strategia della nonviolenza si sforza di mettere in opera il potere rivoluzionario della ragione. La parola ragionevole e l’azione nonviolenta si rinforzano l’una con l’altra, l’azione sottolineando il significato della parola e reciprocamente. Nel momento più cruciale della lotta, si può dire che la parola diventa azione e che l’azione diventa parola. L’azione nonviolenta realizza la conciliazione tra la rivoluzione e la ragione»8.

NOTE
1) Vedi articolo di Nanni Salio Buddismo e Società n. 86, p. 48.
2) “La nonviolenza nelle fonti della tradizione indiana”, Quaderni di Satyagraha, n. 3.
3) Manuale di difesa civile nonviolenta, Centro Studi Sereno Regis, 1998, p. 12.
4) Gandhi per la pace, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 48.
5) Gene Sharp, uno dei massimi esperti di resistenza nonviolenta, è autore di un testo fondamentale: La politica dell’azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, 3 voll. Torino 1985-1997.
6) Nina Schroeder, Le donne che sconfissero Hitler, Pratiche editrice, Milano 2001.
7) Per una documentazione più completa vedi la bibliografia curata da Enrico Peyretti sul sito www.arpnet.it/regis/centro/document_bibliografiastorica.htm. La bibliografia, aggiornata all’ottobre 2002, comprende più di cento libri, opuscoli, articoli sui casi storici di difesa di diritti umani e di diritti dei popoli, e di liberazione da tirannie, senza uso della violenza armata.
8) Jean Marie Muller, Strategia della nonviolenza, Marsilio, p. 123.

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Quando la rivoluzione incontra la ragione

Affluenti di un grande fiume

Il pensiero della nonviolenza

il fondatore della nonviolenza italiana

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di Roberta Calandra

«Sono nato a Perugia il 23 dicembre 1899, in una casa nell’interno povera, ma in una posizione stupenda, perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con la vista, sopra i tetti, della campagna e dell’orizzonte umbro, specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile», scrive Aldo Capitini nella sua autobiografia. Dopo gli studi tecnici e di ragioneria, «precoce come sensibilità, riflessività e interesse per la lettura e anche per la poesia» si dedica da autodidatta alla lettura di classici latini e greci, dando così inizio al suo lavoro ininterrotto di approfondimento filosofico con uno sforzo che lo portò all’esaurimento «…e alle continue difficoltà del sonno e della digestione: così oltre il classicismo letterario e quasi filologico, la conoscenza della Bibbia e la vicinanza al Leopardi, acquisii in quegli anni l’esperienza della finitezza umana, del dolore fisico, dell’inattività sfinita in mezzo alle persone attive, un’esperienza che con la componente della costruzione culturale, era la componente della ricerca etico-religiosa, già da anni indipendente dalla religione tradizionale». Nel 1924 vince una borsa di studio presso la Normale di Pisa, dove si laurea in Lettere e Filosofia.
Nel 1929 Capitini critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una “merce di scambio” con il fascismo. Dichiarerà: «Se c’è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall’istituzione».
Come naturale reazione al fascismo, grazie alla lettura di un’autobiografia di Gandhi pubblicata in Italia nel 1929, Capitini matura la scelta della nonviolenza. «… Potevo avere un modo per realizzare concretamente quel certo francescanesimo a cui tendevo da fanciullo, col vantaggio che mentre S. Francesco era prima dell’Illuminismo, Gandhi veniva dopo il Settecento, con la serissima applicazione dei principi della libertà, fratellanza, eguaglianza…». Abbraccia inoltre un totale vegetarianesimo, e fonderà in seguito la società vegetariana italiana.
Il rifiuto di ogni guerra, la democrazia diretta con controllo dal basso, la proprietà resa pubblica e aperta a tutti saranno i suoi costanti motivi di ispirazione. «Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta… a me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione».
Nel 1939 viene nominato da Giovanni Gentile, direttore della Scuola Normale di Pisa, segretario del prestigioso ateneo. Nel 1932 sarà lo stesso Gentile a sollecitarne le dimissioni, in seguito al suo rifiuto verso la tessera del partito nazionale fascista. Rientrato a Perugia, tesserà una fitta rete di relazioni con i massimi esponenti italiani dell’attività antifascista. I suoi Elementi di un’esperienza religiosa vengono pubblicati grazie a Benedetto Croce da Laterza, diventando un prezioso riferimento di riflessione per gli oppositori del regime. Insieme a Guido Calogero fonda il movimento liberalsocialista, a cui collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Pietro Amendola, Norberto Bobbio e Pietro Ingrao. Arrestato nel 1942 viene scarcerato dopo quattro mesi, grazie alla sua fama di “religioso”. «Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi», commenterà.
Autoesclusosi da qualsiasi partito in nome di una necessità di rinnovamento “più che politico” – «forse fui il primo a usare in Italia l’espressione “indipendente di sinistra”» – e cosciente che la crisi a lui contemporanea fosse anche «crisi dell’assolutizzazione della politica e dell’economia», Capitini fonda nel 1944 il primo Centro di orientamento sociale (COS), esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere. «Uno spazio nonviolento, ragionante, non menzognero» aperto alla libera partecipazione dei cittadini, con l’obiettivo di far diventare «tutti amministratori e tutti controllati» nella gestione delle risorse pubbliche. I COS si diffondono sul territorio nazionale, tra l’indifferenza e l’aperta ostilità dei partiti ufficiali. «Ricominciavo veramente da una posizione di centro individuale, e mai forse parola è stata più adatta alle mie iniziative».
A fianco della sua attività didattica, politica e pedagogica, Capitini prosegue il suo percorso di ricerca spirituale e religiosa promuovendo accanto all’ex prete Ferdinando Tartaglia il Movimento di religione, mirato a esplorare le possibilità di una profonda riforma religiosa. «…Indicai il lavoro religioso come consistente nella ripresa, nell’etica contemporanea, dei temi della mitezza, del perdono, della nonviolenza, e nell’apertura massima alla realtà di tutti, alla compresenza di tutti gli esseri». Grazie all’appoggio del giovane Pietro Pinna promuove una lunga serie di iniziative che hanno come scopo il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, difende a oltranza la scuola pubblica contro ogni invasione confessionale. La fondazione del COR (Centro di orientamento religioso) si affianca a quella dei COS. Scopo dei COR è stimolare la conoscenza delle religioni diverse da quella cattolica lasciando spazio anche a movimenti e gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare, e stimolare i cattolici stessi a un approccio più critico e impegnato alle questioni religiose, nonostante l’ostracismo delle gerarchie ufficiali.
Domenica 24 settembre 1961 Capitini organizza la prima Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli, che si snoda tra Perugia e Assisi ed è tuttora riproposta. «Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia».
Nei suoi ultimi anni di vita fonda e dirige il periodico Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che chiamava “omnicrazia”, ovvero una gestione diffusa e delocalizzata del potere contrapposta al centralismo dei partiti. Nello stesso periodo fonda il Movimento nonviolento per la pace e dirige il mensile Azione nonviolenta, attualmente pubblicato a Verona.
«Ho insistito per decenni a imparare e a dire che la molteplicità di tutti gli esseri si poteva pensare come avente una parte interna unitaria di tutti, come un nuovo tempo e un nuovo spazio, una somma di possibilità per tutti i singoli, anche i colpiti e annullati nella molteplicità naturale, visibile, sociologica. Questa unità o parte interna di tutti, la loro possibilità infinita, la loro novità pura, il loro “puro dopo”, la finitezza e tante angustie, l’ho chiamata la compresenza».
Muore il 19 ottobre 1968.

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Aldo Capitini

Il pensiero della nonviolenza

contro la mafia e la povertà

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di Gianna Mazzini

Diceva così: ciascuno cresce solo se sognato, cioè che una persona bisogna immaginarsela meglio di come appare e allora lo diventerà.
Danilo Dolci era nato a Sesana, in provincia di Trieste, il 28 giugno 1924. Per mantenersi agli studi di Architettura insegna Scienza delle costruzioni in una scuola serale a Sesto San Giovanni e qui conosce Franco Alasia, che diventerà l’inseparabile amico di tante future battaglie. Verso la fine del 1948 conosce padre Davide Maria Turoldo e riceve da lui un insegnamento che non dimenticherà mai: «Godi del nulla che hai, del poco che basta giorno per giorno: e pure quel poco, se necessario, dividi. Vai di paese in paese e saluta, saluta tutti, il nero, l’olivastro e perfino il bianco». Padre Turoldo gli parla anche della comunità di Nomadelfia fondata da Don Zeno Saltini a Fossoli in provincia di Modena. Nomadelfia era un ex campo di concentramento dove si accoglievano, nel dopoguerra, bambini abbandonati o orfani. Danilo, a un passo dalla laurea lascia gli studi, la fidanzata, la famiglia e gli amici e va a vivere, povero fra i poveri, nella comunità.
Dopo due anni Danilo decide di muoversi da lì.
Cerca un altro posto dove portare il suo gran desiderio di dare, ed è a quel punto che gli viene in mente Trappeto, il paesino della Sicilia occidentale dove era stato da bambino col padre capostazione. Trappeto era, in quegli anni, un agglomerato di case senza strade, senza farmacia né fogne, senza medico e senza lavoro. Danilo ci si trasferisce.
Ad accoglierlo i pescatori: «Danilo, che sei venuto a fare? – Dobbiamo vivere in comunità, cambiare il mondo – ci diceva. Ma noi nun lo capivamo che voleva dire iddu», mi dice Zi ‘Ntoni Russo, ricordando quel momento.
È il 1952. L’Italia povera del dopoguerra.
In pochi mesi Danilo riesce a comprare due ettari di terreno appena fuori dal paese, per quello che diventerà il “borgo di Dio”.
Benedetto Zenone, bambino cresciuto al borgo di Dio, oggi adulto, mi racconta che nel ‘52 a Trappeto si moriva a mucchi entro il primo anno di vita. Che anche da parte degli adulti c’era una rinuncia alla vita, a lottare anche per le cose più elementari, una sorta di fatalismo ignorante che bloccava le braccia e le teste e che non faceva reagire. Ecco dove comincia a costruire Danilo Dolci: comincia a lavorare alla consapevolezza del sé, alla capacità di cambiare le cose che ci circondano anche quando sembrano colossi vecchi di secoli e impossibili da spostare.
Pochi mesi dopo il suo arrivo Danilo si sdraia nel letto dove qualche mese prima era morto Benedetto Barretta, un bambino di appena un mese, e inizia il primo sciopero della fame per richiamare l’attenzione pubblica sulle condizioni di vita di quel paese. Negli stessi mesi scrive il libro Fare presto (e bene) perché si muore. Si moriva nella Sicilia occidentale, si moriva di parto, di fame, di povertà, di follia. Si moriva troppo.
Quel suo gesto (Danilo è già rinomato per il suo impegno civile e per la bellezza delle cose che scrive) suscita una vasta eco presso la stampa nazionale ed estera. Gli scrive Aldo Capitini, l’altro grande nonviolento della nostra storia. Arrivano lettere di sostegno da tutta Europa. E dopo otto giorni di digiuno arrivano anche i primi aiuti dallo stato per coprire la fogna a cielo aperto che attraversava il paese. È il momento di allargare il “borgo”: alcuni amici gli inviano denaro per costruire due casette che diventeranno l’asilo e l’università popolare.
«Bastava andare su per quella salitina e ci sembrava di stare sulla luna» ricorda Benedetto Zenone. Al Borgo si riunisce la gente del paese. Lì si comincia ad ascoltare musica: Bach, Mozart, Beethoven. Un giorno arrivano persino i fratelli Menhouim, pianista e violoncellista, vengono a suonare sulla spiaggia per tutti, per i pescatori con la coppola che non hanno mai sentito nulla del genere. Sapete come cambiano gli occhi di chi ha sentito fino a quel momento solo mare e silenzio? Sapete che succede quando si scopre che la luna c’è davvero, vicina assai? Che c’è la vita nei suoni, nei disegni, che l’arte serve, serve come un attrezzo, un utensile, che l’arte può girare fra i muri di casa come altrove girerebbe un panino o un cacciavite?
Nel ‘55 esce Banditi a Partinico, libro-inchiesta di Danilo sulle condizioni sociali di quel tempo: lo stato aveva risposto all’ignoranza della gente con la repressione. Non scuole ma galere. Lui, Danilo, propone un modo diverso di operare: dice che se la gente impara a conoscere i problemi che vive, se comincia a discuterli insieme, se riusciamo a far sentire partecipi tutti di un progetto più grande, allora sì che si possono trovare le leve per cambiare, per creare sviluppo.
In quegli anni al Borgo di Dio si discute di tutto.
Seminario sulle stelle: ne parlano un astrofisico, un filosofo e un contadino – mi racconta Amico, il figlio di Danilo, allora scolaro delle elementari. Attraverso queste continue riunioni di autocoscienza popolare con contadini, donne, pescatori, intellettuali, bambini comincia a farsi strada l’idea che cambiare è possibile, che cambiando il modo di pensare cambia anche la realtà intorno. E c’è bisogno del punto di vista di tutti.
La mafia d’allora controllava le popolazioni della Sicilia occidentale anche attraverso il monopolio dell’acqua. Si doveva sottrarre il potere della mafia sull’acqua. Avere acqua. Durante una riunione di autocoscienza popolare dove se ne discuteva, un contadino, Zi Natale Russo, dice «ci vorrebbe nu vacile» per trattenere l’acqua. Un “bacile” per un architetto come Dolci è un bacino. Nasce così l’idea di costruire una diga che interrompa il corso di un fiumiciattolo, lo Jato, che butta le sue acque nel mare e che potrebbe invece dare ricchezza a tutta la valle. Quando Amico Dolci mi porta sul posto si commuove al ricordo: «Mio padre ci portava qui spesso e davanti a questa valle secca come il deserto, ci diceva: “La vedete l’acqua? Lo vedete il lago?”. E noi non vedevamo nulla e anzi ci veniva un po’ da ridere, ma poi hanno cominciato in tanti a crederci e ora guarda: la diga sullo Jato è lì, lì c’è questo lago pieno d’acqua che continua ancora oggi a far vivere tanta gente». In molti a dire: «Non si costruiscono le dighe con i digiuni o con le poesie». E lui: «Sono uno che cerca di tradurre l’utopia in progetto. Non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no. E quando una cosa è necessaria, magari occorreranno molta fatica e molto tempo, ma sarà realizzata. La diga sullo Jato sarà realizzata per la semplicissima ragione che qui la gente vuole l’acqua».
Poi è la volta del primo sciopero alla rovescia. È il 2 febbraio 1956 e alla trazzera vecchia di Partinico, centinaia di disoccupati, guidati da Dolci, cominciano a lavorare per riattivare una strada di campagna intransitabile. È l’art. 4 della Costituzione che dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Lì i soldi non ci sono, le strade neppure ma le braccia sì. Danilo viene arrestato e giudicato «individuo con spiccata capacità a delinquere». Rimane nel carcere dell’Ucciardone per due mesi. Ormai entrata nella storia la difesa che Pietro Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, fa del gesto di Dolci. Einaudi pubblicherà poi Processo all’art. 4 che contiene tutta la documentazione del processo. Tutta l’incongruenza dei principi larghi quando scendono nelle maglie strette della vita.
Danilo viene scarcerato e gli vengono riconosciuti moventi di particolare valore morale.
Poi è la volta della battaglia per la lotta alla fame e al degrado nei quartieri di Palermo. Dal 7 al 19 novembre 1957 Dolci digiuna a Cortile Cascino, uno tra i più degradati. Memorabile l’esperienza vissuta in quel cortile da Goffredo Fofi che ne scriverà. Memorabile il film che ne farà Robert Young e quello che venti anni dopo porterà sulle tracce di Dolci anche il figlio di Young. Dolci è un suscitatore di emozioni, un catalizzatore di energie, uno splendido uomo d’azione e fiducia nella vita che si muove e fa muovere chi gli sta intorno.
Dolci è anche uno sperimentatore. In Conversazioni, racconta del suo metodo maieutico nelle riunioni con la gente al Borgo di Dio. Anche chi non ha studiato e pensa di non avere strumenti, esprimendosi riesce a comunicare le proprie aspirazioni, riconosce e valorizza le proprie esperienze, cresce e si sviluppa conoscendo l’esperienza degli altri.
Ora è la volta della lotta alla mafia. Il 22 settembre del ‘65 Dolci e Alasia denunciano in una conferenza stampa il risultato di un’autoanalisi popolare compiuta sulla zona: per la prima volta in maniera netta ed esplicitissima si nomina il legame stretto fra mafia e politica. Dolci raccoglie testimonianze contro un ministro dello stato e un sottosegretario che lui accusa di essere collusi al potere mafioso. Due mesi dopo inizia il processo per direttissima contro Danilo e Franco su denuncia dello stesso ministro e del sottosegretario. La Corte di Roma respinge una lunga lista di testi indicati nella difesa e a quel punto Danilo e Franco comunicano tramite lettera alla Corte di rinunciare. Ma qualche mese più tardi si svolge a Roma una grande protesta popolare davanti al Parlamento e alla sede della Commissione antimafia. I notabili di cui si è documentato il rapporto con la mafia saranno ormai esclusi dal governo. È una vittoria.
Danilo riceve proprio in quegli anni due candidature al premio Nobel per la pace. E premi, e lauree ad honorem. E gratitudine.
Ora è la volta delle azioni per i terremotati del Belice.
Il 25 e il 26 marzo 1970 una radio libera diffonde da Partinico la voce «dei poveri cristi della Sicilia occidentale». Franco Alasia e Pino Lombardo trasmettono notizie sulle condizioni dei terremotati. Interviene la polizia con grande spiegamento di forze e interrompe le trasmissioni. Ma il gesto rimane. La prima radio libera che cerca di dar voce a chi non ne ha. Che interroga chi non ha mai avuto accesso alla parola che conta, alla parola che cambia.
Poi è la volta della scuola. Il 23 novembre 1970 si firma il compromesso di acquisto di circa dieci ettari in contrada Mirto su cui nascerà un nuovo centro sperimentale educativo: un posto immaginato dai bambini e dalle mamme, dove i piccoli possano imparare volentieri. È un atto di fede nella vita. Nel ‘74 le ruspe cominciano a scavare: nasce la scuola nuova. Nell’‘83 la scuola materna di Mirto è finalmente riconosciuta scuola statale sperimentale.
E ce ne sarebbero molti altri di eventi, episodi, discorsi, gesti da raccontare. Danilo Dolci muore il 30 dicembre 1997.
Nell’armadio pochi vestiti. In casa pochi mobili e migliaia di libri, nelle teste di chi lo ha conosciuto milioni di ricordi forti come quando vedi la neve per la prima volta. O tocchi l’acqua.

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Danilo Dolci

Il pensiero della nonviolenza

il teorico della disobbedienza civile

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di Roberta Calandra

«Accetto di tutto cuore l’affermazione “il governo migliore è quello che governa meno”, e vorrei vederla messa in pratica più rapidamente e sistematicamente. Se attuata, essa porta infine a quest’altra affermazione, alla quale pure credo “il miglior governo è quello che non governa affatto”, e quando gli uomini saranno pronti, sarà proprio quello il tipo di governo che avranno».
Nato a Cordon, Massachusetts, nel 1817, morto di tisi a soli quarantaquattro anni, Henry David Thoreau, definito da Ralph Waldo Emerson «un paggio della natura», è sicuramente noto per la sua ferma opposizione alla schiavitù, per la sua passione per la natura ma, soprattutto per il suo Trattato sulla disobbedienza civile che profondamente influenzò Gandhi e Luther King. Infatti quest’uomo, che sconfessava la violenza in ogni sua forma, opponendo all’ingiustizia una sorta di “resistenza passiva”, che voleva «vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita, robustamente come gli spartani, e sgominare tutto ciò che non era vita», quest’uomo che passò gran parte del suo tempo in una capanna nei boschi e dedicò i suoi ultimi anni a percorrere l’America a piedi, fu arrestato per aver rifiutato le tasse governative sostenendo che il pagarle avrebbe rappresentato manifestare il proprio assenso per la condotta del governo. Per sostenere la tesi che ogni individuo dovesse rispettare i dettami della sua coscienza piuttosto che i dettami di un determinato governo, elaborò il saggio (trascritto postumo da una sua lezione) Disobbedienza civile.
Il tema centrale di questo scritto è la preponderanza data al diritto rispetto alla legge: pur di seguire ciò che la propria coscienza individuale ritiene giusto, Thoreau ammette anche la disobbedienza alle leggi. Secondo lui è più importante il rispetto del diritto piuttosto che il rispetto della legge, perciò egli si sente pienamente giustificato a violare le leggi americane, visto che il governo statunitense ammette la schiavitù. Ovviamente la sua fiducia quasi illimitata nelle capacità del singolo individuo può apparire pericolosa per la convivenza democratica, perché non riconosce alcun valore alla maggioranza e lascia ogni responsabilità di scelta alla personale opinione di ognuno circa ciò che può essere definito giusto o sbagliato, morale o immorale.
Al di là di questi aspetti controversi, ciò che ha imposto le idee di Thoreau nel corso del XX secolo è la sconfessione della violenza: a leggi o imposizioni ingiuste egli contrappone una sorta di resistenza passiva, la violenza non è mai indicata come alternativa percorribile in un saggio che, per questo, è considerato oggi una sorta di manuale della protesta sociale pacifica.
Eccone un estratto conclusivo:
«Non vi sarà mai uno stato realmente libero e illuminato, finché lo stato non giunga a riconoscere l’individuo come un potere più elevato e indipendente, dal quale derivino tutto il suo potere e la sua autorità, e finché esso non lo tratti di conseguenza. Mi compiaccio di immaginare uno stato che alla fine possa permettersi d’essere giusto con tutti gli uomini, e di trattare l’individuo con rispetto come un vicino; uno stato che inoltre non consideri in contrasto con la propria tranquillità il fatto che pochi vivano in disparte, senza immischiarsi nei suoi affari e senza lasciarsene sopraffare – individui che abbiano compiuto tutti i loro doveri di vicini e di esseri umani. Uno stato che desse questo genere di frutto, e lo lasciasse cadere non appena fosse maturo, preparerebbe la strada a uno stato ancora più perfetto e glorioso, che pure ho immaginato ma che non ho ancora visto in nessun luogo».

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Henry D. Thoreau

Il pensiero della nonviolenza

la scienziata della biodiversità

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di Roberta Calandra

È nata a Dehra Dun, India del Nord. Ha studiato presso le università inglesi e americane, laureandosi in fisica. Tornata a casa, rimase traumatizzata rivedendo l’Himalaya trasformato in un groviglio di tuguri, miseria, smog, dominato dalla povertà materiale e spirituale, grazie al cosiddetto “aiuto” della Banca mondiale per il progetto di costruzione di una grande diga, e decise di dedicarsi all’ecologia.
Nel 1982 fonda nella sua città natale il Centro per la scienza, tecnologia e politica delle risorse naturali, un istituto indipendente di ricerca che affronta i più significativi problemi dell’ecologia sociale dei nostri tempi. Vandana Shiva fa parte dell’esteso movimento di donne che in Asia, Africa e America latina critica le politiche di aiuto allo sviluppo attuate dagli organismi internazionali e indica nuove vie alla crescita economica rispettose della cultura e delle comunità locali. L’incontro con le donne Cipko, che abbracciano i tronchi che stanno per essere abbattuti nelle foreste dell’Himalaya, le ha permesso di ampliare la comprensione tra i nessi di ecologia e femminismo.
Il danno maggiore prodotto dalla civiltà industriale è, a suo parere, riscontrabile nell’equazione “donna-natura” e la definizione di entrambe come inerti, passive, materia prima da manipolare. La soluzione consiste nel riappropriarsi di un sapere che reintegri in sé un «principio femminile, conservativo, ecologico e non fondato sullo sfruttamento», sapere che la scienza baconiana ha condannato a morte. Per il patriarcato occidentale la cultura è altro dalla natura, dalla donna e così gli uomini hanno creato uno sviluppo «privo del principio femminile, conservativo, ecologico» e fondato sullo «sfruttamento delle donne e della natura».
Nel suo libro Staying alive: Women, Ecology and Survival, pubblicato in Italia nel 1990 con il titolo Sopravvivere allo sviluppo, la scienziata denuncia le conseguenze disastrose che il cosiddetto sviluppo ha portato nel terzo mondo, minacciando la sopravvivenza stessa del pianeta attraverso la massiccia distruzione ambientale, un enorme indebitamento che spinge i paesi a spendere meno in salute pubblica, scolarizzazione e sussistenza, rendendo la gente più povera.
Nel 1991 fonda Navdanya, un movimento per proteggere la diversità e l’integrità delle risorse viventi in via di estinzione, specialmente dei semi autoctoni. Vandana Shiva ha messo in rilievo come le biotecnologie di laboratorio abbiano reso le coltivazioni molto più vulnerabili, anche perché le multinazionali agro-chimiche riproducono in laboratorio i semi selezionati dal lavoro millenario dei contadini del terzo mondo, obbligando poi quegli stessi contadini al momento della semina a pagare il “diritto d’autore” su semi, che sottratti al ciclo naturale, devono essere acquistati ogni anno. Anche per aver denunciato tutto questo, nel 1993 è stata premiata con il Right Livelihood Award, (il premio per “il retto modo di vivere”) ritenuto il Nobel alternativo per l’ecologia.
Nel 1995 ha scritto, insieme all’economista tedesca Maria Meis, il libro Ecofeminism. Da segnalare anche nel 1999 Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi locali. È del 2001 il testo Vacche sacre e mucche pazze.
Grazie alle sue numerose pubblicazioni, unite a un’instancabile azione, è attualmente considerata la teorica più significativa dell’ecologia sociale e una dei leader dell’International Forum of Globalization.
Conservare la biodiversità, promuovere l’agricoltura biologica, creare un commercio equo e difendere la diversità culturale degli alimenti sono i suoi obiettivi costanti.
Ha dichiarato: «I leader di oggi non sono leader. Sono servi delle multinazionali. Ma non ci sarà mai la storia in cui non avremo bisogno dei Gandhi, dei Mandela, degli Allende. E se non emergono come leaders politici, dobbiamo noi stessi diventare i Gandhi, i Mandela, gli Allende della nostra vita quotidiana».

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Vandana Shiva

Il pensiero della nonviolenza

la signora birmana con la forza nel cuore

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di Tiziana Colusso

«L’autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo. Senza una rivoluzione dello spirito, le forze che hanno prodotto le iniquità del vecchio ordine continuerebbero a operare, rappresentando una minaccia costante al processo di riforma e rigenerazione. Non basta limitarsi a invocare libertà, democrazia e diritti umani. Deve esistere la determinazione compatta di perseverare nella lotta, di sopportare sacrifici in nome di verità imperiture, per resistere alle influenze corruttrici del desiderio, della malevolenza, dell’ignoranza e della paura» (Libera dalla paura, Sperling &amp; Kupfer, Milano 1998).

Aung San Suu Kyi è una lezione vivente perché la sua esperienza unisce in una formula particolare e irripetibile una serie di elementi diversi: la sua vicenda personale di figlia di un eroe della resistenza birmana, Aung San, ucciso dagli avversari nel 1947, quando Suu Kyi aveva appena due anni; una forte preparazione storica e culturale, approfondita durante gli anni a Oxford, dopo il matrimonio con un orientalista inglese; una incrollabile fede nei principi buddisti della nonviolenza e del dialogo, che le ha permesso di attraversare miracolosamente indenne, come un fiore di loto nel fango, decenni di prigionia, aggressioni, campagne diffamatorie, isolamento; e – last but not least – un’attitudine tutta femminile a ciò che gli inglesi definiscono to care, il prendersi cura, preoccuparsi per qualcuno o qualcosa con sollecitudine e compassione: è profondamente significativo che la sua decisione, nel 1989, di lottare in prima persona per la democrazia del suo paese si sia manifestata insieme alla cura che in quel momento Suu Kyi prestava alla madre morente. Curare la madre che l’aveva messa al mondo, voler guarire dal male della dittatura la terra nella quale era nata e al tempo stesso onorare la memoria del padre morto per difendere la libertà della Birmania, deve essere stato per Suu Kyi uno stesso gesto di amore e di gratitudine: almeno io così lo immagino, anzi ne sono sicura, con la miracolosa esattezza del cuore.
Tutti questi elementi hanno contribuito a fare di Aung San Suu Kyi un simbolo, ossia una persona che trascende se stessa per diventare una voce universale. Essere un leader carismatico implica una responsabilità estrema di fronte a se stessi e al mondo, ed espone al rischio di “culto della personalità”: nel caso di Suu Kyi questo non è avvenuto perché i suoi saldi principi buddisti e gli anni passati a fare la madre di famiglia prima di gettarsi nella lotta in prima linea l’hanno vaccinata, per così dire, da tentazioni di protagonismo o di fanatismo: nel suo porsi di fronte alle sfide non ha la boria del comandante in capo della rivoluzione e neppure l’astratta prosopopea dell’ideologo.
È una donna fisicamente minuta, ma con un grande coraggio e una grande determinazione, come ha giustamente osservato l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, il quale con delicata ironia ha dichiarato di essere «colpito dal fatto che le tre donne insignite negli ultimi anni del Nobel per la pace – Madre Teresa, Rigoberta Menchù e Aung San Suu Kyi – condividono la caratteristica di essere piuttosto piccole fisicamente ma con una formidabile statura morale».
Al momento del bivio fondamentale della sua vita, che l’ha portata nel 1988 a lasciare la tranquilla vita di Oxford, il marito e due figli piccoli per ritornare in Birmania, Aung San Suu Kyi aveva quarantaquattro anni. Dunque il suo non è stato un gesto dettato dal «giovanile ardore», ma lo sbocco naturale di un processo interiore di maturazione personale e intellettuale, che ha trovato nella necessità contingente di tornare in Birmania per assistere la madre la scintilla necessaria per manifestarsi. È lo stesso marito di Suu Kyi, il tibetologo inglese Michael Aris, che con un amore e una dedizione ammirevoli traccia le tappe di quel percorso che ha portato l’adorata Suu Kyi ad allontanarsi da lui – almeno fisicamente – per avvicinarsi al destino che la storia le aveva riservato.
Nell’introduzione al volume di testi di Aung San Suu Kyi (edito in Italia con il titolo Libera dalla paura), lo studioso di Oxford spiega che la moglie aveva da tempo iniziato ad approfondire la storia e la cultura della Birmania, e a raccogliere dati e testimonianze sugli eventi che avevano segnato la vita di suo padre. Aveva cercato anche di realizzare qualche progetto di miglioramento concreto della vita dei suoi connazionali, tra cui quello della creazione di una rete di biblioteche, il che dimostra la convinzione di Aung San Suu Kyi sulla necessità dell’educazione e della cultura per il raggiungimento pieno della democrazia. In uno dei suoi testi sottolinea infatti che «un popolo che vuole costruire una nazione in cui siano fermamente stabilite istituzioni salde e democratiche […] deve anzitutto imparare a liberare la propria mente dall’apatia e dalla paura».
Ma evidentemente questi progetti, seguiti da lontano, non soddisfacevano ancora il bisogno di Aung San Suu Kyi di prendersi personalmente l’onere di trasformare il destino del suo popolo. Il marito ricorda che nei primi anni di matrimonio Suu Kyi si era fatta promettere che, se fosse venuto il momento per lei di impegnarsi in prima persona per il suo paese, la famiglia non avrebbe rappresentato un ostacolo. Così è stato: Michael Aris ha rispettato la sua volontà di mantenere la cittadinanza birmana, e poi quella – fatale – di tornare nel suo paese. Ha continuato ad andarla a trovare, insieme ai due figli, superando ostacoli e interferenze di ogni genere, fino a quando i visti di entrata in Birmania (che la giunta militare al potere ha ribattezzato Myanmar) non sono più stati rinnovati. Ma la sua famiglia continua a seguirla da lontano: i figli sono andati a ritirare per lei il premio Nobel che le è stato assegnato nel 1991, il marito continua a presentare appelli e a curare personalmente la pubblicazione e la diffusione dei testi scritti da Aung San Suu Kyi.
Intanto, per Suu Kyi, gli ultimi venti anni, dal 1989 a oggi, sono stati un iterarsi di eventi apparentemente sempre uguali: incarcerazioni, scarcerazioni, arresti domiciliari, finti rilasci, aggressioni a lei e ai sostenitori della Lega nazionale per la democrazia.
Recentemente, nel novembre 2003, il governo – in seguito a forti pressioni internazionali, anche in occasione del vertice dei paesi asiatici a Bali nell’ottobre 2003 – ha dichiarato che formalmente «Aung San Suu Kyi è libera di andare dove vuole», e anzi le ha promesso la libertà totale in cambio del suo esilio permanente: il problema è che l’unica terra dove lei vuole andare è la terra della democrazia, e per ottenere questo è disposta a rimanere ancora prigioniera, fino a quando la giunta governativa non libererà tutti gli oppositori in carcere (tra i quali ci sono uomini di oltre ottanta anni e donne incinte), e non riconoscerà la validità delle elezioni svoltesi nel 1990 e vinte dalla Lega per la democrazia con un’adesione plebiscitaria della popolazione birmana, pari a quasi il 90% dei voti.
Al momento dell’assunzione dell’impegno personale nella lotta per il proprio paese Aung San Suu Kyi aveva quarantaquattro anni. Oggi ne ha cinquantanove. Nata il 19 giugno del 1945, Suu Kyi compirà sessanta anni nel giugno 2005, ossia tra poco più di un anno. Desidero formulare l’augurio e l’auspicio che per quella importante tappa della vita le arrivi il regalo più grande: la libertà vera, ossia la libertà di poter lavorare insieme al suo popolo e anche insieme ai suoi attuali persecutori – secondo quello spirito di riconciliazione e di dialogo che è il fondamento stesso della sua azione – all’attuazione della democrazia nel suo paese.
Soprattutto l’augurio è di poterlo fare riunendo le due metà separate di sé: la metà che è figlia del generale Aung San, eroe dell’indipendenza birmana dal regime coloniale, e l’altra metà che è la donna minuta ma decisa Suu Kyi, moglie, madre, donna di cultura e fervente buddista: insomma quell’essere straordinario che durante i lunghi anni dei suoi arresti domiciliari, sorvegliata a vista da guardie armate, ha alternato – secondo la testimonianza di chi ha potuto avere qualche raro contatto con lei – lo studio dei sutra alla preghiera, le ore di esercizio al pianoforte alla stesura di discorsi politici, una cura della casa minuziosa e la progettazione di vaste riforme sociali ed economiche per lo sviluppo del suo paese.
Insomma Aung San Suu Kyi tutta intera, lezione vivente per tutti noi.

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Aung San Suu Kyi

di Roberta Ventura



Enrico Euli, nato vicino a Cagliari nel 1961, è da anni impegnato nei movimenti per la pace. È uno dei più noti formatori alla nonviolenza e partecipa alla Rete Lilliput. Laureato in filosofia, titolo di psicologo in tasca, insegna Metodologia e tecnica del gioco e del lavoro di gruppo all’Università di Cagliari. Lo abbiamo intervistato.



Lei viaggia in tutta Italia per tenere corsi di formazione alla nonviolenza. Ci potrebbe raccontare come è arrivato nella sua vita a decidere di fare il formatore? L’avvicinamento alla formazione, al training, è avvenuto nel periodo in cui sono stato a Comiso, dall’estate dell’82 all’autunno dell’83. [Presso l’ex aeroporto Magliocco di Comiso fu stabilita la base logistico-operativa per il dispiegamento dei missili con testata nucleare Cruise, ndr]. Eravamo in diciotto, italiani e stranieri, e dalì organizzavamo azioni all’aeroportoein paese: il campo internazionale per la pace, così ci chiamavamo.Ben presto ci siamo resi conto che dovevamo affrontare problemi di dinamica del gruppo, e soprattutto questioni legate ai processi decisionali che, a loro volta, ci dovevano portare a progettare e condurre insieme le azioni. Dopo una prima fase di entusiasmo, la situazione relazionale (e quindi “politica”) si era molto complicata. Un ragazzo tedesco che era con noi, e che conosceva l’esperienza del training in Olanda e in Germania, ha contattato dei trainer della comunità di Meth Medura e li ha invitati in Italia per fare un corso a Padova e a S. Gimignano, alla Casa della pace: qui per dieci giorni molto intensi abbiamo lavorato con loro (erano in quattro)e abbiamo iniziato a conoscere delle tecniche, a capire come funzionava la formazione lavoro attraverso il gioco, le tipiche metodologie del training, insomma.



Un training è un allenamento alla nonviolenza? 
Attualmente stiamo usando molto questa dizione: “form/azione”, proprio per cercare di marcare il nesso forte tra la formazione e l’azione, perché il training parte dall’idea che non si arrivi all’azione solo attraverso un convincimento di tipo verbale o intellettuale, ma attraverso esperienze legate alle proprie emozioni, paure, bisogni, motivazioni. È quindi nello stesso lavoro di formazione chesi fa un’esperienza di sé edegli altri, e si va a costituire un gruppo che si confronta non solo su contenuti intellettuali, ma anche su modi di pensare, premesse, sentimenti.



Quindi che cosa significa, per la sua esperienza, allenare una persona alla nonviolenza? 
Prima di tutto, il training cerca di realizzare l’idea che la nonviolenza sia comunque un esperimento, un’esperienza senza sosta che le persone fanno con se stesse e con gli altri, un mettersi in gioco, rischiando di persona e provando a conoscere i propri limiti. Questo per quanto riguarda il lavoro sul sé. Poi è chiaro che ha a che vedere anche con la capacità di stare con gli altri, collaborare, cooperare, gestire i conflitti e agire insieme. 
Nel corso di questo tipo di lavoro si vanno a toccare, quindi, livelli molto profondi anche dellavita quotidiana, del modo di stare insieme, e si mette in gioco un po’ tutto: non è soltanto un’azione politica oun’azione privata, ma è esattamente il tentativo di mettere insieme le due cose.



Che cosa si intende per “azione nonviolenta” e per “azione diretta nonviolenta”? 
L’azione nonviolenta viene intesa in senso più generale, e può essere anche una semplice azione di sensibilizzazione, di protesta generica, un corteo, una manifestazione tradizionale. 
L’azione diretta nonviolenta presuppone invece un coinvolgimento non delegante delle persone direttamente interessate al problema – o chevogliono esserne coinvolte –e cerca di colpire direttamente l’obiettivo per cui l’azione viene svolta: quindi è un’azione molto specifica, molto indirizzata, molto orientata a qualcosa di concreto.



Ma per persone singole che non fanno parte di un’associazione, per un padre/madre di famiglia, che cosa significa agire la nonviolenza nella propria vita? 
Attualmente esistono varie campagne che cercano di arrivare a queste categorie di persone, campagne legate alla scelta di stili di vita come il consumo critico, azioni che riducono i consumi come la giornata del non-acquisto, oppure situazioni che richiamano veri e propri boicottaggi di prodotti o marche. Queste sono azioni possibili anche per persone che conducono una vita “normale”. 
Poi c’è un’altra parte dell’azione nonviolenta che può essere svolta attraverso petizioni o forme di protesta anche sporadiche.



Si dice che la guerra sia voluta da una minoranzadi personee che un’altra minoranza non la voglia, e che il problema stia nell’indifferenza della maggioranza. Come si può uscire dall’indifferenza? 
Ho la sensazione che attualmente, rispetto per esempio a questa ultima guerra in Iraq, non sia stato esattamente così. Secondo me c’è una maggioranza di persone che è contraria alla guerra, ma i sistemi di rappresentanza e di informazione rendono impossibile che questa maggioranza abbia un’incidenza reale sui processi politico-decisionali. Però, costruire un movimento per la pace che sia continuativo e determinato è tutt’altra storia rispetto all’emergere di un movimento che nasce contro una guerra… Su questo lavorano purtroppo ancora solo minoranze.



Daisaku Ikeda ha scritto nella prefazione del libro La rivoluzione umana: «Una grande rivoluzione nel carattere di una sola persona... condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità...». Un argomento che rispecchia il principio buddista di unicità tra vita e ambiente, e che trasmette la convinzione che solo attraverso un processo di automiglioramento si possa raggiungere una pace duratura. Che cosa ne pensa? 
La ricerca personale è un punto essenziale del lavoro formativo. Credo che il microcosmo sia sempre una metafora del macrocosmo, e viceversa. L’importante per me è che la meditazione vada sempre a conciliarsi e a mescolarsi con il fuoco del vivere sociale, delle relazioni, delle azioni. 
Lotta e contemplazione non sono antitetiche. In questo momento, invece, continuano a sussistere troppe separazioni: ci sono persone molto coscienti che non agiscono e persone poco consapevoli e preparate in termini nonviolenti che lo fanno... 
Qualche volta ne vengono fuori anche delle cose buone, come per esempio la lotta dei cittadini di Scanzano Jonico nel novembre dello scorso anno [contro il decreto legge con il quale si individuava in quel comune il sito unico nazionale per le scorie nucleari, ndr] o alcune azioni dei disobbedienti, ma sarebbe bene che il nesso form/attivo si sviluppasse soprattutto tra gli stessi nonviolenti.



BIBLIOGRAFIA 
Percorsi di formazione alla nonviolenza, Viaggi in training, 1983-91, Pangea 1996 
Reti di formazione alla nonviolenza, Viaggi in training, 1992-98, Pangea 1999 
Guida all’azione diretta nonviolenta (con Marco Forlani), Berti 2003 
La vita in gioco, La Meridiana (in corso di pubblicazione)



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Metodi e idee in pratica

Il pensiero della nonviolenza

L'esperienza di Bienvenu Kasole, rifugiato congolese

di Carolina Scoppola Iacopini

È un bellissimo pomeriggio. Dopo tanto tempo, rivedo lo sguardo di Bienvenu Kasole, un rifugiato congolese (ex-Zaire). Ha soltanto 27 anni.
«Però mi sento come se ne avessi molti di più». Mi guarda fisso negli occhi e accenna a un sorriso. Oggi Bienvenu frequenta il terzo anno della facoltà di Scienze politiche, alla terza Università di Roma. Ha scelto il corso di laurea per diventare consulente esperto in processi di pace, cooperazione e sviluppo.
Lo scorso ottobre è stato ospite della mostra La città dei diritti umani a Sassari, per parlare delle cose dimenticate. Lui ha preferito parlare delle cose sconosciute, di quella verità che lo rende libero e che gli ha sempre permesso di andare oltre la violenza di cui è stato testimone e vittima.
E in nome di questa verità, Bienvenu ha pagato il suo ennesimo atto di estremo coraggio con l’ultimo arresto e con la tortura. Tortura di cui ancora oggi porta i segni, dentro e fuori. E tutto ciò per la sua azione di volantinaggio affinché la sua stessa gente sapesse ciò che i militari stavano escogitando per arruolare tutti i ragazzi dai quattordici anni in su: una campagna di scolarizzazione, per essere sicuri che ogni famiglia mandasse i propri figli a scuola e andare a colpo sicuro con una retata di massa: «Volevo mettere in guardia la mia gente, volevo salvare tutti quei ragazzi».
Lo guardo e mi chiedo dove abbia riposto tutta la violenza che ha visto e ha vissuto in prima persona. «Bienvenu, qual è il tuo desiderio, oggi?».
«Battermi per quella verità che ora mi fa desiderare la pace, piuttosto che la vendetta. Pace, istruzione e sviluppo per il mio paese. Oggi desidero poter fare qualcosa, da qui, per tutti coloro che sono in Congo», vittime silenziose e dimenticate dal resto del mondo, vittime di una guerra infinita e «sicuramente – aggiunge – meno fortunate di me».
«Da allora ho perso cinque familiari a causa della mia attività di denuncia. Quelle cinque persone hanno lo stesso peso dei cinque milioni di morti innocenti».
È per tutti loro che lui è qui. È per tutti loro che, oggi, ha scelto di diventare un esperto di pace.
Bienvenu è di Bukavu, la regione considerata da sempre “zona rossa”, perché al confine con il Rwanda e il Burundi e distante duemila chilometri da Kinshasa, sede del potere e del governo centrale. «È in questa regione che hanno avuto origine tutti i conflitti, dal ‘59, anno dell’indipendenza dello Zaire. Ma il governo centrale non è mai intervenuto e non ci ha mai difeso». Nella regione di Bukavu la gente parla swahili, proprio come nelle regioni confinanti del Rwanda e del Burundi. Il resto del paese parla in gran parte linghala. «E, per tutti noi – sottolinea – quella è sempre stata la lingua del potere, dei militari».
Alla fine del ’98, Bienvenu è al secondo anno di giurisprudenza e volontario dell’associazione giovanile Cojeski (Collettivo dei giovani solidali del Congo-Kinshasa) per la tutela dei diritti umani e lo sviluppo rurale. Lui, in particolare, si occupa dell’attività di lobby a livello nazionale e internazionale. «Puoi immaginare le difficoltà in un paese dilaniato dall’ennesimo conflitto. Che ancora dura. Adesso. Non è finito. Ma nessuno ne parla più».
«Nel ’96 Kabila, in accordo e con il sostegno delle truppe ruandesi, rovescia il potere di Mobutu. Ma il mancato rispetto di accordi, economici e non, fornisce l’alibi alle truppe ruandesi per occupare la zona confinante di Bukavu». Tutto questo succede nell’agosto del ’98. A dicembre dello stesso anno, si diffonde la voce dei massacri di Makobola e Kassika. Con i suoi colleghi volontari di Cojeski, Bienvenu decide di andare personalmente sui luoghi, per poter denunciare quanto accaduto, per poterlo testimoniare ad altre organizzazioni internazionali che si occupano di violazione dei diritti umani. La Human Rights Watch (osservatorio sui diritti umani) è disposta a pubblicare il materiale, ma per farlo in sicurezza deve nominare, quale fonte attendibile, l’associazione per la quale Bienvenu lavora.
«Credimi – mi dice – in una sola settimana ho dovuto cambiare ben sei posti dove potermi nascondere! Poi, durante una retata, mi arrestano insieme agli altri». Abbassa gli occhi. Si guarda le mani. Capisco che è altrove: «Sono stato dentro per quarantotto ore, completamente nudo e buttato per terra nell’acqua salata. Dopo tutto quel tempo e in quelle condizioni, il mio corpo si era tutto gonfiato e aveva cambiato colore. Dopo, ho saputo che i militari volevano trasferirmi in un altro carcere in Rwanda, dove far perdere le mie tracce, per sempre. Ma uno di loro parla con la mia famiglia e gli riferisce che sono vivo. In carcere, ma vivo. La mia famiglia, insieme all’associazione Cojeski, raccoglie i soldi sufficienti per pagare il militare che mi aiuterà a scappare».
Di notte, con indumenti militari, fugge a piedi. Sorridendo, mi dice: «Sai, all’epoca del primo conflitto, io e la mia famiglia abbiamo percorso a piedi quasi novecento chilometri in quarantacinque giorni!». Dopo due giorni, raggiunge un villaggio dove viene rifocillato e vestito e dove incontra un compagno della Cojeski. Anche lui arrestato il suo stesso giorno. Sempre a piedi raggiungono il confine con il Burundi, sotto falsa identità: i militari già sono sulle loro tracce e li cercano ovunque. I due ragazzi hanno con loro materiale sufficiente per denunciare all’ITEKA (la Lega per i diritti umani in Burundi) quello che succede in Congo.
«Ricordo bene quello che l’Associazione gesuita per i rifugiati ha fatto per noi, correndo un grandissimo rischio. – Bienvenu accenna a un sorriso – Siamo stati accolti, nascosti e messi immediatamente in contatto con la Federazione francese per i diritti dell’uomo, con Human Rights Watch e con l’ACNUR di Ginevra e di Nairobi».
Senza documenti, ricercati dalle autorità congolesi e in un paese con embargo aereo. Ma con l’aiuto economico di queste organizzazioni, Bienvenu e il suo amico riescono a prendere un aereo per Nairobi. In Kenya li arrestano, per tre settimane. Ma la macchina internazionale è al corrente della loro storia e della loro presenza in carcere in Kenya, e così vengono aiutati a raggiungere Kinshasa.
«Ma non avevi paura di rientrare nel tuo paese?»
«Kinshasa era controllata da Kabila e non dalle truppe ruandesi. E nella mia regione erano loro a cercarmi. E poi sentivo che dovevo fare qualcosa per quello che stava succedendo. Volevo riprendere la mia attività di denuncia. Volevo che tutti sapessero quali brutture venivano perpetrate in Congo, sia da Kabila e dai suoi militari, sia dalle truppe di occupazione. Andavo in giro nelle carceri, negli ospedali. Ovunque venissero violati i diritti umani. Volevo denunciare tutto quello che vedevo e che sapevo alle ambasciate occidentali presenti nella capitale». 
In quel preciso istante ripercorre con lo sguardo della memoria ogni attimo di quella giornata: «Una mattina, centoventi militari circondano l’edificio dove lavoravo e dove vivevo insieme agli altri collaboratori di Cojeski. Sequestrano tutto il materiale e arrestano le persone presenti al momento. Mi torturano per due settimane. Ma io sono stato fortunato. Il mio amico, quello con cui ero andato in Burundi, è morto in carcere, sotto tortura. Human Rights Watch, Amnesty International e la Croce Rossa mi fanno trasferire in ospedale per essere curato e, benché controllato dai militari, mi fanno avere un passaporto con visto italiano per scappare». Trascorrerà due giorni nell’Ambasciata italiana.
Mi racconta con tristezza del suo arrivo a Fiumicino. Scuote la testa. «All’aeroporto nessuno parlava francese. Mi hanno trattenuto per tre giorni senza sapere perché. Un incubo. Poi, ho dormito due giorni alla stazione Termini. Alla fine, fortunatamente, un africano mi ha aiutato, spiegandomi cosa dovevo fare, dove andare…».
Dall’arrivo in Italia ha aspettato un anno per avere lo status. E non potendo lavorare in quanto richiedente asilo ha collaborato come volontario con la Caritas a Roma, per il dossier statistico del 2001 sull’immigrazione, occupandosi dei dati relativi a Francia e Belgio. In cambio, ha ottenuto l’alloggio in un centro di accoglienza, di quelli a pagamento.
Ha scritto anche un libro, La società civile in tempo di guerra, pubblicato solo in Francia.
All’epoca della mia collaborazione con il Consiglio italiano per i rifugiati (CIR) Bienvenu era un richiedente asilo vittima di torture, come tantissimi altri.
Oggi il suo sguardo tradisce il forte desiderio di trasformare tutto quell’orrore in qualcosa di positivo, e non soltanto per sé. Grazie di cuore, Bienvenu.

(Carolina Scoppola Iacopini è ex collaboratrice del Consiglio italiano per i rifugiati, CIR)

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La verità mi rende libero

L’apostolo di Capitini

La pace si fa nel mezzo

Il sentiero del disarmo

Nonviolenza

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ALDO CAPITINI (1924-1997)
da Colloquio corale

La mia nascita è quando dico un tu.
Mentre aspetto, l’animo già tende.
Andando verso un tu, ho pensato gli universi.
Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso alle persone.
La casa è un mezzo ad ospitare.
Amo gli oggetti perché posso offrirli.
Importa meno soffrire da questo infinito.
Rientro dalle solitudini serali ad incontrare occhi viventi.
Prima che tu sorridi, ti ho sorriso.
Sto qui a strappare al mondo le persone avversate.
Ardo perché non si credano solo nei limiti.
Dilagarono le inondazioni, ed io ho portato nel mio intimo i bimbi travolti.
Il giorno sto nelle adunanze, la notte rievoco i singoli.
Mentre il tempo taglia e squadra cose astratte, mi trovo in ardenti secreti di anime.
Torno sempre a credere nell’intimo.
Se mi considerano un intruso, la musica mi parla.
Quando apro in buona fede l’animo, il mio volto mi diviene accettabile.
Ringraziando di tutti, mi avvicino infinitamente.
Dò familiarità alla vita, se teme di essere sgradita ospite.
Quando tutto sembra chiuso, dalla mia fedeltà tutti appaiono come figli.
A un attimo che mi umilio, succede l’eterno.
La mente, visti i limiti della vita, si stupisce della mia costanza da innamorato.
Soltanto io so che resto, prevedendo le sofferenze.
Ritorno dalle tombe nel novembre consapevole.
Non posso essere che con un infinito compenso a tutti.

DANILO DOLCI (1924-1997)

Voci odi,
non rumore:
imparano scoprire
toccando
udendo
guardando
sapendo,
si educano al rapporto
tra creature:
la città terrestre
è il cantiere di ognuno

più intima la zagara
di mandarino nella sera umida

da Il limone lunare
Creatura di creature

Se l’occhio non si esercita, non vede
pelle che non tocca, non sa
se il sangue non immagina, si spegne.

Pure provato da fatiche e lotte,
meravigliato dei capelli bianchi
di persistere vivo,
la tua voce
pudore ha di poetare:

a irreprimibile
esigenza,
terra acqua creature
orizzonte, ti sono adolescenti
parole.

ENDRE ADY (1877-1919)

Verranno....

Verranno giorni migliori
(qualcuno avrà la fortuna di vederli)
quando
con la nausea alla gola,
gonfi di ricordi,
sbarreremo l’accesso
ai viscidi truffatori
ai tempi di ieri.

Calmi, sommessi chiederemo
a spade vecchie ed ottuse
logore e sciocche
come preferiscano morire.
Una buona volta,
gonfi di ricordi,
porremo la domanda precisa.
Verranno migliori, i giorni.

SALVATORE QUASIMODO (1901-1968)
da Oboe sommerso

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

VLADIMIR MAJAKOVSKIJ (1893-1930)
da Frammenti

Conosco la forza delle parole, campane a stormo.
Non sono quelle cui plaudono i palchi.
Sono parole per cui si scoprono le bare
e marciano con le loro quattro zampe di quercia.
A volte gettano via le parole, senza strapparle senza pubblicarle.
Ma la parola corre, assestate le cinghie,
fa risuonare i secoli e treni strisciano
a leccare le mani callose della sua poesia.
Conosco la forza delle parole. Pare un niente.
Un petalo sfiorito, sotto i tacchi della danza.
Ma l’uomo con l’anima, con le labbra, con le ossa....

RUDYARD KIPLING (1865-1936)

Se

Se non perdi la testa quando tutti intorno a te
la perdono e se la prendono con te,
se confidi in te stesso quando tutti dubitano,
ma tieni conto anche dei loro dubbi,

se attendi e non ti stanchi dell’attesa,
o calunniato non ti dai alla calunnia,
o odiato non ti fai prendere dall’odio,
ma non fai troppo il santo, o il sapientone:

se sogni – ma dai sogni non ti fai dominare
se pensi – ma dei pensieri non fai il tuo scopo;
se affronti il Trionfo e la Rovina
e tratti i due impostori in un solo modo,
se sopporti di udire la verità che hai detto
distorta da furfanti in una trappola per sciocchi,
o vedi le cose a cui hai dato la vita, infrante,
e ti pieghi a ricostruirle con arnesi arrugginiti:

se fai un solo mucchio di tutte le tue vincite
e le rischi in un solo colpo a testa e croce
e perdi e inizi da capo un’altra volta,
senza mai dire nulla sulle cose perse;
se sai forzare cuore, nervi e lena
al tuo servizio e oltre il cedimento
e resti forte quando in te non c’è più nulla
se non la volontà che dice loro “Resistete!”

Se sai parlare alle folle e serbare la virtù,
o marciare con i re – senza perdere il favore popolare,
se non ti lasci ferire da nemici o cari amici,
se tutti contano per te, ma troppo mai nessuno;
se sai riempire l’inesorabile minuto
di secondi che valgano la distanza percorsa,
tua è la terra e tutto ciò che è in essa,
e di più, ancora, figlio mio, sarai uomo.

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Il pensiero della nonviolenza

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