BS 115 / 1 marzo 2006

Verso l'epoca di un nuovo popolo. Il grande cammino della pace

Proposta di pace 2006

di Daisaku Ikeda - presidente della Soka Gakkai Internazionale

GUIDA ALLA LETTURA

Come ogni anno, il 26 gennaio 2006, in occasione del trentunesimo anniversario della giornata della Soka Gakkai Internazionale, Daisaku Ikeda, in qualità di suo presidente, ha presentato all'Assemblea generale delle Nazioni Unite una Proposta di pace intitolata Verso l'epoca di un nuovo popolo. Il grande cammino della pace.

La Proposta 2006, che presentiamo nelle pagine successive in versione integrale, parte dall'analisi delle catastrofi naturali e del terrorismo che hanno minacciato la società mondiale nell'anno da poco concluso, i cosiddetti problemi globali di fronte ai quali non si può rimanere indifferenti, che pare spingano verso una situazione senza via d'uscita.

«QUESTI SONO I PROBLEMI ENDEMICI DELLA CIVILTÀ E DELLA STORIA DEGLI ESSERI UMANI. SE ABBIAMO TROPPA FRETTA POSSIAMO SCORAGGIARCI A CAUSA DELLA LUNGA DISTANZA DA PERCORRERE PER REALIZZARE UNA CIVILTÀ MONDIALE. [...]
PENSO CHE A CAUSA DELLE CIRCOSTANZE CHE SI SONO VENUTE A CREARE, CHE NON SONO UN INIZIO IDEALE PER UN NUOVO SECOLO, SI SIA AMPLIFICATA LA SENSAZIONE DI ANDARE ALLA DERIVA, SENZA UNA META CHIARA E CON UN'ANSIA MAI PROVATA FINO A ORA.
IN TALE SITUAZIONE, PER FRONTEGGIARE GLI OSTACOLI DOBBIAMO SPOSTARE LO SGUARDO DAL GENERALE AL QUOTIDIANO. PENSO CHE, PER QUANTO SIA GRANDE IL PROBLEMA, SE LO COLLOCHIAMO NELLA VITA DI TUTTI I GIORNI DIVENTA CHIARA LA SUA VERA NATURA E POSSIAMO TROVARE UNA SOLUZIONE DURATURA E FRUTTUOSA».

A quel punto, Ikeda indica qual è il pericolo che incombe sugli esseri umani nella civiltà contemporanea: quello di diventare "INDIVIDUI SPOGLIATI" che, avendo perso i legami e le relazioni con i propri simili, vivono dominati dalle passioni e dagli istinti.

«LA CIVILTÀ MODERNA HA CONCENTRATO LE PROPRIE ENERGIE NEL LIBERARE GLI ESSERI UMANI DA TUTTE LE RESTRIZIONI E I VINCOLI CON LO SCOPO DI OTTENERE UN "INDIVIDUO LIBERO". IL RISULTATO È STATO L'OTTENIMENTO DI GRANDI RICCHEZZE E PROFITTI, MA SI È PERSO MOLTISSIMO, PIÙ DI QUANTO SI SIA ACQUISITO. LA FAMIGLIA, LE COMUNITÀ REGIONALI E LAVORATIVE, LE ORGANIZZAZIONI RELIGIOSE, IL GRUPPO, LO STATO E ANCHE LA NATURA: L'INDIVIDUO LIBERO, CHE HA PERSO I LEGAMI CON TUTTO CIÒ, E ANCHE I VINCOLI CHE NE DERIVAVANO, COSA POSSIEDE REALMENTE?».

Come soluzione Ikeda propone la riscoperta e la rivalutazione dell'UMANESIMO, individuando nelle teorie del pensatore francese del Cinquecento Michel de Montaigne interessanti punti di collegamento con gli insegnamenti del Buddismo mahayana.

«PRIMA HO SOTTOLINEATO L'IMPORTANZA DI AFFRONTARE LA SITUAZIONE GENERALE ATTRAVERSO LA QUOTIDIANITÀ: QUESTO È PROPRIO L'OPERATO DI MONTAIGNE. QUANDO RIFLETTIAMO SULL'UMANESIMO E SU UN'ETICA CHE POSSA FORMARE CITTADINI DEL MONDO CAPACI DI SOSTENERE L'EPOCA GLOBALE, CREDO CHE NON CI SIA PERSONA PIÙ QUALIFICATA DI LUI DA ADOTTARE COME ESEMPIO».

Un altro punto di contatto è la sua prospettiva di universalità nei confronti non solo degli esseri umani ma anche della natura, degli animali e delle piante.

«IL SUO PENSIERO È DIVERSO DA QUELLO TRADIZIONALE, SECONDO IL QUALE GLI ESSERI UMANI TRACCIANO UNA CHIARA LINEA DI DEMARCAZIONE TRA SÉ E LA NATURA, MENTRE HA DEI PUNTI IN COMUNE CON PRINCIPI BUDDISTI COME QUELLO CHE AFFERMA CHE "TUTTI GLI ESSERI VIVENTI POSSIEDONO LA NATURA DI BUDDA". SE QUESTI PENSIERI INFLUENZASSERO LE TENDENZE DEL NOSTRO TEMPO, POTREMMO DAVVERO TROVARE UNA VIA D'USCITA DALLA DISTRUZIONE AMBIENTALE».

Ikeda prende poi in esame un'altra caratteristica di Montaigne: quella di essere un eccellente MODELLO PRATICO di UMANESIMO.
Tredici anni fa, in occasione di una conferenza che tenne in California, Ikeda propose tre modelli concreti basati sull'umanesimo buddista: 1. l'approccio graduale, 2. l'uso del dialogo, 3. la centralità della personalità dell'individuo. Ikeda fa notare come questi tre punti corrispondano al percorso di Montaigne.

«L'APPROCCIO GRADUALE [NON ARRIVARE A DISTRUGGERE CIÒ CHE SI VUOLE CAMBIARE] FINISCE NATURALMENTE CON L'UTILIZZARE COME MEZZO IL DIALOGO.
MONTAIGNE [...] CONTINUA A CONSIDERARE LA PERSONALITÀ COME PERNO DI TUTTO: "IL NOSTRO GRANDE E GLORIOSO CAPOLAVORO È VIVERE COME SI DEVE. TUTTE LE ALTRE COSE, REGNARE, AMMASSAR TESORI, COSTRUIRE, NON SONO PER LO PIÙ CHE APPENDICI E AMMENNICOLI"».

Nella seconda parte della Proposta Ikeda presenta una serie di indicazioni pratiche per assicurare la convivenza pacifica e armoniosa dei popoli nel mondo.
Innanzitutto, per quanto riguarda il ruolo dell'ONU, ricordando la recente istituzione del Consiglio per i diritti umani e della Commissione per la costruzione della pace, sottolinea l'importanza di una riforma delle Nazioni Unite che faccia perno sulla dignità umana.
Seguono varie riflessioni sul problema ambientale e alcune considerazioni sul Giappone, che può svolgere un ruolo importante partendo dalle misure da adottare contro l'effetto serra e da iniziative come il Decennio dell'educazione allo sviluppo sostenibile.

Infine, invita a sensibilizzare l'opinione pubblica verso la costruzione di una cultura della pace promuovendo l'educazione al DISARMO NUCLEARE

«COME PROCESSO NECESSARIO PER LA TRASFORMAZIONE DEL TESSUTO SOCIALE, AFFINCHÉ SIA POSSIBILE OPERARE IL PASSAGGIO DA UNA CULTURA DELLA GUERRA, BASATA SULLO SCONTRO E IL CONFLITTO, A UNA CULTURA DELLA PACE BASATA SULLA COOPERAZIONE E SULLA CONVIVENZA. [...]
INFATTI, LO SCOPO FINALE NON È IL DISARMO NUCLEARE DI PER SÉ, MA UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA E DEL MODO DI PENSARE, GRAZIE AL QUALE DOVREMMO ARRIVARE A PERCEPIRE CHE LA REALIZZAZIONE O MENO DELLA PACE MONDIALE È UN PROBLEMA STRETTAMENTE LEGATO A OGNUNO DI NOI.
LA PACE NON È SOLO ASSENZA DI GUERRE. UNA VERA SOCIETÀ PACIFICA È QUELLA IN CUI È POSSIBILE PER OGNI PERSONA COSTRUIRE UNA VITA FELICE, DOVE OGNI ESSERE UMANO POSSA MANIFESTARE APPIENO LE PROPRIE POTENZIALITÀ SENZA RISCHIARE DI SUBIRE MINACCE ALLA PROPRIA DIGNITÀ».

I pericoli che minacciano l'umanità

Il 2005, che ha rappresentato uno storico punto di svolta per aver segnato i sessant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, è stato purtroppo anche l'anno in cui si sono presentate nuove improvvise minacce che hanno sconvolto la vita quotidiana di milioni di persone.
Numerose catastrofi naturali hanno profondamente scosso la società a livello internazionale che, ancora incredula di fronte alle devastazioni causate dal terremoto e dallo tsunami avvenuto in Indonesia nel dicembre del 2004, ha dovuto assistere ad altre due sciagure che hanno provocato danni ingentissimi: l'alluvione in India del mese di luglio e l'uragano Katrina che ha colpito il sud degli Stati Uniti in agosto.
Mentre diverse regioni dell'Africa occidentale venivano flagellate dall'invasione delle cavallette e dalla siccità, aggravando il problema della penuria di cibo, a ottobre nel Pakistan settentrionale si è verificato un violento terremoto che ha provocato 73.000 vittime e lasciato circa tre milioni di persone senzatetto.
In America in particolare gli allagamenti hanno paralizzato la vita dei centri urbani e ridotto i cittadini in condizioni di vita miserevoli mostrando, con lampante chiarezza, la vulnerabilità e l'incapacità anche dei paesi avanzati di fronteggiare i danni legati alle catastrofi ambientali.
E su un mondo provato dalla violenza delle calamità naturali cala l'ombra scura degli attacchi terroristici che coinvolgono ovunque le persone comuni.
A Londra lo scorso 7 luglio in tanti hanno perso la vita nell'attentato terroristico coordinato che ha colpito autobus e metropolitane. Questo avvenimento ha provocato un grande sgomento nell'opinione pubblica mondiale, concentrata a seguire lo svolgimento del Summit del G8 che proprio in quei giorni si riuniva in Scozia con grande dispiego di sistemi di sicurezza.
In seguito altri attentati in Egitto, a Bali, in Indonesia e in Iraq hanno continuato a colpire semplici cittadini; la tendenza agli atti di violenza indiscriminata si rafforza sempre di più.
Non solo aumentano i conflitti e i crimini generati dall'incapacità di mediare tra le diversità culturali, ma l'incremento del numero degli immigrati porta a un inasprimento dei contrasti con la società del paese ospitante. A partire dal 2003 nella regione del Darfur, nel Sudan occidentale, la popolazione locale è stata assalita da miliziani arabi che hanno ucciso migliaia di persone, mentre circa un milione e novecentomila profughi si sono rifugiati in altre aree del paese. Le Nazioni Unite hanno definito questo fatto come la più grave crisi umanitaria al mondo ma nonostante ciò si è ancora lontani da una sua risoluzione.
In America, a partire dagli anni novanta, i crimini legati all'odio razziale e all'intolleranza religiosa hanno purtroppo assunto nuova rilevanza. Dopo l'attentato dell'11 settembre sembra siano ulteriormente aumentati gli atti di violenza e discriminazione contro coloro che professano la religione islamica.
Tra l'ottobre e il novembre dello scorso anno la questione dell'integrazione degli immigrati è sfociata nei disordini che hanno serpeggiato in tutta la Francia, diventando un problema sociale che ha portato addirittura alla proclamazione dello stato di coprifuoco.
La rapidità del processo di globalizzazione ha come conseguenza anche l'aggravarsi del problema della diffusione delle malattie infettive. Al momento attuale in Africa si sta facendo sempre più grave il pericolo rappresentato dall'AIDS e dal virus dell'HIV, che hanno sinora provocato più di venticinque milioni di morti, mentre il numero di bambini rimasti orfani a causa dell'AIDS supera i quindici milioni. Nel mondo si stima che quaranta milioni di persone siano state contagiate dal virus dell'HIV.
Si affaccia inoltre la minaccia della pandemia del nuovo tipo di influenza, e gli scienziati ritengono che se il virus si diffondesse le conseguenze sarebbero simili a quelle della influenza spagnola che imperversò all'inizio del ventesimo secolo.

L'individuo "libero" e l'individuo "spogliato"

Ho finito di elencare i punti più importanti di fronte ai quali non si può rimanere indifferenti, i cosiddetti problemi globali che ci spingono verso una situazione senza via d'uscita. Come mostrano il surriscaldamento dell'atmosfera terrestre e la povertà, che è il focolaio del terrorismo, essi sono strutturalmente un tutt'uno con la globalizzazione dell'economia e della finanza, il cosiddetto lato "positivo" della globalizzazione, così come l'estensione su scala globale della società "telematica" basata su Internet.
Questi sono i problemi endemici della civiltà e della storia degli esseri umani. Se abbiamo troppa fretta possiamo scoraggiarci a causa della lunga distanza da percorrere per realizzare una civiltà mondiale. Come dice lo slogan del movimento ambientalista, bisogna "pensare globalmente, agire localmente".
Penso che a causa delle circostanze che si sono venute a creare, che non sono certo un inizio ideale per un nuovo secolo, si sia amplificata la sensazione di andare alla deriva, senza una meta chiara e con un'ansia mai provata fino a ora.
In tale situazione, per fronteggiare gli ostacoli dobbiamo spostare lo sguardo dal generale al quotidiano. Penso che, per quanto sia grande il problema, se lo collochiamo nella vita di tutti i giorni diventa chiara la sua vera natura e possiamo trovare una soluzione duratura e fruttuosa.
L'autunno scorso, nello spazio dedicato alle recensioni del Seikyo Press ho letto l'introduzione a un libro intitolato Enough (Abbastanza) di Bill McKibben. Il sottotitolo recitava: Staying Human in an Engineered Age (Restare umani in un'epoca tecnologica). La tecnologia - afferma lo scrittore - che ultimamente è arrivata a operare anche sui geni del sistema riproduttivo mettendo in pericolo, se incontrollata, il fondamento per cui l'essere umano è un essere umano, provocherà la fine dell'umanità.
In questo libro l'autore, guardando al progresso della civiltà moderna dopo la Rivoluzione industriale, afferma: «Il punto più evidente è che il processo di cambiamento è andato in un'unica direzione: la rinuncia del contesto generale in cambio della libertà del singolo». E ci avverte che la fine è prossima: «Adesso noi - questo è il nocciolo della questione - ci troviamo in un momento critico in cui si può estinguere l'individuo stesso».
La civiltà moderna ha concentrato le proprie energie nel liberare gli esseri umani da tutte le restrizioni e i vincoli con lo scopo di ottenere un "individuo libero". Il risultato è stato l'ottenimento di grandi ricchezze e profitti, ma si è perso moltissimo, più di quanto si sia acquisito. La famiglia, le comunità regionali e lavorative, le organizzazioni religiose, il gruppo, lo Stato e anche la natura: l'individuo libero, che ha perso i legami con tutto ciò, e anche i vincoli che ne derivavano, cosa possiede realmente?
Quello che vive ora non è che finzione, e finirà col diventare un "individuo spogliato" che mostra apertamente la propria avidità.
Ulrich Beck, un perspicace sociologo tedesco, è noto per aver definito l'epoca attuale come "società del rischio" («la società globale del rischio»1): il mondo moderno, a suo avviso, è minacciato da un rischio impossibile da prevedere. Se a tale visione si unisce una teorizzazione dell'individualismo, emerge chiaro il nucleo del problema.

Le "incredibili" vicende di questi ultimi tempi

Il problema deriva dal "singolo individuo". Se non si comprende bene questo punto, penso che non si possa trovare una via d'uscita di fronte a tali questioni generali che danno un forte senso di impotenza.
In questi ultimi tempi, in relazione a vicende particolari che vanno al di là dell'immaginazione o del senso comune, la gente sempre più spesso fa commenti del tipo "una vicenda incredibile" o "un evento di cui non si comprende il motivo".
Se lo spazio che esiste tra gli esseri umani costituisce un elemento fondamentale della loro stessa natura, allora nell'"individuo spogliato" non resta alcuno spazio del genere. E non essendovi questo spazio, per "l'individuo spogliato" non esistono gli altri. Di conseguenza, venendo a mancare la consapevolezza dello spazio fra sé e gli altri, viene meno anche il controllo della propria avidità.
Kunio Yanagida, che ha analizzato la delinquenza minorile dopo la vicenda del "ragazzo A" nella città di Kobe - un caso che ha provocato un grande shock in tutto il Giappone - esprime in tono pacato quanto segue: «In questo momento è davvero difficile comprendere la vera causa di questi delitti. Però c'è un punto che caratterizza quasi tutti i ragazzi che hanno commesso crimini efferati: la presenza di un meccanismo mentale talmente egocentrico da non riuscire a provare dolore per gli altri».2
La maggior parte delle ansie e delle inquietudini "quotidiane" dell'essere umano avrebbero origine da tale egocentrismo, la caratteristica principale dei crimini odierni.
A tale proposito vorrei portare ad esempio Fëdor Michajlovi Dostoevskij e il suo scritto Memorie da una casa di morti, una cronaca sublime in cui racconta la sua esperienza di deportazione in un carcere della Siberia durata quattro anni, sottolineando la compassione e la compartecipazione che provava la gente del posto nei confronti dei criminali e dei delinquenti. «Commettere un crimine è male, ma chiunque al loro posto non avrebbe potuto fare altro, benché sia un delitto imperdonabile».3 L'impressione è che il delitto da cosa "incomprensibile" diventi cosa "comprensibile"; come se alla gente del posto si stringesse il cuore di fronte alla sofferenza dei criminali, al punto da chiamare il crimine "sfortuna" e il criminale "uomo sfortunato". Pur se separati da mura o da reti di filo spinato, era sufficiente la comunicazione cuore a cuore.
Oggi il problema - la patologia della società moderna, di cui la delinquenza minorile non è altro che la punta dell'iceberg - sta nel fatto che stiamo perdendo quasi tutte queste forme di comunicazione.
Com'è possibile sentirsi compartecipi dell'atteggiamento scandalosamente disteso di uomini che, colpevoli di crimini efferati, vediamo apparire in televisione a difendere i propri interessi e che appena qualcuno obietta qualcosa su di loro abbassano la testa? Molte persone sono state colte da profonda irritazione per la totale indifferenza di tali individui nei confronti del "dolore delle altre persone".
Ecco l'ansia e l'instabilità che "l'individuo spogliato" porta con sé. Qui troviamo la prova inconfutabile che contraddistingue "l'individuo spogliato" da un altro normale e sano.
Si dice che "la natura teme il vuoto": se gli esseri umani vogliono rimanere tali, non potranno sopportare questa situazione all'infinito.
Le persone colte sono molto sensibili al cambiamento dei tempi. Per esempio Taichi Sakaya sostiene che dovremmo mirare a "una società intessuta di buone relazioni", mentre al giorno d'oggi stiamo rischiando il crollo di qualsiasi legame, di sangue, di origine geografica, di lavoro, della rete che forma la società.4
Masakazu Yamazaki invita l'individuo del mondo globale, rimasto solo nello «spazio infinito in cui non risponde anche se viene chiamato», a trasformarsi in una «persona che ha relazioni sociali».5 Tali indicazioni nascono dalla considerazione che gli esseri umani non possono vivere senza relazioni e rapporti interpersonali.

Il nucleo essenziale e la convinzione della Soka Gakkai

Benché si parli di "società intessuta di buone relazioni" o di "persona che ha relazioni sociali", chi attiva tutto ciò è, in ultima analisi, il singolo essere umano.
Se in ogni individuo mancasse l'intenzione e l'aspirazione a partecipare e a portare avanti tali relazioni a partire da sé, anche la società nel suo complesso non potrebbe continuare a esistere.
Invece di cadere facilmente in una "individualità libera" o in una individualità assolutamente spoglia, colta nella sua più assoluta "nudità", ritengo piuttosto che sia ormai divenuta pressante l'esigenza di una base, di un punto d'appoggio su cui forgiare attivamente e intenzionalmente una "individualità salda".
Nella situazione attuale, in cui non è improbabile che la civiltà scompaia persino a livello individuale, c'è forse un altro modo per squarciare tale oscurità se non rivolgere direttamente l'attenzione a questo problema?
Non è forse impossibile aprire l'orizzonte a una nuova civiltà se non si fa emergere la vitalità dei popoli?
Sono ormai più di trent'anni che aspiro all'epoca del "nuovo popolo", basandomi sulla convinzione che questo giorno arriverà.
Il messaggio buddista che stiamo diffondendo, e il movimento umanistico che si basa su tale insegnamento, devono essere in grado di rispondere alla pressante richiesta di un'era nella quale si forgino quelle "individualità salde" a cui prima mi riferivo.
Riguardo a questo punto mi torna in mente l'interessante parere espresso nei confronti della Soka Gakkai da parte di Jan Swyngedouw, studioso belga di religioni e docente emerito dell'Università Nanzan di Nagoya, residente in Giappone da molti anni.
Swyngedouw, basandosi sui suoi venti anni e più di esperienza della società e delle religioni giapponesi, ha affermato che la caratteristica della Soka Gakkai, diversamente dalla religiosità tradizionale dei giapponesi, è quella di avere una "convinzione" (giapp. kakushin) di fede, che si ritrova anche nel suo "nucleo essenziale" (giapp. kakushin), nel suo "cuore" pulsante di religione capace di far prendere coscienza dell'intrinseco valore dell'essere umano. Quando questi due kakushin ("nucleo essenziale" e "convinzione") formano la spina dorsale di un individuo, di conseguenza egli darà un valido contributo alla pace mondiale.
«Si dice spesso che il Giappone sia la terra di wa o dell'"armonia". Tuttavia ritengo che tale wa non debba limitarsi solo al Giappone. Il wa a cui si stanno dedicando Daisaku Ikeda e i membri della Soka Gakkai è lo stesso di hei-wa, il termine giapponese che sta per "pace", con la differenza che questa volta esso ha come oggetto il mondo intero [e non più unicamente il Giappone]. Ritengo quindi che tale movimento sia l'indice di un grande mutamento all'interno del mondo religioso giapponese».6
Credo di poter dire che il professor Swyngedouw abbia colto con grande perspicacia l'essenza del nostro movimento.
Anni fa Fukuzawa Yukichi, lamentando il fatto che la tradizione religiosa giapponese, in particolare nel periodo di Edo (1600-1868), fosse completamente asservita al potere, affermò con decisione: «Credo sia ormai possibile dire che in tutto il Giappone non esiste più alcuna religione».7
Sono convinto che Swyngedouw abbia avvertito nel nostro ideale di auto realizzazione basato sul Buddismo di Nichiren la possibilità di contraddire una siffatta affermazione.
Tuttavia i tempi corrono e ora più che mai il ruolo che la religione dovrebbe assumere è proprio quello di forgiare delle salde individualità che sappiano farsi adeguatamente carico dell'era della globalizzazione.

Un moralista che ha affrontato le guerre di religione

In questi ultimi anni ho considerato da vari punti di vista il tema dell'umanesimo basato sul Buddismo.
Adesso desidero prendere come esempio, anche per arricchire tutto ciò di cui ho parlato finora, Michel de Montaigne, caposcuola del moralismo francese del XVI secolo, un pensatore che non ha alcun legame con la tradizione buddista, ma che attraverso i suoi pensieri e le sue azioni ha lasciato qualcosa di sorprendentemente vicino al Buddismo, in particolare al Sutra del Loto e agli insegnamenti di Nichiren Daishonin, parti integranti dell'umanesimo del Buddismo mahayana.
All'inizio dei suoi Saggi Montaigne scrive: «L'uomo è invero un soggetto meravigliosamente vano, vario e ondeggiante. È difficile farsene un giudizio costante e uniforme».8 Comincia con un'immagine fortemente emotiva, all'unisono con l'idea buddista di impermanenza della vita basata sulla relatività e variabilità dei fenomeni, e si mantiene coerente con questo pensiero. Ma non condividerà mai l'idea di chi, non accettando la frenesia dell'epoca, abbandona il mondo scegliendo la vita religiosa per isolarsi tra le montagne. Tale concezione è quella che divenne poi l'interpretazione del Buddismo più diffusa in occidente. Si lascia scappare un commento in cui afferma che preferisce scrivere nel suo castello, ma è fortemente impegnato nella società come membro del Parlamento francese, come sindaco di Bordeaux e come funzionario pubblico vicino al sovrano. Per suo piacere ama intrattenersi in discussioni con la gente comune e in quanto moralista si preoccupa per le questioni di questo mondo.
Considerando che durante i cinquantanove anni della sua vita l'Europa fu teatro di raccapriccianti guerre di religione, le parole dei Saggi portano con sé luci e ombre simili a "fiori di loto che emergono dalla melma".
Prima ho sottolineato l'importanza di affrontare la situazione generale attraverso la quotidianità: questo è proprio l'operato di Montaigne. Quando riflettiamo sull'umanesimo e su un'etica che possa formare cittadini del mondo capaci di sostenere l'epoca globale, credo che non ci sia persona più qualificata di lui da adottare come esempio.

La vita quotidiana come punto di partenza degli ideali

Nei Saggi Montaigne scrive: «Essi vogliono mettersi fuori di se stessi e sfuggire all'uomo. È follia: invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece d'innalzarsi, si abbassano».9
È impossibile evitare di confrontarsi con "circostanze quotidiane" come quella di essere se stessi in quanto esseri umani.
Nel Gosho è scritto: «Qui un singolo individuo viene usato come esempio, ma la stessa cosa si applica egualmente a tutti gli esseri viventi».10 Lo spirito universale di Montaigne non è altro che una visione aperta basata su una continua riflessione sull'"individuo", cioè "se stesso come essere umano".
Lo sguardo universale di Montaigne si concentra sulle differenze e sui contrasti tra la vecchia religione (il Cattolicesimo) e la nuova (il Protestantesimo): se in nome della religione si fanno discriminazioni, le stesse possono essere superate in nome dell'essere umano.
Nei Saggi scrive ancora: «Paragonate i nostri costumi a un maomettano, a un pagano; voi rimanete sempre al di sotto».11 «Non c'è inimicizia tanto eminente quanto quella cristiana».12 «La nostra religione è fatta per estirpare i vizi; essa li protegge, li alimenta, li eccita».13 Anche se si riconosce cattolico, Montaigne rimane sempre lontano dalla religiosità, e pur essendo solitamente un uomo prudente e calmo nei modi, rimprovera implacabilmente coloro che in nome della religione guardano dall'alto in basso gli esseri umani.
In un'epoca in cui non esisteva ancora l'espressione "libertà di religione", possiamo comprendere il suo coraggio anche dal fatto che aveva inserito, nel suo libro, un capitolo dal titolo "Della libertà di coscienza".
La vastità dell'universalismo di Montaigne supera il pregiudizio razziale senza la minima difficoltà. Per lui l'ideologia del barbaro colonialismo "civilizzatore" era solamente una chimera senza valore, nella quale però, al contrario, quasi nessuno nutriva dubbi.
Le parole coraggiose e imparziali che descrivono le sue impressioni sui nativi brasiliani sono piene di calore: «Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontandoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie».14
Montaigne è ben lontano dalla discriminazione e dal pregiudizio razziale, a differenza di tanti altri che a tutt'oggi se ne lasciano ammaliare.
Infatti egli cita la famosa definizione di Socrate come "cittadino del mondo". «Domandarono a Socrate di dove fosse. Non rispose "di Atene", ma "del mondo". Lui, che aveva la fantasia più ampia e più vasta, abbracciava l'universo come la sua città, estendeva le sue conoscenze, la sua compagnia e i suoi affetti a tutto il genere umano, non come noi che guardiamo soltanto sotto di noi».15 Dalla visuale universale da cui guarda Montaigne non vi sono diversità o differenze. Voglio considerare due delle sue affermazioni: in una fa notare che se si paragonano un contadino a un sovrano, i nobili alla plebe, un funzionario a un comune cittadino, un uomo ricco a uno povero, le differenze saltano subito agli occhi, ma la realtà è che l'unica differenza sta nei pantaloni che indossano. In un'altra affermazione dice che ha incontrato tanti artigiani e contadini più felici e più saggi dei rettori universitari e che preferisce pensarla come i primi.
Irride al sistema delle classi sociali sotto il regime feudale ma non per questo si rispecchia nel radicalismo, e non nega la classe dei nobili di cui egli stesso fa parte. È un uomo di rara liberalità e tolleranza, che però non sono in contraddizione con le sue convinzioni conservatrici. Qui si trova la grandezza incomparabile del suo pensiero.
In un Gosho è scritto: «Poiché sono nato nel dominio del governante, devo obbedirgli nelle azioni. Ma non gli debbo obbedienza in ciò che credo nel mio cuore».16 Anche Montaigne fece un'affermazione del genere, e credo che di fronte alla realtà si sia sempre pronunciato contro gli spargimenti di sangue e a favore del gradualismo.

In ogni vita c'è sensibilità

Un altro punto interessante di Montaigne è la sua prospettiva di universalità nei confronti non solo degli esseri umani ma anche della natura, degli animali e delle piante.
Nel capitolo intitolato "L'apologia di Raymond Sebond" afferma di voler cancellare il presunto e illusorio diritto al controllo sugli animali detenuto da noi esseri umani. Continua dicendo che vuole rendere omaggio non solo agli animali - che hanno vita e sentimenti - ma anche agli alberi e alle piante e al senso di responsabilità della specie umana.
Il suo pensiero è diverso da quello tradizionale, secondo il quale gli esseri umani tracciano una chiara linea di demarcazione tra sé e la natura, mentre ha dei punti in comune con principi buddisti come quello che afferma che "tutti gli esseri viventi possiedono la natura di Budda". Se questi pensieri influenzassero le tendenze del nostro tempo, potremmo davvero trovare una via d'uscita dalla distruzione ambientale.
C'è un'altra frase che esemplifica i suoi interrogativi: «Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?».17 È una frase interessante e umoristica allo stesso tempo, comunque mi sembra che questo relativismo verso la vita ci indichi come dovrebbe essere la nostra relazione con gli animali domestici.
Prendendo Montaigne come esempio ho voluto trattare l'"etica del cittadino globale" all'interno del pensiero umanista. Allo stesso tempo vorrei prendere in esame un altro aspetto di Montaigne riguardo all'umanesimo: quello di esserne un modello pratico per eccellenza. Anche sotto questo profilo è ammirevole il fatto che il filosofo, più di quattrocento anni fa, scrivesse testi che oggi si possono ritenere esempi utili.
Nel gennaio di tredici anni fa, in occasione di una conferenza che tenni presso il Claremont Mckenna College in California,18 ho proposto tre modelli concreti basati sull'umanesimo buddista:
1. l'approccio graduale;
2. l'uso del dialogo;
3. la centralità della personalità dell'individuo.
Dopo un attento esame si può notare come questi tre punti corrispondano al percorso di Montaigne.
Innanzitutto "l'approccio graduale". Leggendo una prima volta i Saggi di Montaigne l'impressione che si evince è il potere e il ruolo che hanno le "consuetudini".
«E insomma, secondo me, non c'è nulla che essa non faccia o che non possa: e con ragione Pindaro, a quanto mi è stato detto, la chiama regina e imperatrice del mondo»,19 «Spetta alla consuetudine dar forma alla nostra vita, come le piace; in questo essa può tutto: è il filtro di Circe, che muta la nostra natura come le pare».20
Qui c'è l'originalità di Montaigne, nell'approccio alle "circostanze quotidiane" che sono di una varietà infinita. Possono essere opposte tra loro, a volte possono tingersi dei colori provenienti dalle tradizioni locali. Anche le persone che vi abitano non sono "pagine bianche", esse bevono le consuetudini attraverso il latte di cui si nutrono; dal momento della nascita si cammina dietro le abitudini. In altri termini, un "individuo libero" non esiste, non è possibile riportare a zero l'essere umano, farlo tornare a una pagina bianca, è possibile correggerlo o trasformarlo, ma cambiare le consuetudini è impossibile poiché si dovrebbe arrivare a distruggere quasi tutto ciò che si è costruito.

L'insidia del radicalismo

A maggior ragione, su scala più vasta come quella di una nazione, sebbene sia possibile qualche miglioramento parziale e progressivo basato sull'esperienza, non si può distruggere tutto e ricostruire «tutte quelle descrizioni di governi, immaginate per arte, [che] si trovano ridicole e inadatte ad esser messe in pratica».21 Questa è semplicemente una presunzione umana.
«Ma mettersi a rifondere una così gran massa e a cambiar le fondamenta d'un così grande edificio, è cosa degna di coloro che per pulire cancellano, che vogliono emendare i difetti particolari per mezzo di una confusione generale e guarire le malattie con la morte. La società è incapace di guarirsi; è così intollerante di ciò che la turba che mira solo a disfarsene, senza guardare a che prezzo».22 Ciò che lo tocca nel vivo è il conflitto sulla riforma religiosa. Pur anticipando di duecento anni il principio dei diritti umani, nei suoi Saggi non nasconde la sfiducia e un certo scetticismo nei confronti della riforma della realtà. È per questo che "lui non è solo liberale e generoso ma anche un conservatore convinto".
L'avvertimento contenuto nella sua affermazione «la novità mi disgusta, sotto qualsiasi aspetto si presenti»23 è giusto o ingiustificato, come in colui che scottato dall'acqua bollente teme anche quella fredda? Forse è bene lasciare agli storici la valutazione della rivoluzione francese e di quella russa.
Ma una cosa la possiamo affermare: i promotori delle rivoluzioni moderne erano fin troppo ottimisti sulla "duttilità" dell'essere umano e della società. Questa presunzione ha portato a giustificare la violenza, il terrorismo, il supplizio e il massacro, lasciando delle cruente cicatrici. Osservando gli effetti odierni possiamo dare ragione allo scetticismo perspicace di Montaigne.
Vorrei a questo punto analizzare il concetto di "virtù della politica", espresso nei Saggi in modo ingegnoso e con un approccio graduale, sulla base della sua esperienza negli affari pubblici.
«La virtù applicata agli affari del mondo è una virtù a parecchie pieghe, angoli e gomiti, perché si conformi e combaci con l'umana debolezza, mista e artificiosa, non dritta, netta, costante, né del tutto innocente». «Colui che va tra la folla bisogna, infatti, che si scansi, che stringa i gomiti, che indietreggi o che avanzi, cioè che lasci la dritta via secondo quello che incontra; che viva non tanto secondo sé, quanto secondo gli altri, non secondo quello che si propone, ma secondo quello che gli viene proposto, secondo il tempo, secondo gli uomini, secondo gli affari».24 A primo acchito sembra un'espressione indiretta e ambigua, ma la politica è abilità. A volte è necessario pressare, a volte bisogna ritirarsi, controllare gli interessi, conciliare opinioni diverse, considerando accordi e compromessi un fatto quotidiano, senza mirare troppo in alto. Questo brano significativo e profondo mi fa pensare alla sofferenza e alla pazienza di Montaigne uomo pubblico, che si compiace del fatto di avere un «comportamento [...] freddo, cauto e vincolato e non è fatto per resistere a una condotta licenziosa e sfrenata».25
Credo che ciò possa essere di esempio riguardo ai vari problemi che il Giappone si trova ad affrontare.

Il modo migliore per forgiare lo spirito

L'approccio graduale finisce naturalmente con l'utilizzare come mezzo il dialogo. Il brano successivo ne rivela l'importanza e il ruolo.
Nel capitolo "Dell'arte di conversare" Montaigne sottolinea la preparazione accurata necessaria per portare avanti il dialogo; vorrei soffermarmi su due punti in particolare.
Innanzitutto, come abbiamo visto, il nobile Montaigne sostiene che l'unica differenza fra i nobili e la plebe sta nei pantaloni che indossano, e afferma: «Mi preferirei buono scudiero piuttosto che buon loico».26 È un vero umanista, perché apprezza la verità del dialogo e considera il dialogo fra persone comuni una manifestazione della dignità umana.
«Io loderei un'anima a diversi piani, che sappia e tendersi e allentarsi, che si trovi bene dovunque la sua fortuna la porti, che possa discorrere col vicino della sua costruzione, della sua caccia e della sua vertenza, intrattenere piacevolmente un carpentiere e un giardiniere; invidio quelli che sanno familiarizzare con l'infimo uomo del loro seguito e intavolare una conversazione con i loro stessi famigli».27 Sa essere calmo e generoso, e ritiene possibile un approccio graduale alle "circostanze quotidiane".
Rispetta Socrate, «il maestro dei maestri»28 e si meraviglia di come «Socrate fa muovere la propria anima con un movimento naturale e comune».29 Questo «primo insegnante degli esseri umani» ha sviluppato l'intelletto, nuotando a piacimento nel «mare delle parole» e nel «mare della gente», senza utilizzare i termini tecnici della filosofia e senza scegliere le persone né tanto meno i luoghi.
In un secondo punto, in un dialogo, Montaigne scrive: «E vana è l'impresa di chi presume di abbracciare e cause e conseguenze, e di condurre per mano lo svolgimento della propria azione».30 Qui ritiene inefficace la presunzione umana di poter comprendere tutto, e considera come parti in gioco sia il destino sia un potere che supera il proprio discernimento.
«La mia riflessione sbozza un po' la materia, e la considera superficialmente nei suoi aspetti più immediati; il nocciolo e l'essenza della questione io sono solito affidarli al cielo».31 Nel campo della religione il suo atteggiamento si ricollega alla "preghiera". Se ci si dimentica di questo umile atteggiamento e ci si basa solo sulle parole, quando ci si imbatte in un ostacolo è più facile cadere nel dubbio. Da qui ad arrivare alla violenza di chiudere la discussione manca solo un passo.
Per non parlare poi della rivoluzione attraverso l'uso della forza, che spesso viviamo anche nelle nostre "situazioni quotidiane". L'atteggiamento di "chi presume", come afferma Montaigne, non è qualcosa di lontano da noi. Ad esempio l'uso della tecnologia per assecondare i propri desideri, come nel modificare i geni dei nascituri, non rappresenta altro che l'orgoglio e la presunzione umana, ed è il sintomo della loro decadenza finale.

Interrogare se stessi

Montaigne è un valido esempio anche del terzo punto: la centralità della personalità dell'individuo.
I Saggi sono pervasi dal senso di impermanenza tipica dell'oriente e dall'universalismo. Questa impermanenza è una percezione della vita che pulsa qua e là nella routine quotidiana, un concetto molto diverso dal trovare la salvezza unendosi a un'esistenza grande che supera se stessi, come il cielo e la natura, che invece traspare nel senso di impermanenza della vita, soprattutto in Giappone.
I titoli dei tre libri, suddivisi in 107 capitoli, sono conformi ai precetti di vita del popolo. Questa è l'immagine del moralista, orgoglioso di far parte della gente comune.
Questo capolavoro inizia formalmente con le parole: «Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro». «Ogni uomo porta in sé la forma intera dell'umana condizione»,32 «Ora, io voglio essere padrone di me, in ogni senso»,33 «Io che sono re della materia che tratto»,34 «Che mi vedo e m'indago fin nelle viscere, che so bene ciò che mi appartiene».35 Inizia con uno stile descrittivo e poi prosegue concentrandosi ostinatamente su di sé, vedendo le cose con lungimiranza, dove niente è costante compreso se stesso.
Continua a considerare la personalità come perno di tutto: «Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve. Tutte le altre cose, regnare, ammassar tesori, costruire, non sono per lo più che appendici e ammennicoli».36 Cosa ottiene dall'approfondire in modo completo e insistente questa ricerca? E cos'è che lo spinge a continuare a ricercare in questo senso?
Egli conclude i Saggi con le seguenti parole: «È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l'uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c'è dentro. Così abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo».37 Con il suo famoso motto: «Che cosa conosco?», Montaigne fa propria la sfida socratica di impegnarsi in un processo incessante di auto indagine, arrivando a uno stato mentale di convinzione assoluta, sradicando il dogmatismo e il fanatismo e sconfiggendo l'inganno attraverso il dubbio. Nelle ultime parole dei Saggi vi sono la base e il nucleo delle convinzioni del pensatore.

La riconquista della religione da parte delle persone

Proprio perché Montaigne aveva basi salde e un solido asse di riferimento, era in grado di colpire con critiche spietate i mali che violavano la dignità umana: le guerre di religione, la conquista delle colonie con la forza e la discriminazione delle persone in base al censo.
E poiché egli aveva raggiunto un livello di oggettività assoluta, un'oggettività emersa spontaneamente dal continuo raffronto relativo tra i fenomeni e dalle continue sovrapposizioni di dubbi su dubbi, riuscì a evitare la trappola di confondere il relativismo con l'assolutismo (trappola in cui sono caduti molti marxisti).
Questo richiama alla mia mente un commento del letterato Shigeharu Nakano sul confronto tra le opere di Soseki Natsume e quelle di Lu Xun. Egli diceva di trovare in entrambi «una profonda condivisione umana», ma nel caso di Lu Xun aggiungeva che questi non si limitava alla condivisione, ma arrivava alla decisione spontanea di voler combattere contro il male.38 A prescindere dalla differenza di temperamento, anche Lu Xun fu un eccellente moralista come Montaigne.
Credo che il limite individuato da Shigeharu Nakano in Soseki avesse la sua radice nella visione giapponese della "impermanenza". Inoltre, Jan Swyngedouw nota che il concetto tipicamente giapponese di wa con il solo significato di armonia può essere un punto debole, mentre ritiene che wa con il significato di movimento di pace e di umanesimo della Soka Gakkai, il wa di sekai-hei-wa ("pace nel mondo"), abbia grandissime potenzialità, perché probabilmente scorge nella Soka Gakkai fattori di grande importanza morale quali la perseveranza nel dialogo, lo spirito combattivo contro il male, e lo sviluppo di una personalità capace di supportare queste due caratteristiche.
La religione, la stessa che Montaigne non cessava di definire "religione per le persone", esiste proprio per forgiare questo tipo di personalità. In origine, un solido perno del Buddismo era il compimento pieno della personalità attraverso la pratica di "convertirsi a se stessi" e di "convertirsi alla Legge": «Fa' di te stesso un'isola, fa' di te stesso il tuo rifugio; non c'è altro rifugio. Fa' della verità la tua isola, fa' della verità il tuo rifugio; non c'è altro rifugio».39
Non smetterò mai di pregare affinché questa diventi la convinzione e l'essenza della personalità della gente comune e conduca alla formazione di veri cittadini del mondo.

Il rispetto della dignità umana come base per il rafforzamento delle Nazioni Unite

Vorrei ora analizzare gli strumenti concreti per la creazione di una società globale che si fondi sulla pace e la convivenza, e che veda come protagonista il popolo risvegliato.
È chiaro che il cardine di questa trasformazione deve essere l'ONU.
Si auspica una trasformazione e un rafforzamento delle Nazioni Unite per far fronte ai problemi dell'epoca attuale, in cui minacce sempre maggiori e sempre più globalmente diffuse come il terrorismo, i conflitti, la povertà, la distruzione dell'ambiente, la fame, le epidemie, superando i confini nazionali mettono a rischio la vita e la sicurezza degli esseri umani.
L'anno scorso, in occasione del 60esimo anniversario dalla fondazione dell'ONU e sull'onda dei vari e molteplici dibattiti sul tema della riforma delle Nazioni Unite, il segretario generale Kofi Annan ha diffuso a marzo un rapporto dal titolo Perseguendo una libertà più grande.
In esso è racchiusa un'analisi generale della missione delle Nazioni Unite e della direzione che la riforma dovrebbe prendere percorrendo queste tre linee: libertà dalla povertà (ovvero sviluppo), libertà dal terrore (ovvero sicurezza) e libertà di vivere nel rispetto della dignità umana (ovvero diritti umani).
Nel rapporto si sottolinea la stretta relazione che lega questi tre aspetti attraverso le seguenti parole: «Non vi è garanzia di sicurezza senza sviluppo. Qualsiasi sviluppo è impossibile senza garanzie di sicurezza. Non esistono né sviluppo né garanzie di sicurezza laddove non vengono rispettati i diritti umani».
Credo che si tratti di un punto di vista di grande rilevanza. Io stesso ho ribadito, per un'efficace riforma delle Nazioni Unite, la necessità di partire affrontando tre tematiche incentrate sulle persone: lo sviluppo umano, la sicurezza umana e i diritti umani, perché la missione fondamentale dell'ONU, racchiusa nelle parole d'apertura della Carta delle Nazioni Unite: «Noi popoli delle Nazioni Unite...», risiede nell'adoperarsi a favore di tutti i popoli del pianeta per debellare la parola miseria dalla faccia della terra.
A settembre del 2005, partendo dal rapporto di Kofi Annan e dopo numerose sedute di discussione, durante la riunione plenaria della sessione speciale dell'Assemblea generale dell'ONU è stato adottato il testo di riforma delle Nazioni Unite.
Si può constatare con rammarico che, a causa di divergenze nella fase dei negoziati, si sia giunti alla fine a un accordo di massima solo su pochi punti e siano invece stati cancellati dal testo riferimenti al disarmo e all'impegno per la non proliferazione delle armi nucleari.
Anche per quanto riguarda il Consiglio di sicurezza, nonostante il testo presentasse riferimenti a sostegno della necessità di riforme in tempi brevi, le proposte concrete come l'allargamento dei membri del Consiglio permanente sono state alla fine rinviate.
Sostengo pienamente una riforma del Consiglio di sicurezza che proceda nella direzione di una maggiore condivisione delle responsabilità a livello globale, e sono convinto della necessità di continuare a raccogliere opinioni sulle caratteristiche di tale riforma affinché si possano rafforzare le basi dell'organismo mondiale. Per quanto riguarda quest'ultimo punto, un aspetto importante è assicurare all'ONU un finanziamento stabile. A tale proposito ritengo necessario rivalutare la proposta, da me avanzata in passato, di costituire un Fondo dei popoli delle Nazioni Unite in aggiunta alle quote previste per ciascun paese membro.

I risultati delle riforme presentate alle Nazioni Unite

Nonostante numerose questioni siano rimaste irrisolte, credo siano da apprezzare gli accordi raggiunti nel testo riguardo ad alcune particolari proposte di riforma, come la creazione di un Consiglio per i diritti umani che sostituisca la Commissione sui diritti umani e la nascita di una Commissione per la costruzione della pace (peacebuilding) insieme a un Fondo centrale di emergenza (CERF, Central Emergency Revolving Fund)40 in grado di intervenire tempestivamente in caso di crisi umanitarie.
Dobbiamo purtroppo ammettere che l'ONU, nelle sue limitazioni di fondo come organismo intergovernativo, pur volendo intraprendere riforme coraggiose e nuove sfide si è trovata ogni volta di fronte il muro degli interessi nazionali dei singoli paesi.
Ma è anche vero che un atteggiamento troppo pessimista non ci permette di andare avanti.
Occorre invece passare alla fase operativa, per attuare gli accordi raggiunti e creare al più presto un organismo che sia in grado di intervenire attivamente sulle sofferenze degli esseri umani.
Vorrei a questo proposito menzionare alcune delle proposte di riforma sulle quali si è giunti a un accordo, in particolare il Consiglio per i diritti umani e la Commissione per la costruzione della pace.
Fino a oggi il Consiglio per i diritti umani ha svolto la sua attività pubblicando casi di violazione di questi diritti, presentando riforme e proposte e facendo approvare risoluzioni, oltre ad analizzare sotto particolari aspetti, a partire dalla questione dei diritti umani, le situazioni dei singoli paesi.
Dall'altro canto non possiamo non constatare che l'ONU, criticando aspramente le posizioni di alcuni paesi sui diritti umani, ha finito per irrigidire tali posizioni. E un'eccessiva attenzione alle relazioni diplomatiche con i vari stati ha purtroppo condotto a una forte politicizzazione della questione dei diritti umani. Compito urgente è quindi quello di ripristinare la credibilità delle Nazioni Unite in quest'ambito.
Vorrei presentare alcune proposte sul ruolo e sulla struttura del Consiglio per i diritti umani la cui costituzione è prevista per quest'anno. La prima è l'inserimento nell'ordine del giorno della seduta ordinaria del Consiglio l'argomento dell'educazione ai diritti umani, con particolare attenzione all'analisi di misure che prevengano l'insorgere di casi di violazione dei diritti umani. È anche fondamentale, ovviamente, il dibattito sull'illegalità dei singoli casi di violazione e sulle misure per salvare le vittime.
Ci si aspettano tuttavia sforzi importanti indirizzati alla trasformazione del terreno sociale da cui nascono di volta in volta le violazioni, per prevenirle e impedire il ripresentarsi di situazioni analoghe.
Il progetto delle Nazioni Unite per l'educazione ai diritti umani è partito proprio l'anno scorso. Il Consiglio ha presentato, fra gli argomenti da trattare, il tema della sensibilizzazione delle coscienze attraverso l'educazione ai diritti umani, e in seno a questo programma credo sia possibile rilanciarne l'attuazione su scala mondiale.
La seconda proposta è quella di consentire anche ai membri della società civile, rappresentata dalle Organizzazioni non governative (ONG), la partecipazione alle sedute del Consiglio.
Non credo sia esagerato affermare che il movimento per i diritti umani delle Nazioni Unite sia stato finora concretamente sostenuto grazie alla partecipazione attiva delle ONG.
Il rapporto con le ONG è stato istituzionalizzato sulla base dei diritti di intervento nelle riunioni del Consiglio economico-sociale. Ritengo necessario adottare anche nella nuova Commissione per i diritti umani il sistema finora in vigore che prevedeva, sia negli interventi in seno alle riunioni generali sia in quelle interlocutorie, frequenti scambi e incontri fra le compagini governative, l'ONU e le ONG, auspicando al tempo stesso una sua gestione ancora più efficace.
La terza ipotesi è l'istituzione di un organo consultivo sotto la direzione del Consiglio per i diritti umani composto da esperti dei diritti umani. Si tratterà di sviluppare la Commissione ristretta già esistente sotto la direzione della Commissione o di istituire un nuovo organo avente le stesse funzioni, aggiungendo al ruolo di organo di ricerca a sostegno del Consiglio quello di analisi dei punti di vista della società civile.
Sono convinto della necessità di creare un organismo di questo tipo che preveda, all'interno dell'organo consultivo in seno alla Commissione ristretta, relatori speciali e gruppi di lavoro su problematiche specifiche dei diritti umani, come quelli delle minoranze o delle popolazioni aborigene.

Tagliare alla radice le cause che portano al riaccendersi dei conflitti

La seconda proposta di riforma sulla quale si è giunti a un accordo riguarda la fondazione di una Commissione per la costruzione della pace, decisa ufficialmente con delibera dell'Assemblea delle Nazioni Unite e del Consiglio di sicurezza svoltasi alla fine dello scorso anno. Questo organo dovrebbe avere funzioni consultive ma anche facoltà di avanzare proposte di ordine generale, al fine di promuovere un coerente sostegno internazionale nel processo che va dalla ricostruzione della pace alla fine di un conflitto fino all'effettiva attuazione della ricostruzione.
Si tratta di un organismo con le stesse funzioni del "Consiglio per il ripristino della pace", che io stesso avevo proposto due anni fa.41
Secondo l'ONU, circa la metà dei paesi che realizzano la pace dopo un conflitto si ritrovano entro cinque anni in una nuova situazione di conflitto. Possiamo dire che la fondazione della Commissione per la costruzione della pace trova la prima ragione d'essere nel recidere le cause che portano al riaccendersi dei conflitti.
Riguardo al ruolo che la Commissione per la costruzione della pace dovrà ricoprire, l'ONU si sta già esprimendo; io desidererei tuttavia che presti particolare attenzione nel realizzare al meglio i tre seguenti punti:
1. Ascoltare non solo le parti in causa rappresentate dai politici e dalle figure centrali dei diversi gruppi, ma anche le voci di coloro che abitano nelle zone interessate dando priorità all'eliminazione delle loro apprensioni e delle minacce incombenti.
2. Creare occasioni di discussione con le ONG, con le quali consolidare collaborazione e unità, al fine di garantire continuità anche dal punto di vista degli aiuti internazionali, visto che il processo volto alla costruzione della pace necessita di tempi lunghi.
3. Fare in modo che coloro che hanno vissuto e superato i conflitti e si sono impegnati nella ricostruzione della pace possano aiutare con la loro esperienza le persone che, in altri paesi, soffrono per i postumi conseguenti a conflitti.
Talvolta quando si parla di costruzione della pace e ricostruzione si è propensi a pensare all'aspetto più superficiale, ovvero la ricostruzione del paese attraverso le elezioni e la formazione di un nuovo governo, oppure la formulazione di una nuova Costituzione, eppure se non si guardano le cose con gli occhi del popolo le tragedie non cesseranno mai, come è dimostrato chiaramente dalla storia del XX secolo.
Con questo insegnamento chiaro in mente, credo che il compito della Commissione per la costruzione della pace debba essere, sotto la guida dell'ONU, quello di mirare al ripristino delle condizioni di vita di ogni singola persona e alla ricostruzione della sua felicità, allargando il cerchio della collaborazione internazionale.

Una strada per l'attivazione dell'Assemblea del genere umano

Per costruire un'ONU che guardi con gli occhi del popolo io vorrei proporre il rafforzamento dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Nel campo della pace e della sicurezza mondiale non si trova forse proprio in seno all'ONU - pur se il Consiglio di sicurezza ne ricopre il ruolo principale - il teatro migliore per un dialogo imparziale sulle contromisure alle minacce globali che veda la partecipazione di tutti i paesi alleati?
L'attivazione di un Consiglio per l'umanità dovrebbe significare il rafforzamento dell'ONU in senso complessivo.
Anche il segretario generale Kofi Annan, rispetto alle riforme dell'Assemblea generale, ha annunciato nella sua relazione un orientamento diretto non solo a un'attenzione ai problemi sostanziali che sorgono di volta in volta, ma anche a stabilire una cooperazione con i cittadini in modo totale e sistematico.
Purtroppo alla Conferenza speciale dei vertici non si è giunti a un accordo sulle azioni concrete, ma è evidente che anche in avvenire l'orientamento andrà nella direzione di una riforma dell'Assemblea generale.
Per ciò che concerne in particolare l'istituzione di un rapporto cooperativo con i cittadini vorrei invitare il presidente della Commissione per la costruzione della pace, nonché ognuno dei componenti, a impegnarsi per organizzare conferenze con le ONG.
A giugno dello scorso anno si è tenuta una riunione pubblica con i cittadini organizzata dall'Assemblea generale, la prima del genere nella storia dell'ONU, durata due giorni, dove rappresentanti di ONG provenienti da tutto il mondo ed esperti internazionali di varie discipline hanno esposto largamente le proprie opinioni.
Anche dai giudizi positivi espressi nella relazione di Kofi Annan: «[...] Benvenute le riunioni pubbliche di dialogo tra i rappresentanti della società civile, ovvero semplici cittadini, e i rappresentanti degli stati membri», si può dedurre che si sia trattato di una riunione di immenso valore.
Da parte loro anche le ONG hanno istituito la "Millennium + 5 NGO Network" (la "rete del Millennio + 5 ONG)42 raccogliendo le voci dei cittadini e dando via a nuove iniziative come quella di svolgere un ruolo di tramite con l'ONU.
Stabilire tali occasioni di dialogo che colleghino la gente comune alle Nazioni Unite dovrebbe a poco a poco sedimentare le vere basi dell'ONU, ovvero le due colonne rappresentate dai rappresentanti istituzionali dei paesi membri e dai cittadini comuni.
La SGI (Soka Gakkai Internazionale) sin dalla sua fondazione si è sempre basata sul principio buddista dell'umanesimo e ha sostenuto sempre le attività dell'ONU.
Per svolgere un ruolo attivo in ambiti ancora più allargati, dal giugno dello scorso anno un esponente della SGI - una delle ONG di carattere etico-religioso presenti all'ONU - ha assunto la carica di presidente del Comitato delle ONG religiose all'ONU.
Inoltre, in occasione del decimo anno dalla fondazione, il Centro di ricerche per la pace internazionale Josei Toda, da me fondato, sta organizzando una conferenza internazionale sulla riforma e il rafforzamento dell'ONU, che si terrà a Los Angeles a febbraio.
In questo incontro, partendo dai risultati ottenuti grazie a progetti di ricerca portati avanti fino a oggi come "La sicurezza degli esseri umani e la gestione di una società mondiale", "Dialoghi tra civiltà" e altri, si intende discutere su come costruire una ONU dei popoli, basata sui popoli e per i popoli.

I pericoli che stanno dilagando in Africa e in Asia

Vorrei ora toccare un tema che il mondo intero si trova ad affrontare: il problema ambientale planetario.
Nel mese di febbraio dell'anno scorso ho avuto occasione di conoscere la vincitrice del Premio Nobel per la pace Wangari Maathai, biologa keniota, in visita in Giappone per l'entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. Se ci poniamo nell'ottica della pace mondiale, vediamo che non è più possibile pensare di evitare i temi inerenti ai problemi ambientali. La stessa Maathai ha infatti affermato: «Ci sono milioni di persone che insieme a me sono impegnate nel settore dell'ambientalismo. Attraverso questa onorificenza sono riuscita a trasmettere un messaggio forte sul fatto che "per la pace è importante l'ambiente" e che "per proteggere la pace è necessario proteggere l'ambiente"».
La scienziata africana, per contrastare il fenomeno della desertificazione che sta invadendo la sua nazione, il Kenya, ha creato il movimento denominato Greenbelt ("cintura verde"), che nell'arco di trent'anni, con il contributo di numerose donne africane, ha piantato trenta milioni di alberi.
Il fenomeno della desertificazione sta dilagando nelle zone di grande siccità dell'Africa e dell'Asia ed è molto alta la possibilità che si espanda ulteriormente, a causa dell'innalzamento della temperatura globale.
Questo è stato chiarito grazie ai risultati del Millenium Ecosystem Assessment, il rapporto sullo stato degli ecosistemi del pianeta realizzato dall'ONU, secondo cui, se l'innalzamento della temperatura globale continuerà di questo passo e la desertificazione peggiorerà ulteriormente, i paesi in via di sviluppo e quindi le vite di oltre due miliardi di persone verranno messe in pericolo.
In questa situazione l'ONU ha deciso di intitolare il 2006 come "Anno internazionale dei deserti e della desertificazione". Le prospettive di collaborazione internazionale per fermare la desertificazione dunque ci sono, ma è chiaro che per ottenere risultati concreti è necessario discutere sui provvedimenti da prendere nel settore che ne è la causa fondamentale: il surriscaldamento dell'atmosfera terrestre.

Misure contro il surriscaldamento dell'atmosfera terrestre adottate in seguito al protocollo di Kyoto

Il problema del surriscaldamento globale è, insieme a quelli delle piogge acide e della protezione dello strato di ozono, uno dei temi attorno ai quali la comunità internazionale si è raccolta, per stabilire un piano comune di intervento.
Lo scorso anno è finalmente entrato in vigore il protocollo di Kyoto, che obbliga i paesi industrializzati a ridurre, entro il 2012, le emissioni medie annue di gas responsabili dell'effetto serra almeno del cinque per cento rispetto al volume emesso nel 1990. Tuttavia questo provvedimento non è sufficiente: pare che per contenere il surriscaldamento sarebbe necessario ridurre le emissioni a meno della metà del volume attuale.
La questione cruciale, per il presente e per il futuro, è riuscire a coinvolgere gli Stati Uniti, usciti dal protocollo, e paesi in via di sviluppo come la Cina e l'India, regioni nelle quali le emissioni di gas serra sono in grande aumento. Questo problema è stato anche oggetto di discussione al vertice G8 dello scorso luglio. Inoltre, in seguito all'undicesimo Summit sui mutamenti climatici tenutosi in Canada nel dicembre 2005 e al primo Congresso dei 198 paesi aderenti al protocollo di Kyoto, si è deciso di istituire un aggiornamento dello stesso trattato e di promuovere nei prossimi due anni un dialogo su come far fronte alle emissioni di gas serra dal 2013 in avanti. Pur con le dovute riserve sul potere vincolante di una discussione, il fatto di aver creato uno spazio aperto a tutti i paesi, compresi gli Stati Uniti e quelli in via di sviluppo, ha permesso di evitare una crisi che poteva rischiare di far crollare il trattato. Alla luce di tutto questo auspicherei che il Giappone - che in qualità di paese ospitante ha speso tutte le sue energie per il buon esito del protocollo di Kyoto - debba assumere la leadership nella costruzione di questa seconda fase, collaborando con i paesi sensibili ai problemi ambientali.
Il protocollo di Kyoto obbliga i paesi aderenti a ottimizzare il dispendio energetico e a effettuare operazioni di rimboschimento per favorire il riassorbimento dell'anidride carbonica, riconoscendo come fattore chiave del sistema di calcolo per la riduzione delle emissioni di gas serra l'incremento dei boschi e dunque del loro potere di assorbimento delle emissioni tossiche. Naturalmente il Giappone, oltre ad affrontare con grande impegno la propria situazione nazionale, dovrebbe sostenere per primo gli altri paesi nella tutela e nel ripopolamento delle aree boschive, nonché nell'introduzione di energie rinnovabili.
Proprio in quest'ottica, i paesi in via di sviluppo hanno presentato una proposta al primo congresso dei paesi aderenti al protocollo: affiancare ai "meccanismi di sviluppo pulito" (Clean Development Mechanism) per la riduzione del gas serra progetti che promuovano la tutela dei boschi nei paesi in via di sviluppo, finanziati dai paesi industrializzati.
Nella Proposta di pace di quattro anni fa43 proposi l'istituzione di un fondo verde globale insieme alla definizione di un trattato per la promozione delle energie rinnovabili. Poiché il dieci/venti per cento dell'incremento dell'effetto serra nel mondo è provocato dalla riduzione delle aree boschive, è urgente costituire un organismo internazionale per la salvaguardia dei boschi a cui collaborino tutti i paesi del mondo. Credo che sia importante richiedere una maggior partecipazione anche ai paesi in via di sviluppo e, in questo senso, accogliere positivamente le loro richieste.
Insieme al rispetto di questi provvedimenti, quello che mi aspetto dal Giappone è una iniziativa forte nell'ambito dell'educazione ambientale. Nel 2005 si è aperto il Decennio dell'educazione allo sviluppo sostenibile stabilito dall'ONU. Si tratta di un progetto che noi della SGI abbiamo proposto insieme ad altre ONG e che il governo giapponese ha accolto facendosene portatore al Summit per lo sviluppo ambientale tenutosi in Sud Africa nel 2002: la proposta è stata approvata all'assemblea delle Nazioni Unite ed è stata messa in pratica. Lo scorso ottobre, l'UNESCO ha programmato un piano di azione internazionale, nel corso di questi dieci anni di educazione mirata, che prevede la creazione di un futuro sostenibile attraverso la trasformazione dei comportamenti degli individui. Una trasformazione favorita dall'introduzione, nell'educazione e nell'apprendimento, dei principi, dei valori e delle azioni concrete in vista di uno sviluppo sostenibile. Oltre a ciò, per incrementare tale consapevolezza, è stato chiesto a ogni singolo stato aderente di creare un organismo che sviluppi e attui tale iniziativa nel proprio paese.
Il Giappone, che aspira a diventare un paese modello per l'educazione ambientale, dovrebbe sostenere questi dieci anni di educazione nei paesi africani e asiatici, che subiscono peggioramenti ambientali particolarmente gravi come ad esempio la desertificazione. Da anni sostengo che la strada che il Giappone dovrà percorrere nel XXI secolo è quella di costruire un paese che fonda le proprie basi sulla tutela dell'ambiente e sulle azioni umanitarie. Offrire il proprio sostegno in campo ambientale avrebbe come conseguenza positiva, dal punto di vista umanitario, la salvaguardia delle persone che soffrono per il peggioramento della salute dell'ambiente del nostro pianeta.
Anche la SGI, come organizzazione non governativa che ha sottoscritto il Decennio dell'educazione allo sviluppo sostenibile, contribuirà al progetto impegnandosi nella realizzazione della mostra sull'ambiente: Semi di cambiamento. La carta della Terra e il potenziale umano, che verrà portata in tutto il mondo. Inoltre, la SGI continuerà a sostenere azioni di sensibilizzazione, come la proiezione del film Una rivoluzione tranquilla che tratta tematiche ambientali alle quali essa stessa ha contribuito.

Verso la normalizzazione del dialogo dei vertici in Asia

Il modo per realizzare "un mondo senza guerra" è quello di "cercare una via migliore per la costruzione della pace": questo è l'argomento che desidero adesso approfondire, soffermando la mia attenzione in particolar modo sulle aree asiatiche, dove permangono tuttora contraddizioni ed elementi di grande tensione, conseguenze della guerra fredda.
Il mese scorso si è tenuto in Malesia per la prima volta il Vertice dell'Asia dell'est con la partecipazione di sedici nazioni: Giappone, Cina, Corea del sud, India, Australia, Nuova Zelanda e i dieci paesi iscritti all'ANSEA (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico). Il primo grande risultato di questa conferenza è stata la decisione di tenere regolarmente un dialogo tra i vertici delle nazioni, con lo scopo di fondare una Comunità dell'Asia orientale.
Poco prima di questo summit si era tenuta una conferenza tra gli stati membri dell'ANSEA più tre paesi (Giappone, Cina e Corea del sud), durante la quale era stata adottata la dichiarazione di Kuala Lumpur che annovera tra i suoi articoli anche la decisione di far diventare tale conferenza un appuntamento periodico da tenere ogni anno dopo il vertice ANSEA. In tale dichiarazione viene sottolineato l'impegno a iniziare i lavori per elaborare, entro il 2007, la Seconda dichiarazione congiunta sulla cooperazione nell'Asia dell'est, nella quale si stabilirà la direzione futura per la formazione della Comunità dell'Asia orientale.
Per chi, come me, si è impegnato con forte volontà nella promozione della pace e dell'amicizia tra i paesi asiatici, questi accordi e questa collaborazione tra i vertici sono veramente apprezzabili. Auspico che, da oggi in poi, le nazioni interessate superino sempre più i conflitti derivanti dai propri interessi nazionali e si impegnino a fondo nella concretizzazione di una comunità senza guerra. I presupposti basilari per la formazione di una comunità siffatta si stanno già realizzando.
Ad esempio, è noto che per partecipare al Vertice dell'Asia dell'est le nazioni interessate devono sottoscrivere il Trattato di amicizia e collaborazione del sud-est asiatico. Con l'adesione di Cina, Giappone, Corea del sud, India, Nuova Zelanda e Australia, sono aumentate le nazioni che si sono impegnate nelle aree asiatiche a risolvere ogni controversia con mezzi pacifici e a rinunciare al ricorso alle armi. Si tratta qui degli stessi principi iscritti nella Carta delle Nazioni Unite. Attraverso il costante impegno per rispettare tali principi nel proprio territorio e tramite i rapporti di collaborazione pacifica tra tutti i paesi, non sarà impossibile aprire una strada verso una "stabile assenza di guerra" nell'Asia dell'est, anche se ciò dovesse richiedere del tempo.
Io credo che per realizzare concretamente tale obiettivo siano necessari un dialogo costante tra i vertici e la creazione di una segreteria internazionale che promuova una reale collaborazione attraverso azioni concrete. Per quanto riguarda la realizzazione periodica del dialogo tra i vertici, l'obiettivo - come abbiamo detto - si è già concretizzato con l'accordo per realizzare a cadenza annuale sia il Vertice dell'ANSEA più i tre paesi che il Vertice dei paesi dell'Asia dell'est (sedici paesi).
Per quanto concerne l'istituzione della segreteria, invece, si potrebbe organizzare un gruppo di lavoro internazionale - che potrebbe chiamarsi, ad esempio, Consiglio dell'Asia orientale - in occasione dell'avvio dei lavori per l'elaborazione della seconda dichiarazione congiunta sulla sinergia in Asia orientale. In alternativa si potrebbero implementare due organi già esistenti all'interno dell'ANSEA: la commissione permanente e la segreteria centrale, che finora si sono occupate esclusivamente di questioni operative.
Secondo me, una volta costituito, questo Consiglio dell'Asia orientale dovrebbe impegnarsi a creare una base condivisa sulla quale tutte le nazioni che gravitano in quest'area possano affrontare insieme le minacce comuni che oltrepassano i confini nazionali favorendo, ad esempio: 1. la cooperazione in campo igienico-sanitario per fronteggiare crisi come l'influenza aviaria, 2. la collaborazione per prevenire le calamità e mettere in atto le conseguenti operazioni di ricostruzione, come ci ha insegnato lo tsunami, 3. la messa a punto di provvedimenti contro la distruzione e l'inquinamento ambientale.
Sono sicuro che un intervento congiunto di questo tipo potrebbe costituire un terreno fertile dove far crescere la fiducia e rafforzare la Comunità dell'Asia orientale. Ma credo anche che tale comunità si potrà concretizzare realmente solo se la collaborazione e il dialogo tra le leadership politiche dei paesi asiatici procederanno armoniosamente di pari passo.

Un fondamento spirituale comune

Attualmente in Europa, anche in seguito alla ratificazione della Costituzione dell'Unione europea (UE), i vari paesi sono determinati a realizzare un ulteriore avanzamento dell'integrazione regionale.
L'anno prossimo cade il cinquantesimo anniversario della fondazione della Comunità economica europea (CEE), l'organismo che ha dato origine all'UE. Durante questo cinquantennio l'Europa si è impegnata nel dialogo e nella cooperazione interregionale, gettando solide fondamenta per la creazione di una comunità pacifica.
Anche in Asia orientale le nazioni dovrebbero compiere insieme un primo passo verso la costruzione di una vera comunità, cancellando l'eredità negativa di antagonismi e tensioni creatisi in seguito alla guerra fredda.
In una prospettiva a lungo termine, ovvero considerando un periodo di cinquanta, cento anni, credo che dovremmo orientare i nostri sforzi verso la creazione di una coesistenza pacifica nella regione asiatica attraverso la creazione di una Comunità dell'Asia orientale e - perché no - degli Stati Uniti dell'Asia, prendendo come modello gli Stati Uniti d'Europa sognati da Victor Hugo, dove le caratteristiche dei singoli paesi non vengano perse, anzi, risultino ulteriormente valorizzate grazie a una forte unione tra loro.
Ovviamente non bisogna dimenticare che all'origine dei progressi raggiunti nel processo di formazione della Comunità europea esiste una base spirituale comune, quella del Cristianesimo. Potrebbe allora esistere un comune denominatore dello stesso valore spirituale in Asia orientale?
Okakura Tenshin, critico culturale giapponese, professava l'unità dell'Asia, ma il suo rimase un ideale irrealizzabile. Nel corso di una conferenza44 che ho tenuto presso l'Accademia cinese di scienze sociali nell'ottobre del 1992 ho spiegato che l'Asia orientale, raggruppando numerose etnie con culture e tradizioni diverse, non potrà facilmente unificarsi, ma che a mio parere è pervasa da una comune "etica della simbiosi". È infatti una regione relativamente tranquilla in cui esiste una predisposizione naturale verso la coesistenza pacifica, essendo data la priorità non all'antagonismo ma all'armonia, non alla divisione ma all'unione, non all'"io" ma al "noi". Ciò deriva da una concezione dell'essere umano in cui l'individualismo non ha grande importanza come nella civiltà occidentale, ma dove il vero io esiste nello stretto legame con l'altro.
Tenendo conto degli avvenimenti storici del passato, sarà senza dubbio difficile realizzare quest'obiettivo in un giorno. Tuttavia, un'unione senza comprensione reciproca, senza condivisione dei valori e senza una base filosofica comune non si rivelerà durevole. Per questo motivo ho concentrato ogni sforzo nella promozione degli scambi tra i popoli al fine di approfondire le relazioni di amicizia tra gli esseri umani e garantire una prospettiva di pace in Asia.

L'indimenticabile incontro con Zhou En-lai

Le relazioni trilaterali Cina-Giappone-Corea del sud, e in particolare quelle sino-giapponesi, rappresentano una chiave di volta nel processo di creazione di una comunità asiatica. Tuttavia, recentemente tali relazioni a livello politico si sono considerevolmente deteriorate e il problema ora necessita di una soluzione urgente.
C'è un proverbio che dice: «Se sbatti contro un muro devi tornare al punto di partenza». Credo che per uscire da questo vicolo cieco nei rapporti tra il Giappone e la Cina bisognerebbe innanzitutto ritrovare lo spirito che ha animato i due paesi al momento della normalizzazione delle loro relazioni diplomatiche.
Quando feci la proposta di normalizzare tali rapporti diplomatici (1968), in Cina divampava la grande rivoluzione culturale e i giapponesi si guardavano bene dall'intraprendere qualsiasi relazione con i cinesi. Fui allora oggetto di varie critiche.
Tuttavia ero fermamente convinto che senza la costruzione di rapporti amichevoli tra i due paesi non si sarebbe potuta realizzare la pace né in Asia né nel mondo. Successivamente, nel 1972, si tenne la conferenza al vertice tra la Cina e il Giappone che avevo proposto, e la dichiarazione congiunta firmata allora aprì la strada alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche.
Mi recai per la prima volta in visita in Cina nel maggio del 1974 su invito della Associazione per l'amicizia Cina-Giappone (Japan China Friendship Association).
Nel corso della mia seconda visita, nel dicembre dello stesso anno, il presidente Zhou En-lai, allora gravemente malato, mi volle incontrare contro il parere dei medici.
Discutemmo di tanti problemi, ma quello che ritenemmo fondamentale, alla base di tutti gli altri, era il futuro dell'Asia e del mondo nel XXI secolo. Mi disse: «D'ora in poi dobbiamo impegnarci nello sviluppo di relazioni amichevoli durature. Gli ultimi venticinque anni del XX secolo saranno della massima importanza per tutto il mondo. Le nazioni dovranno collaborare ponendosi su un piano di uguaglianza».
Quasi un anno più tardi, con mio profondo dolore, il presidente Zhou En-lai ci lasciò. Serbando sempre in mente le sue parole ho dedicato ogni sforzo alla promozione degli scambi tra i popoli in ambito culturale ed educativo, per la creazione di relazioni di amicizia durature tra il Giappone e la Cina.
Se paragoniamo la politica e l'economia a delle navi, e i legami tra i popoli al mare nel quale esse navigano, per quanto una singola nave possa naufragare, fino a quando esisterà il mare il traffico marittimo potrà continuare. Le mie azioni sono sempre state sorrette da questa convinzione.
L'anno scorso, anno dell'amicizia tra il Giappone e la Corea del sud, ho pubblicato il secondo volume di dialoghi con il professore Cho Moon Boo, ex rettore dell'Università nazionale coreana Cheju.
Attualmente sto portando avanti dei dialoghi con il professor Zhang Kaiyuan, docente all'Università normale centrale della Cina, uno dei più autorevoli storici cinesi.
Il professor Zhang, venuto in Giappone il mese scorso, a proposito dei giapponesi che cento anni fa collaborarono e sostennero il movimento rivoluzionario di Sun Wen mi ha detto: «Noi dobbiamo rispettare la storia, ma allo stesso tempo trascenderla. Per più di duemila anni le relazioni tra la Cina e il Giappone sono state caratterizzate fondamentalmente da scambi amichevoli. Queste due grandi nazioni, separate unicamente da una stretta striscia di mare, potranno prosperare insieme se manterranno relazioni pacifiche e armoniose, ma se saranno in discordia si feriranno vicendevolmente. L'instaurazione di rapporti di amicizia e collaborazione normalizzati e stabili condurrà non solo alla felicità del Giappone e della Cina, ma anche dell'Asia e del mondo intero».
Sono completamente d'accordo. Nella diplomazia giapponese è stata data finora priorità assoluta al rapporto di collaborazione con gli Stati Uniti. Pur mantenendo questa relazione nell'orientamento generale della sua politica diplomatica, credo che il Giappone debba creare in Asia un altro grande asse di cooperazione.
A questo riguardo penso che sia estremamente significativo l'accordo preso da Cina e Giappone di favorire gli scambi studenteschi tra i ragazzi delle scuole superiori. A oggi questi scambi hanno coinvolto più di duemila giovani. Accolgo molto favorevolmente questa decisione, avendo da tempo sottolineato l'importanza di promuovere in modo attivo un programma di scambio per l'educazione giovanile basato su una visione corretta della propria storia e dei suoi insegnamenti e che sia, allo stesso tempo, rivolto al futuro.
Il Giappone, collaborando con la Cina e la Corea del sud per la risoluzione dei problemi immediati, dovrà diventare una forza trainante per l'edificazione di una Comunità dell'Asia orientale. Sostengo inoltre che la creazione di legami d'amicizia indistruttibili nel corso delle generazioni future sarà il principale obiettivo verso cui il Giappone dovrà dirigere i suoi sforzi nel XXI secolo.

La necessità di risolvere il problema dello sviluppo di tecnologie nucleari nella Corea del nord

Il problema dello sviluppo nucleare della Corea del nord è un tema di scottante attualità per la Cina, la Corea e il Giappone. Dall'agosto del 2003, data di inizio delle consultazioni, sono stati organizzati, seppur in modo saltuario, cinque incontri tra i rappresentanti delegati di Stati Uniti, Corea del sud, Corea del nord, Cina, Giappone e Russia. Al termine del quarto incontro è stato trovato per la prima volta un accordo, redatto in una dichiarazione congiunta, per la soluzione del problema dello sviluppo di tecnologie nucleari nella Corea del nord. In questa dichiarazione è contenuto sia l'impegno da parte della Corea del nord di rinunciare completamente alle armi e ai progetti nucleari in corso e di rispettare le raccomandazioni relative alla sicurezza dell'AIEA (Agenzia internazionale per l'energia atomica), con immediato rientro all'interno del Trattato di non proliferazione (TNP), sia la conferma della volontà da parte degli Stati Uniti di non detenere armi nucleari di alcun genere nella penisola coreana e di non attaccare o invadere la Corea del nord con armi ordinarie o nucleari. Grazie a questa dichiarazione congiunta, i sei paesi sono finalmente riusciti a posizionarsi sulla griglia di partenza per la risoluzione di questo problema, ma attualmente si trovano di fronte alla fatica di compiere il primo passo. Infatti, non c'è ancora nulla di definito circa le procedure o il programma da seguire per portare la Corea del nord alla rinuncia del nucleare, né è stato stabilito un successivo sistema d'ispezione adeguato, questione che sarà certamente un urgente oggetto di discussione. Infatti, recentemente è balzata all'attenzione della comunità internazionale la questione dello sviluppo nucleare iraniano: se la comunità internazionale lasciasse perdurare lo stallo delle trattative con la Corea del nord, tale mancanza di presa di posizione comune potrebbe avere serie conseguenze anche in Iran.
Dopo un'attenta riflessione sulle modalità per condurre le consultazioni verso una fase operativa, vorrei far notare che, oltre ai vertici dei sei paesi, potrebbe essere utile invitare a una tavola rotonda anche i rappresentanti dell'ONU e dell'AIEA, in modo da aprire un dialogo capace di rimuovere gli ostacoli che rendono difficile la soluzione del problema. In una situazione del genere, infatti, un'intesa chiara tra i vertici internazionali avrebbe grande peso, e permetterebbe una presa di posizione che non consentirebbe a nessuno di fare marcia indietro. Portando avanti il dialogo sulla base dell'intesa raggiunta, e dando la precedenza all'individuazione di procedure concrete per una rinuncia completa del nucleare, nonché alla definizione di un efficace sistema di ispezione, potremmo cominciare a intravedere una via di soluzione.
Se tale soluzione viene avviata sulla base dell'impiego non della forza militare ma del potere morbido basato sul dialogo e sulla fiducia, la ricerca di una soluzione attraverso il confronto tra i paesi vicini non solo porterà la sicurezza in Asia orientale, ma spianerà la strada verso la prevenzione della diffusione di armi di distruzione di massa anche nelle altre aree geografiche a rischio. È in quest'ottica che bisogna considerare il profondo significato contenuto nella dichiarazione congiunta dei sei paesi che cercano il modo di «promuovere la collaborazione nell'ambito della garanzia di sicurezza nel nord-est asiatico». Anch'io dichiaro da tempo che, poiché la consultazione tra i sei paesi rafforza la stabilità, sarebbe auspicabile estenderla fino a sviluppare un Forum per la costruzione della pace nell'intera area del nord-est asiatico. Spero anche vivamente che le scottanti questioni sorte nei rapporti tra Corea del nord e Giappone riguardo alle vittime dei rapimenti45 e alla trattativa per la normalizzazione dei rapporti diplomatici traggano beneficio da questo clima di distensione generale e possano finalmente avere miglior esito.

Risvegliare l'opinione pubblica mondiale alla necessità di un completo disarmo nucleare

Per concludere, vorrei sottolineare l'importanza dell'educazione al disarmo nucleare come processo necessario per la trasformazione del tessuto sociale, affinché sia possibile operare il passaggio necessario da una cultura della guerra, basata sullo scontro e il conflitto, a una cultura della pace basata sulla cooperazione e sulla convivenza.
Nel 2005 ricorreva il sessantesimo anniversario dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, ma purtroppo abbiamo perso due importanti occasioni per fare un grande passo in avanti verso il disarmo. Mi riferisco al fallimento della conferenza per la revisione del TNP (Trattato di non proliferazione) tenutasi a maggio, e al conseguente rinvio della menzione sulle armi nucleari nel documento conclusivo del vertice straordinario dell'ONU tenutosi a settembre.
Nel corso di quella conferenza non si è riusciti a procedere con l'esame effettivo a causa del duro scontro di pareri tra coloro che ritengono questione prioritaria "il disarmo nucleare" e quanti invece antepongono la "non proliferazione delle armi nucleari": la situazione è tanto degenerata da impedire persino la dichiarazione del presidente della conferenza, per non parlare del documento di accordo. Sfortunatamente questo conflitto di pareri non è stato risolto nemmeno in seguito, e di conseguenza il documento conclusivo del vertice straordinario dell'ONU è stato approvato cancellando la parte relativa alla dichiarazione sul disarmo e la non proliferazione.
Queste due importanti occasioni mancate gettano un'ombra sulla comunità internazionale, appesantita da tre scottanti questioni messe in evidenza da El Baradei, direttore generale dell'AIEA, a proposito delle armi nucleari: 1. la scoperta dell'esistenza di un mercato nero del nucleare; 2. l'aumento dei paesi decisi a ottenere la tecnologia per produrre materiali fissili utilizzabili anche per le armi nucleari; 3. la dichiarata ambizione da parte di alcuni gruppi terroristici di impossessarsi di armi di distruzione di massa.
Vista l'attuale incertezza sulla questione degli armamenti nucleari, è chiaro che il tema del disarmo riveste un'importanza cruciale. È giunto il momento che sia i governi sia l'opinione pubblica mondiale comincino a dare la dovuta importanza a questo tema e intraprendano iniziative concrete. Bisogna riformare le norme operative e giuridiche internazionali e, a questo proposito, basilare sarà la revisione del TNP. Ma ancor di più occorre rafforzare la voce della gente che chiede il disarmo, educando le popolazioni del pianeta ai valori della pace anche attraverso una costante azione di sensibilizzazione e informazione, affinché si diffonda una reale conoscenza del problema. In concreto, è necessario promuovere la riforma della coscienza di ogni singolo individuo.
Anche all'interno dell'ONU, in questi ultimi anni è stata attribuita grandissima importanza al tema del disarmo, tanto che nel 2002 l'Assemblea generale ha adottato il risultato di una ricerca svolta da un gruppo di esperti sull'educazione al disarmo e alla non proliferazione delle armi nucleari.

Cittadini del mondo attenti agli interessi dell'umanità

Ritengo che per ottenere un'effettiva educazione al disarmo sia urgente riconsiderare il tema da più punti di vista, per poi riorganizzarsi e affrontarlo in maniera ottimale.
Per aumentare la consapevolezza di questi problemi nell'opinione pubblica mondiale non basta lo sforzo degli addetti e degli esperti, ma è necessaria la partecipazione di tutti. Infatti, lo scopo finale non è il disarmo nucleare di per sé, ma un cambiamento di prospettiva e del modo di pensare, grazie al quale dovremmo arrivare a percepire che la realizzazione o meno della pace mondiale è un problema strettamente legato a ognuno di noi.
La pace non è solo assenza di guerre. Una vera società pacifica è quella in cui è possibile per ogni persona costruire una vita felice, dove ogni essere umano possa manifestare appieno le proprie potenzialità senza rischiare di subire minacce alla propria dignità.
Riguardo a questo punto, vorrei affermare l'importanza di stabilire l'educazione al disarmo, e il suo allargamento alla società civile, come elemento fondamentale del Decennio internazionale della cultura di pace e di nonviolenza per i bambini del mondo 2001-2010, quest'anno giunto al suo medio termine. Ciò porterebbe a un mutamento dell'asse da una "sovranità nazionale" a una "sovranità popolare", riportando il movimento educativo a livello delle persone e creando le condizioni adatte per formare cittadini del mondo attenti soprattutto agli interessi dell'umanità e della Terra.
Ciò significa che lo sviluppo dell'informazione sul disarmo nucleare diviene importante nella misura in cui favorisce la nascita in ogni persona di una cultura della pace e di una consapevolezza in base a cui agire. Una trasformazione profonda del cuore di ognuno di noi stimola la stessa trasformazione nel cuore delle persone che ci stanno vicino fino a creare una successione di onde verso la pace che influenzerà tutta la società e guiderà con forza l'opinione pubblica internazionale.
Non c'è dubbio che questo "potere del popolo" accelererà gli sforzi a favore del disarmo e farà sbocciare una grande cultura di pace.
Anche la Soka Gakkai Internazionale, oltre a impegnarsi attivamente nell'educazione delle coscienze attraverso varie iniziative, come ad esempio la mostra Costruire una cultura di pace per i bambini del mondo, l'anno scorso ha fondato due Centri per una cultura di pace a New York e a Los Angeles. L'anno prossimo ricorrerà anche il cinquantesimo anniversario della presentazione della Dichiarazione contro le armi nucleari da parte del secondo presidente della Soka Gakkai, Josei Toda. La Soka Gakkai Internazionale, nell'intento di portare l'educazione al disarmo al livello della gente comune, si muove incessantemente per creare onde che trasformino la "cultura della guerra" in una "cultura della pace".

La convinzione di Joseph Rotblat

Non dimenticherò mai le parole che Joseph Rotblat, il presidente del Movimento Pugwash scomparso l'anno scorso, pronunciò in uno dei nostri incontri sul tema del mondo senza guerre e senza armi nucleari. Disse: «Se si lancia un sasso sulla superficie di un lago, si sprigiona sull'acqua una serie di cerchi concentrici che diventano sempre più larghi senza però scomparire completamente. Io penso che ogni persona abbia la capacità di creare questi cerchi sull'acqua. Noi abbiamo la capacità di cambiare le cose. Unendoci in forme associative come le Organizzazioni non governative (ONG) collegate con le Nazioni Unite, sicuramente abbiamo la capacità anche di influenzare le altre persone. Uniamoci e cambiamo il mondo! Forse ci vorrà del tempo, ma con un po' di pazienza vedremo sicuramente la vittoria del popolo».
Noi della Soka Gakkai Internazionale, basandoci sull'umanesimo buddista, abbiamo portato pace, cultura ed educazione in centonovanta paesi del mondo. La forza motrice di tutte queste attività è, come emerge dalle parole del professor Rotblat, la «solidarietà dei popoli risvegliati».
Vorrei avanzare ancora con coraggio e speranza nei prossimi cinque anni mirando al 2010, abbracciando le aspirazioni della gente di tutto il mondo e raccogliendo l'importante sfida per costruire la base di una società e di un pianeta in pacifica e armonica simbiosi.


Note bibliografiche

1) U. Beck, La teoria sociale sui rischi mondiali, traduzione di Ken'ichi Shimamura, casa editrice Heibonsha.
2) K. Yanagida, I giapponesi che si stanno distruggendo, casa editrice Shinchosha. Il "ragazzo A" è Sakakibara, un giovane di quattordici anni che nel 1997 seviziò con torture atroci e uccise cinque tra bambini e bambine.
3) F. M. Dostoevskij, Memorie da una casa di morti, Giunti, 1994.
4) T. Sakaya, Archivio delle conferenze presso l'Università di Tokyo, casa editrice Kodansha.
5) M. Yamazaki, Gli uomini che hanno una vita sociale, casa editrice Chuokoronsha.
6) J. Swingedouw, Seikyo Shimbun, 11 marzo 1984.
7) Fukuzawa Yukichi, Lineamenti di una teoria della civiltà, 1875.
8) M. Montaigne, Saggi, Adelphi, 1992, Libro I, cap. 1, p. 10.
9) Ibidem, Libro III, cap. 13, p. 1496.
10) GZ, 564.
11) M. Montaigne, op. cit., Libro III, cap. 12, p. 569.
12) Ibidem, p. 572.
13) Ibidem.
14) Ibidem, Libro I, cap. 31, p. 278.
15) Ibidem, Libro I, cap. 26, p. 270.
16) La scelta del tempo, SND, 2, 97.
17) M. Montaigne, op. cit., Libro II, cap. 12, p. 584.
18) "Una riconsiderazione del radicalismo", 29 gennaio 1993, cfr. Un nuovo umanesimo, Esperia, pp. 171-182.
19) M. Montaigne, op. cit., Libro I, cap. 23, p. 149.
20) Ibidem, Libro III, cap. 13, p. 1445.
21) Ibidem, Libro III, cap. 9, p. 1273.
22) Ibidem, p. 1275.
23) Ibidem, Libro I, cap. 23, p. 155.
24) Ibidem, Libro III, cap. 9, p. 1322-23.
25) Ibidem, Libro I, cap. 23, p. 160.
26) Ibidem, Libro III, cap. 9, p. 1266 ("loico", variante arcaica di "logico").
27) Ibidem, Libro III, cap. 3, p. 1089.
28) Ibidem, Libro III, cap. 13, p. 1439.
29) Ibidem, Libro III, cap. 12, p. 1384.
30) Ibidem, Libro III, cap. 8, p. 1243.
31) Ibidem.
32) Ibidem, Libro III, cap. 2, p. 1068.
33) Ibidem, Libro III, cap. 5, p. 1115.
34) Ibidem, Libro III, cap. 8, p. 1256.
35) Ibidem, Libro III, cap. 5, p. 1123.
36) Ibidem, Libro III, cap. 13, p. 1485.
37) Ibidem, Libro III, cap. 13, p. 1497.
38) Shigeharu Nakano, Raccolta di saggi, casa editrice Heibonsha Library.
39) Digha Nikaya, 16, in Fumio Masutani, Cento storie del Buddismo, casa editrice Chikumabunko.
40) Il 15 dicembre 2005 l'Assemblea generale dell'ONU ha adottato la risoluzione A/RES/60/1241, trasformando l'ex Central Emergency Revolving Fund in Central Emergency Response Fund, nell'intento di aumentarne l'efficacia e la tempestività di intervento.41) "Trasformazione interiore: il movimento profondo che crea un'onda globale di pace", Buddismo e società, n. 103, marzo aprile 2004.
41) "Trasformazione interiore: il movimento profondo che crea un'onda globale di pace", Buddismo e società, n. 103, marzo aprile 2004.
42) La "Millennium + NGO5 Network" è un raggruppamento informale costituito da un gruppo di organizzazioni non governative, dal CONGO (il "New York Committee on Spirituality, Values and Global Concerns", "Comitato sulla spiritualità, i valori e i temi globali di New York) e dal NGO/DPI Executive Committee ("Executive Committee of NGO Associated with the United Nations Department of Public Information", "Comitato esecutivo delle ONG associato con il Dipartimento dell'informazione dell'ONU). Ha organizzato l'Assemblea generale di ascolto della società civile (UN General Assembly Hearing) del giugno 2005.
43) "L'alba di una civiltà globale. L'umanesimo della Via di mezzo", Buddismo e società, n. 93, luglio agosto 2002.
44) D. Ikeda, "Un'etica della simbiosi", Pechino, 14 ottobre 1992, cfr. Un nuovo umanesimo, Esperia, pp. 145-156.
45) Alcuni giapponesi sono stati rapiti negli anni dai servizi segreti nordcoreani al fine di conoscere meglio la mentalità e la cultura giapponese per poi potersi più efficacemente infiltrare in Giappone.

 


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