Sul dizionario etimologico si legge: "Sperare: tendere verso una meta".
Tanti, anche tra i buddisti, storcono un po' la bocca quando si parla di speranza, considerandola alcuni un atteggiamento passivo, altri una forma di illusione, altri ancora un tentativo di dare soluzioni prestabilite al Gohonzon.
Ma la speranza è solo aspettativa, come recita il detto "aspetta e spera"? E un atteggiamento di aspettativa è di per sé così negativo o passivo?
In realtà una disposizione d'animo positiva è il primo passo per l'azione, e poiché tutto dipende dalla condizione vitale, provare speranza è la premessa per costruire qualcosa.
È invece la mancanza di speranza che genera passività: chi non nutre speranze è prigioniero dei propri limiti, sente di non farcela, vede l'impossibilità in tutto, considera gli altri come nemici.
A volte vogliamo proteggerci dalla speranza come da un pericolo, ma pensare sempre che le cose andranno male, aver paura di perdere o di restare delusi è un atteggiamento che svilisce il presente. Di fatto una mancanza di fede.
Il presidente Ikeda scrive: «È il potere della fede che ci mette in grado di nutrire speranze e aspirazioni senza limiti per il futuro e di trasformarle, passo dopo passo, in realtà» (NR, 91, 4). Noi esseri umani dovremmo innanzitutto cercare di vivere con speranza, una speranza indipendente dalle circostanze ma «visibile agli occhi della fede e del coraggio».
Potremmo dire che per noi buddisti la speranza è un esercizio di fede nel presente, che dà valore al presente.

È frutto di pazienza e perseveranza, è concentrazione e costruzione diligente e incessante. «Una simile speranza - spiega Ikeda nella Proposta di pace 2013 - non è un'espressione dell'insoddisfazione del presente rispetto alla soddisfazione di un futuro atteso con fiducia; è piuttosto un'espressione della pienezza del presente, un presente ravvivato da una sensazione del possibile» (BS, 158, 13-14). Una speranza così naturale e certa come quella di un inverno che «si trasforma sempre in primavera», che ci fa «coltivare con gioia e orgoglio i semi della possibilità» anche quando ci troviamo in frangenti difficili, ampliando così l'orizzonte del nostro sguardo.
Nelle pagine che seguono il tema della speranza viene declinato attraverso alcuni fondamenti del nostro insegnamento: il mutuo possesso dei dieci mondi, il principio secondo cui il Buddismo riguarda il presente e il futuro (gentonise), la simultaneità di causa ed effetto, il risveglio alla nostra vera identità di Bodhisattva della Terra.
Tutti questi principi cosa indicano? Che la chiave per trasformare la disperazione in speranza è la fede nella capacità di creare la propria felicità senza dover cercare la salvezza dall'esterno. La fede nel Buddismo del Daishonin equivale alla salda fiducia di essere in grado di affrontare e vincere qualsiasi avversità; significa aprirsi a quella verità della vita secondo cui la peggiore delle infelicità si può trasformare nella più grande delle gioie rivelando la Buddità intrinseca. Così come l'universo ha il potere di trasformare ogni inverno in primavera, gli esseri umani hanno sempre il potere di trasformare la disperazione in speranza.

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La speranza è un gesto creativo

Dedicato a persone dal "nucleo incrinato"

di Marina Marrazzi

Come chi coltiva sa, esistono semi che resistono per moltissimo tempo dormienti nella terra riarsa ma che, una volta innaffiati, possono riprendere vita. Questa prospettiva, che riempie di speranza, assomiglia al credere nell'esistenza della propria Buddità anche quando tutto farebbe pensare il contrario, immersi come siamo in uno stato vitale di dolore, paura, rinuncia.
Per questo la speranza a volte assomiglia a quel sorriso attento e fiducioso che pregusta qualcosa che si sta per sviluppare perché già esiste in potenza, anche se ancora non si vede, come le foglie nuove dal ramo nudo all'arrivo della bella stagione o la pienezza incondizionata della Buddità, quando il nostro stato d'animo è relegato in uno degli altri mondi e iniziamo a recitare Daimoku.
Citando il filosofo americano Milton Mayeroff, Daisaku Ikeda nella Proposta di pace di quest'anno parla proprio di quel tipo di speranza che accompagna l'arrivo della primavera, una speranza che non nasce da un'insoddisfazione attuale protesa verso una soddisfazione futura attesa con fiducia, ma che è piuttosto espressione della pienezza di un presente «ravvivato da una sensazione di possibilità».
Come quando ci disponiamo ad ampliare i confini del mondo noto per coltivare un seme nuovo, con la fiducia di vederlo svilupparsi nella pianta che immaginiamo, godendo giorno per giorno di questa "gioia giardiniera" ancora prima di ammirare l'albero adulto.
Questa disposizione a percepire la potenzialità della vita è già gioia di per sé, e non si nutre solo dell'attesa del risultato.
Chi la coltiva si ritrova proiettato all'interno di un progetto di vita più grande e condiviso che si alimenta anche del suo sogno: può essere la gioia di curare la realizzazione di un progetto da condividere a partire da un'idea personale che si accarezza da tempo, o la fioritura di qualche parte sofferente e inespressa di noi che curiamo, facciamo "guarire" e finalmente mettiamo al mondo.
Gioire ammirando terra scura e ramo asciutto sapendo come trattare il seme e la gemma.
Ma questa gioia e questo orgoglio di "coltivare i semi della possibilità" non scaturiscono certo da una disposizione d'animo passiva e fatalista. Affondano piuttosto nella consapevolezza di condividere in ogni istante e in ogni frazione di noi, singola e particolarissima, quell'humus ricco di potenzialità da cui origina la vita. Consapevolezza che, cosa estremamente rara e direi miracolosa, si basa sulla possibilità di farne esperienza.
Penso alla frase «Non c'è vera felicità per gli esseri umani al di fuori del recitare Nam-myoho-renge-kyo» (Felicità in questo mondo, RSND, 1, 607) e mi dico: ecco un modo per descrivere il mutuo possesso dei dieci mondi in azione, una conferma pratica della verità di questo cardine dottrinale del Buddismo, secondo cui la Buddità, la realizzazione, è già contenuta in potenza in ogni condizione vitale di incompiutezza.
Come l'acqua quando innaffiamo scioglie le sostanze nutritive nascoste nella terra e le mette a disposizione della crescita, così l'atto di recitare Daimoku riattiva la Buddità che c'è ma non si vede, illuminando illusioni e oscurità.
Saperlo e goderne si fondono in quell'unico gesto.

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Una gioia giardiniera

di Simona Caleo

«Quelli che credono nel Sutra del Loto sono come l'inverno, ma l'inverno si trasforma sempre in primavera». Come spiega Daisaku Ikeda, «in queste parole è concentrata tutta la filosofia della speranza che è l'essenza del Buddismo di Nichiren Daishonin» (BS, 130, 5).
Perché la speranza è una costola della fede, è dentro la sua carne come una preziosa nervatura, che tende e muove come nessun'altra. Muove il presente, lo anima e lo organizza: ribadendo il principio fondamentale secondo il quale "causa ed effetto" convivono "in un singolo istante di vita", esprime tutto il suo potere proprio nel momento in cui la difficoltà, la sofferenza, la mancanza e l'assenza tracciano un perimetro vuoto nel quale parrebbe impossibile ricomporre il disegno della gioia.
Ma «per chi abbraccia il Sutra del Loto, l'inferno diventa la Terra della luce tranquilla». La speranza immersa nella fede si presenta non solo come una buona disposizione dello spirito, ma come un atto propositivo e creativo, che ha il profilo familiare e galvanizzante di un'occasione e insieme l'immediata operosità di un atto trasformativo.
Chi spera con i piedi ben fermi per terra e una fede altrettanto salda può allenarsi e acquistare la rara capacità di fare molto con poco. L'esercizio della speranza, infatti, appare il più delle volte connesso al concetto del limite e il primo fascio di luce che la preghiera getta sui nostri personali confini è la visione di un'opportunità, che trasforma come prima cosa l'impedimento in un attrito propulsivo, in una spinta ad agire. Da quel punto strategico è quindi in grado di cambiare in meglio anche il resto del paesaggio.
Quando non si hanno a portata condizioni esterne favorevoli o una facile disponibilità di mezzi, quando entrano in campo soprattutto una grande forza e una robusta determinazione, la speranza diventa l'anima della battaglia.
Non si tratta, a mio avviso, di compiere una forzatura, è semmai il contrario. Secondo il Buddismo siamo stati noi, e non altri, a scegliere di nascere in questo luogo, in questo momento storico, come pure abbiamo scelto le persone più vicine che ci circondano e ci accompagnano: in definitiva abbiamo scelto noi i nostri limiti e le sfide che prima o poi ci avrebbero messo di fronte. Decidere di superare queste barriere, con la certezza e la forza che solo la speranza - nutrita di preghiera e di fede - può mettere in campo, significa ritrovare la strada che avevamo scelto, riconoscerla profondamente, rinsaldare il legame con la nostra esistenza, riprendere con vigore quel percorso e portare così a compimento la nostra missione.
In quest'ottica la mancanza di speranza è un dialogo interrotto con la propria vita, è come rinunciare a vederla nella sua interezza, impedirle di manifestare tutto il suo magnifico potere, accontentarsi di piantare una bandierina sulla punta dell'iceberg.
Non ci sono dubbi e perplessità, non ci sono prospettive anguste e malinconiche rinunce intorno alla "gioia senza limiti della Legge", una chiave perfetta fatta solo per aprire. Attraverso la fede, spiega ancora Ikeda, «potete attingere a una fonte inesauribile di fortuna dentro la vostra vita. È come se, aprendo un magico scrigno, poteste avere accesso a tesori infiniti» (Il Gosho e le basi della fede, Esperia, p. 122). È la speranza che apre la strada, spinge nella direzione buona, butta giù recinzioni e paletti e tira dentro questa rivoluzione dello sguardo che spinge lontano anche ciò che ci circonda. Una gioiosa contaminazione che si propaga tutto intorno, e porta diritto verso quel magico scrigno.

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Fare molto con poco

di Maya Costantini e Roberto Carvelli

«L'ossessione per i fallimenti passati è segno di stupidità. Ed è ugualmente da stupidi essere soddisfatti dei propri piccoli successi. Il Buddismo insegna che il presente e il futuro sono importanti, non il passato. Esso ci trasmette uno spirito di continua sfida a vincere nel presente, progredendo verso il futuro. Chi abbandona tale spirito rivolge la propria vita verso la rovina».
Questa frase di Daisaku Ikeda, tratta dal libro dei consigli quotidiani Giorno per giorno del 22 giugno, fa riferimento a un importante concetto buddista, gentonise. In giapponese si scrive con quattro ideogrammi (gen, ora, presente, to, futuro, ni, due e se, vita, esistenza, tempi). Lo stesso Ikeda in La nuova rivoluzione umana (capitolo "Impetuoso balzo in avanti") fa dire a Shin'ichi Yamamoto: «Nel portare avanti la fede, la cosa più importante è osservare il principio di gentonise. Gen indica il "presente", la "vita attuale", to indica il "futuro" e la "prossima vita". Perciò è importante non rimanere legati al passato, ma far tesoro del presente e vivere mirando al futuro» (traduzione provvisoria). Contrariamente a quello che pensiamo e che ci è stato sempre insegnato non si tratta di far tesoro del passato, quindi, ma del presente.
Siamo partiti da qui per ragionare insieme su questa particolare relazione che per il Buddismo il passato intrattiene con il futuro.

Maya: ho cercato di approfondire, attraverso la preghiera e lo studio, il concetto di speranza come possibilità di costruire un futuro vittorioso. Scrive Daisaku Ikeda nella Proposta di pace 2013: «Esiste la speranza che l'altro cresca grazie alla mia cura. Per certi versi è simile alla speranza che accompagna l'arrivo della primavera. [...] Una simile speranza non è un'espressione dell'insoddisfazione del presente rispetto alla soddisfazione di un futuro atteso con fiducia; è piuttosto un'espressione della pienezza del presente, un presente ravvivato da una sensazione del possibile» (BS, 158, 13-14). Continuamente la nostra pratica buddista ci ricorda che le cause che mettiamo ora saranno gli effetti del futuro: «Se vuoi conoscere le cause del passato, guarda gli effetti del presente; se vuoi conoscere gli effetti del futuro, guarda le cause del presente» (dal Sutra dell'osservazione della mente come la terra, in L'apertura degli occhi, RSND, 1, 252).
Roberto: il primo beneficio da cercare nella preghiera è la messa in crisi della convinzione che il passato ha influssi continui nel presente. Se costruiamo, invece, la convinzione che il presente è svincolato dal passato, Daimoku dopo Daimoku, la nostra vita respira e, staccandosi dal ciclo delle ripetizioni negative, si apre al nuovo.
Maya: quindi dobbiamo basarci sul presente convinti che da ora possiamo costruire la vita che desideriamo.
Roberto: quello che penso è che non possiamo cancellare il passato, il karma esiste, quindi ci saranno influssi, ma quello che può cambiare è proprio il potere che diamo a questo influsso, in particolare riguardo alle sofferenze. Se ti basi sul potere del karma, il karma continua ad agire e si rafforza. Come nell'episodio del generale Tigre di Pietra: se avesse pensato: «Quella è una pietra ma se tiro forte la freccia nel punto x magari riesco a conficcarla» non ci sarebbe mai riuscito. Pensa, invece, con forza, che è una tigre, quella tigre lì che gli ha ucciso la madre, e solo così riesce in un'azione fisicamente impossibile. Lo stesso può accadere a noi di fronte a un problema, a una malattia, a qualsiasi cosa che ci crea dolore. Tutto dipende da quanto crediamo.
Maya: io mi ricordo un corso a Trets in cui Mitsuhiro Kaneda ci spiegò che ogni volta che pensiamo a un problema abbiamo un ichinen rivolto al passato. "Problema" vuol dire che è già successo... Cosa facciamo noi oggi per risolvere il problema?
Roberto: per me è sempre stato così: se uno pensa al problema non pensa mai alla soluzione quindi non la trova perché, in realtà, non la sta cercando. Sta semplicemente confermando il problema.
Maya: è vero. Ad esempio una persona che ha difficoltà coi soldi, non è che continuando a ripeterselo risolve. Finché continuo a dirlo, anche praticando, la situazione non cambia. Anzi sto rafforzando il problema.
Roberto: il segreto è cercare soluzioni nuove, ma il senso per il Buddismo non è "essere positivi" perché fa stare meglio - che va anche bene - ma fare esperienze del principio che le sofferenze sono nirvana ovvero della trasformazione del karma.
Maya: in un libro che sto leggendo, Imparare l'ottimismo, Martin Seligman, con cui il presidente Ikeda ha intessuto dialoghi, scrive: «Il fallimento può anche capitare quando il talento e il desiderio sono presenti ma manca l'ottimismo» (Giunti, 2009). Per il Buddismo ottimismo significa riconoscere la propria natura illuminata e basarsi su questa più che sulle nostre sole (in)capacità personali.
Roberto: le nostre debolezze non dovrebbero proprio far parte del nostro pensiero, della nostra preghiera. Il punto non è non lamentarsi perché sta male - tipo mangiare con le mani o mettersi le dita nel naso. Mi fa pensare, piuttosto, a quando all'università uno agli esami incontrava quei professori che facevano una domanda e se la sbagliavi ti mandavano via. Per il loro sistema di pensiero quella era la domanda che teneva tutto. La non lamentela per un buddista dovrebbe essere la "condizione senza la quale". Chi pratica dovrebbe pensare continuamente alle soluzioni.
Maya: esatto! Come dice Sensei, coltivare con gioia oggi i semi della possibilità. Ad esempio per me in questo periodo di crisi globale è molto importante concentrarmi su possibilità che fino a ieri non vedevo, nuove strade, nuove occasioni... Perché in fondo quello che è successo è già successo... Oggi io che faccio? Cerco nuove strade gioiose.
Roberto: "l'inverno che si trasforma sempre in primavera": questa è l'immagine di un'incrollabile fede colma di speranza. È sapere che "ogni preghiera otterrà risposta", che immancabilmente la promessa di cui parla il Sutra del Loto sarà mantenuta. Ma, da parte nostra, quello che rende la promessa reale è quanto io la credo vera, attuabile, realizzabile. Io sono l'altro termine della promessa. Non posso mancare io. Il sutra fa una promessa a me: quanto ci credo? Se ci credo la promessa si realizza. Se non ci credo: chi posso rimproverare?

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Il tempo presente e quello futuro

Se non viene messa alla prova la speranza resta solo un fragile sogno. Comincia dallo sforzo di lottare per un ideale, per quanto lontano possa sembrare, perché è molto meglio perseguire un obiettivo remoto e apparentemente impossibile che privarsi dell'entusiasmo che tale obiettivo può suscitare

Titolo originale Making Hope, pubblicato su Sgi Quarterly di gennaio 2006

Il Buddismo insegna che la forza che muove l'universo è la stessa forza che muove la nostra vita. Ciascun individuo ha un immenso potenziale, e una grande trasformazione nella dimensione interiore della propria vita ha il potere di toccare la vita degli altri e di trasformare la società. Quando cambiamo la nostra determinazione interiore, ogni cosa comincia a muoversi verso una nuova direzione.
La speranza, in questo senso, consiste in una decisione. Quando possediamo il tesoro della speranza, possiamo far emergere da dentro di noi il nostro potenziale e la nostra forza. Una persona piena di speranza può sempre avanzare.
La speranza è una fiamma che alimentiamo nel nostro cuore. La scintilla della speranza può essere fatta scattare da qualcuno al di fuori di noi - per esempio dalle parole incoraggianti di un amico, un parente, un maestro - ma poi va ventilata e il fuoco mantenuto vivo con la nostra determinazione. La cosa più importante è la determinazione a continuare a credere nell'illimitata dignità e nelle infinite possibilità inerenti alla nostra vita e a quella degli altri.
Il Mahatma Gandhi intraprese la sua lotta nonviolenta a favore dell'indipendenza indiana dalla dominazione britannica ottenendo un successo al di là di ogni aspettativa. Egli era, per usare le sue stesse parole, «un inguaribile ottimista». La sua speranza non si basava sulle circostanze esterne, ossia non aumentava o diminuiva a seconda di come sembravano volgere gli eventi. Al contrario, essa si basava su un'incrollabile fede nell'umanità, nella capacità delle persone di creare il bene. Gandhi si rifiutò categoricamente di abbandonare le propria fede negli esseri umani.
Mantenere la fede nella bontà essenziale delle persone e conseguentemente sforzarsi di coltivare questa bontà in noi stessi, come Gandhi stesso ci ha dimostrato, sono le due chiavi per liberare il grande potere della speranza. Credere in noi stessi e negli altri in questo modo, ossia continuando a portare avanti la nostra lotta interiore per far sì che questa convinzione sia alla base delle nostre azioni, può trasformare anche una società sul punto di precipitare nell'oscurità in un mondo umano e illuminato in cui tutte le persone vengono trattate con rispetto.
Ci possono essere momenti in cui, dovendo affrontare una realtà crudele, tendiamo a perdere la speranza. Quando non riusciamo a trovare la speranza è il momento di crearla. Possiamo farlo scavando nel profondo di noi stessi, cercando anche il più debole barlume di luce, per trovare la possibilità di sbloccare l'impasse davanti a noi. Così la nostra capacità di creare la speranza può di fatto espandersi e rafforzarsi grazie alle circostanze difficili. La speranza, se non viene messa alla prova, non è altro che un fragile sogno. La speranza comincia da questa sfida, dallo sforzo di lottare per un ideale, per quanto lontano esso possa sembrare.
È molto meglio perseguire un obiettivo remoto e apparentemente impossibile che privarsi dell'entusiasmo che tale obiettivo può suscitare. Credo che la più grande tragedia nella vita non sia la morte fisica bensì la morte spirituale legata al venire meno della speranza, al non credere più nelle nostre possibilità di crescere.
Il mio maestro Josei Toda scrisse: «Se osserviamo i grandi del passato, vediamo che non si lasciarono abbattere dalle onde impetuose delle difficoltà della vita ma rimasero aggrappati a speranze che ad altre persone sembravano solo dei sogni bizzarri. Nulla li poteva fermare o scoraggiare nella realizzazione delle proprie aspirazioni, e sono certo che la ragione di questo atteggiamento sia il fatto che le loro speranze non erano dirette al conseguimento di desideri o interessi personali bensì orientate verso la felicità delle persone, cosa che li riempiva di convinzione e fiducia straordinarie».
Toda evidenziò una verità di fondamentale importanza: l'autentica speranza emerge laddove ci si impegna puntando a sogni e obiettivi di grande portata, come un mondo senza guerra e violenza, un mondo in cui ognuno possa vivere con dignità.
I problemi che il mondo deve affrontare sono scoraggianti nella loro vastità e complessità, tanto che a volte può essere difficile capire da dove o come cominciare ad affrontarli. Ma non possiamo lasciarci paralizzare dalla disperazione, dobbiamo invece muoverci verso gli obiettivi che ci siamo fissati e in cui crediamo. Anziché accettare passivamente le cose come stanno, dobbiamo imbarcarci nella sfida di creare una nuova realtà. È in questo impegno che si trova un'autentica e incessante speranza.

Titolo originale Making Hope, pubblicato su Sgi Quarterly di gennaio 2006
(Traduzione di Lisa Michieletto)

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La stessa energia che muove l'universo

Nel momento in cui ci risvegliamo alla nostra missione di Bodhisattva impegnandoci nella propagazione, riusciamo a far emergere il massimo valore da ogni circostanza e cambiamo la realtà

a cura di Alessandra Fornasiero

La speranza è un'apertura del cuore che nasce dalla decisione. Il presidente Ikeda afferma che per tenere viva la fiamma della speranza bisogna lottare per un grande ideale.
Mantenere questa direzione del cuore significa allenarsi a credere in ogni momento nella Buddità, nelle illimitate possibilità inerenti alla vita, nostra e degli altri. Solo se la speranza sgorga copiosa dalla nostra vita potremo continuare a dare speranza a chi ci circonda. La meta è kosen-rufu, ma questa meta si raggiunge a ogni passo. Ogni momento è prezioso per manifestare la Buddità, per vincere sui nostri limiti, sulla nostra oscurità.
Quando si vive sulla base di questa convinzione, ogni difficoltà diventa un'occasione per provare gratitudine e per sfidarsi. Per far emergere la nostra parte migliore. Per dimostrare il potere del Gohonzon. Per ispirare un'altra persona. Per far sì che si risvegli al suo infinito potenziale.

Il Buddismo di Nichiren Daishonin si basa sul principio di "alzarsi da soli". Ogni persona, come afferma il Daishonin, può diventare quel singolo granello di polvere da cui emerge un nuovo monte Sumeru, o la singola goccia d'acqua da cui si forma il grande oceano. «E quando dapprima una sola persona, poi due, poi mille, diecimila, centomila e quindi tutto il popolo da un capo all'altro del paese reciterà Daimoku, benefici insperati si accumuleranno sulla tua persona» (I benefici del Sutra del Loto, RSND, 1, 600).
Questa è la promessa di Nichiren.
Ognuno così com'è può risvegliarsi alla sua missione di Bodhisattva della Terra e manifestare il vero io, lasciando cadere tutto ciò che non serve per essere felice. L'ichinen che sta alla base delle nostre giornate cambia la qualità del nostro modo di comportarci, nel lavoro, in famiglia, nel quartiere, ovunque ci troviamo. Cambia la qualità delle nostre relazioni.
E questo cambiamento è già kosen-rufu.
Un atteggiamento di apertura verso gli altri e di ottimismo a oltranza, che ci porta a cercare la Buddità in ogni persona e a creare il massimo valore in ogni situazione, viene recepito dagli altri e produce altro valore. Come dimostrano le esperienze che seguono di Roberto Giovannini e Francesca Galatoli, responsabili della divisione giovani.

Alessandra: Siamo abituati a pensare alla speranza come a un sentimento vago, ma in realtà la speranza, dice Sensei, nasce dal coraggio, nasce dalla decisione. Siamo noi che la creiamo, muovendo il primo passo.

Roberto: Dice anche quanto è importante mettersi obiettivi grandi, impossibili, quelli che tu dici «questa cosa non si realizzerà mai», però se cominci a crederci e ti muovi in quella direzione, allora nasce la passione e la strada si apre. Il sogno di una vita non si realizza in un giorno o in un mese, però adesso incominci a mettere le cause... Per fare questo ti serve il Daimoku, altrimenti demordi subito perché lo vedi troppo lontano. Il Daimoku ti dà la consapevolezza che ciò che conta è il momento presente.
Per me è stato proprio così, nel lavoro.
Anche se le circostanze non rispecchiavano affatto quello che desideravo, ho continuato a credere nel mio sogno coinvolgendo anche mio fratello e un amico che lavora con me: «Un giorno noi ci staccheremo da questa società e apriremo la nostra azienda, sicuro!». Intanto lavoravamo dodici-tredici ore al giorno, ma in quello sforzo c'era dentro questo sogno.
Ci siamo impegnati al massimo, crescendo tutti e tre in quella direzione, sempre propositivi, con quell'energia che viene dal Daimoku che reciti la mattina.

Così dopo un anno di impegno appassionato Roberto ottiene dal principale l'avallo del suo progetto. Dieci dipendenti su trenta lo seguono nella nuova impresa, giovanissimi ed entusiasti. Tutto procede per il meglio, ma a primavera la crisi economica si fa sentire in modo grave. Ultimatum del commercialista: una settimana di tempo per risolvere o iniziare a licenziare almeno cinque-sei persone. In un paese di tremila anime gli effetti della crisi sono evidenti, sotto gli occhi di tutti. C'è chi perde il lavoro, chi non viene pagato... In realtà è tutta la zona a soffrire di questa situazione.
È qui che scatta la sfida di Roberto, di credere in ciò che a detta di tutti è impossibile, di lottare con tutte le forze utilizzando la strategia del Sutra del Loto prima di ogni altra, non soltanto per mantenere quei posti di lavoro, ma per dare un grande impulso di incoraggiamento a tutte le persone. Il suo spirito combattivo contagia tutti, si spostano i macchinari, il capannone si trasforma in butsuma, c'è chi porta la campana chi le offerte, chi le fotocopie delle guide sul lavoro: «È bellissimo!» dice, una domenica intera di Daimoku perché ognuno realizzi una prova concreta nella sua vita, per dimostrare a tutti, anche a chi non pratica e dice che è impossibile, che Nam-myoho-renge-kyo davvero funziona.
Il giorno seguente, lunedì, si apre uno spiraglio. Tra le tante risposte negative, una ditta propone a Roberto di fare trecento borse. In realtà per svoltare c'è bisogno di tremila borse, ma lui accetta. Recita Gongyo ringraziando il Gohonzon e decide che questa persona «guardandolo negli occhi deve sentire che di lui si può fidare». E così è. Durante l'incontro la proposta diventa di tremila pezzi al mese, persino più di quanto sia in grado di fare... Roberto non riesce a crederci, carica la macchina fino all'inverosimile, partono le prime borse: «Ottocento - nota il suo amico che non pratica - come le otto ore di Daimoku recitate!». Tornano al paese esultando e tutta la zona artigianale, almeno trecento persone che lavorano nelle varie aziende, tutti hanno saputo che Robertino - è incredibile! - è riuscito a trovare lavoro e si sentono incoraggiati, e non solo ha salvato i contratti di quei ragazzi, ma anche quelli di un'altra azienda a cui ha passato parte del lavoro...

Francesca: Questo è proprio gettare il cuore oltre l'ostacolo. Tu hai legato la tua vittoria personale alla felicità di un sacco di persone, per questo hai realizzato. Sei stato coraggioso. Io vedo molta differenza, quando mi metto un obiettivo per me stessa diventa una lotta pesante, davvero faticosa, ma quando lego la mia vittoria a quella delle giovani donne, a kosen-rufu, automaticamente esce una forza, un coraggio, una determinazione che io non avrei per me stessa; è una cosa enorme, non c'è paragone!
Sensei ci dice: «Dove non c'è speranza, crea la speranza, dove non c'è gioia porta tu la gioia». Ultimamente in giro c'è tanta disperazione, lamentela, e io mi sono resa conto che, soprattutto nel lavoro, ma anche per strada e ogni volta che incontro una persona, mi sforzo sempre di portare un punto di vista diverso, di incoraggiamento, basato su uno stato vitale che in realtà viene dal Daimoku, perché naturalmente io di mio non ce l'avrei, questo sentire profondamente che non è mai un caso dove ci troviamo, che abbiamo questa missione innata di Bodhisattva della Terra... e così apro, penso agli altri, a kosen-rufu, e mi nasce dentro questo coraggio, questa ispirazione a creare, a tirar fuori gioia, questa speranza illimitata che c'è dentro la vita. Ma tutto questo è legato profondamente al Daimoku. E al rapporto con Sensei.
Io prima di praticare ero molto pessimista, non riuscivo a vedere il valore in me stessa, cercavo sempre conferme al di fuori... La prima guida di Sensei per le giovani donne del gruppo Ikeda Kayo-kai: «Diventate soli gioiosi di felicità» è stato l'incoraggiamento più grande a creare la speranza nel mio cuore. Mi sono detta: Sensei ci sta chiedendo di partire da noi stesse, di fare la prima azione, che può essere anche quella del sorriso, perché un sorriso può illuminare qualunque situazione.
Ad esempio nel lavoro, come assistente del "capo" sono messa costantemente alla prova, anche dal punto di vista dello stress, ma cerco di vedere ogni cosa come un'occasione per migliorare, continuando a nutrire con il Daimoku questo pensiero costante: «Come posso creare gioia, come posso creare leggerezza». Il risultato è che l'ultima volta nella mia busta paga c'era molto più del dovuto e quando sono andata a dirglielo, credendo che fosse un errore, mi ha risposto che era un premio che aveva voluto darmi «per ringraziarla del lavoro che ha svolto fino a oggi». Mi sono sciolta in lacrime, non me lo aspettavo! È proprio vero che tutto viene riconosciuto, quando c'è questo atteggiamento di dare valore poi tutto il valore ti ritorna, in qualunque modo. Nam-myoho-renge-kyo permea l'universo e quindi non dobbiamo metterci limiti, perché i limiti non ci sono.
Oltretutto questo premio è arrivato nel momento in cui avevo deciso di andare a vivere da sola, e quindi per me è stato un grande incoraggiamento, una conferma del fatto che quando sfidi la tua paura...

Francesca ultimamente ha deciso di sfidare la sua paura e andare a vivere da sola.
Cerca una casa con una stanza da poter dedicare interamente al Gohonzon, all'attività, «perché questa è la mia vita», dice. La trova ed è perfetta, le piace moltissimo. Ma l'affitto è decisamente fuori budget e la sua proposta viene rifiutata. Durante la visita con il ragazzo dell'agenzia si sofferma a parlare con l'inquilina, una ragazza di ventiquattro anni che le racconta tutte le difficoltà che sta incontrando nel lavoro, per cui ha deciso di ritornare a Udine. Contro tutto il suo interesse a ottenere quella casa, Francesca le fa shakubuku e le fornisce il contatto con una persona a cui inviare il suo curriculum. Il ragazzo dell'agenzia la guarda incredulo.
Nei giorni seguenti Francesca ha il cuore leggero, non pensa più tanto alla casa sfumata quanto al fatto che quella giovane donna con la quale è rimasta in contatto sta iniziando a praticare. La richiama il ragazzo dell'agenzia: contro ogni ragionevolezza insiste perchè lei vada a conoscere i proprietari, nonostante ci siano già due proposte a prezzo pieno. Lei non capisce ma decide di fidarsi. Con la signora parlano a lungo di fiducia, del valore delle relazioni... Francesca sta per farle shakubuku, anche perché non vede altra ragione per essere lì in quel momento, quando la signora all'improvviso dice: «Va bene, possiamo fare il contratto al suo prezzo». Francesca è esterrefatta. Non solo: il marito, che certo non può sapere che lei torna sempre a casa tardi dall'attività, le offre il box «perché non va bene che una ragazza sola debba cercare il parcheggio quando torna la sera». Incluso nel prezzo e col telecomando nuovo. Naturalmente il giorno della firma del contratto Francesca fa shakubuku a entrambi i proprietari e regala un libro di Buddismo al ragazzo dell'agenzia ringraziandolo con tutto il cuore «per averle permesso di realizzare un sogno che per lei era impossibile».

Roberto: Io quando faccio shakubuku sento che la mia vita è nata per fare questo, per propagare il Buddismo. Poi tutto il resto indubbiamente mi serve, io devo riuscire a creare una vita bella, una vita solida. Però la gioia senza limiti la sento solo quando faccio shakubuku, allora mi sento veramente vicino a Sensei, a Nichiren Daishonin, perché l'unico scopo del maestro è risvegliare ogni persona a questo immenso potenziale. Quando sento questo, ogni sfida che affronto diventa divertente, perché serve a dimostrare che il Buddismo funziona, perché voglio che le persone siano felici. Quando sento così, poi nel lavoro esplodo, nelle relazioni esplodo! Con i genitori, con la mia mamma, con i miei fratelli, tiro fuori questa capacità di incoraggiare chiunque, qualunque sia la sofferenza, anche se non ci ho fatto un'esperienza esce la parola giusta, esce la frase di Gosho, come se l'avessi vissuta anch'io...

Francesca: Il legame con il maestro è la chiave di tutto. In ogni esperienza c'è sempre alla base il desiderio di essere una discepola di valore. E questo va contro il piccolo io, le capacità personali, le paure... Questo desiderio profondo di ricordarci il voto che abbiamo fatto come Bodhisattva della Terra ci fa fare uno scatto enorme nella nostra vita, e non c'è gioia più grande. La gioia che emerge quando si condivide la lotta con un'altra persona dandole la possibilità di diventare felice non è paragonabile a niente. È una felicità totale, è un impulso della vita che senti dentro al cuore, dentro la pancia...
Shakubuku è l'azione più profonda che si può fare di apertura alla vita. Significa fidarsi del fatto che se io sono un Budda anche quella persona è un Budda, e non c'è ombra di dubbio. Poi quando siamo soli dubitiamo... pensiamo che ci manchi qualcosa. Ma l'azione di shakubuku è quella che ti tira fuori questa fiducia innata nella vita.

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Quella fiducia innata nella vita

di Maria Lucia De Luca

Mi è capitato recentemente di sentirmi incapace di fare progetti e di sentire la vita confinata alla necessità del momento, priva di una grande visione che allarga i polmoni e fa respirare.
Per una sognatrice come me è stato come trovarsi in una prigione angusta e senza porte, oppressa da un peso grave da sopportare. Secondo il Buddismo questa è la normale condizione degli esseri umani: il loro è il "mondo di sopportazione".
Tra i vari appellativi del Budda vi è "colui che sa sopportare" (giapp. nonin), perché il Budda sa vivere bene in questo mondo difficile. E al fine di guidare le persone all'Illuminazione affronta e supera tutte le difficoltà che vi incontra. Se quindi il Budda è una persona che sa vivere, allora per noi abbracciare il suo insegnamento è imparare a vivere. A stare piantati in questo presente scomodo - da cui per impazienza vorremmo scappare anche rassegnandoci alla sconfitta - cercando tutte le possibili soluzioni per fare un passo avanti.
«Per vincere - scrive Daisaku Ikeda - è importante l'atteggiamento di nonin, pazientare perseverando. Ciò che rende impotente l'individuo è dire: "Non ce la faccio più". Questo atteggiamento di resa porta a chiudere la porta del proprio potenziale infinito e imprigiona lo spirito» (La nuova rivoluzione umana, vol. 26, cap. 4, traduzione provvisoria).
E ancora: «L'essere umano è portato a perdere la voglia di lottare sia quando il muro delle difficoltà è così spesso da fargli credere di non potercela proprio fare, sia quando vede che sta riuscendo a superare le difficoltà e pensa che "è fatta", cadendo nella negligenza e nella mancanza di accuratezza. Per poter vincere è necessario, giorno dopo giorno, avanzare, sfidarsi e migliorarsi. Se una bicicletta si ferma, cade, e lo stesso vale nella lotta per il conseguimento della Buddità in questa esistenza» (Ibidem).
Nell'attimo presente si concepisce l'infinito futuro, scrive ancora Sensei. E il momento presente non è mai uguale, noi siamo sempre diversi, intorno a noi tutto si muove. Ci si ritrova sempre delusi quando ci si illude, per tradizione "scaramantica", che le azioni che ieri sono andate a buon fine se ripetute oggi produrranno analoghi risultati. Non accade mai. E anche se apparentemente si sta affrontando una nuova giornata, si rimane invece avvitati al passato.
«Sempre nuove sono le acque che scorrono su coloro che entrano più volte negli stessi fiumi» scriveva il filosofo Eraclito (fr. 12). Per non lasciarci sfuggire il "momento" è necessario affrontarlo con tutte le proprie forze, con uno sguardo nuovo, creativo. Quanto continuo a cercare, a lottare, a stare in cose che sembrano vecchie o sempre le stesse provando a non essere uguale a me stessa nel cuore, nel Daimoku, nelle azioni?
«Nella fede la perseveranza è importante - afferma Ikeda - ma perseverare non significa ripetere la stessa cosa del giorno precedente, perché questa non è altro che inerzia. La vera fede da portare avanti per tutta la vita è quella in cui ogni giorno si rinnova la decisione: partiamo. "Partiamo" significa non rimanere relegati al passato, è lo spirito di avanzare giorno dopo giorno affermando: "Tutto inizia da ora in poi". È lo spirito forte di una sfida senza sosta» (La nuova rivoluzione umana, op. cit.).
La perseveranza allora è qualcosa di simile allo spirito degli esploratori: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, 119-120) fa dire Dante a Ulisse per esortare i suoi marinai ad affrontare l'ignoto.
Pazienza, perseveranza, diligenza, dedizione, accuratezza: ottimi antidoti contro l'emotività, l'ansia, la paura, utili mezzi per domare "quel cavallo ribelle chiamato mente". Ma che senza puntare a un obiettivo grande rimangono semplici esercizi di training autogeno che alla fine perdono di efficacia.
«È molto meglio perseguire un obiettivo remoto e apparentemente impossibile - ci incoraggia il presidente Ikeda a p. 18 - che privarci dell'entusiasmo che tali obiettivi possono suscitare. [...] I grandi del passato non si lasciarono abbattere dalle onde impetuose delle difficoltà della vita ma rimasero aggrappati a speranze che ad altre persone sembravano solo dei sogni bizzarri. Nulla li poteva fermare o scoraggiare nella realizzazione delle proprie aspirazioni, e sono certo che la ragione di questo atteggiamento sia il fatto che le loro speranze non erano dirette al conseguimento di desideri o interessi personali bensì orientate verso la felicità delle persone, cosa che li riempiva di convinzione e fiducia straordinarie"».
E allora partiamo! Partiamo è una freccia, una freccia diretta verso il futuro, e noi sappiamo bene dove andare. O, forse, dobbiamo solo ricordarcelo.

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Partiamo!

A ciascuno di noi sarà certamente capitato di sentire capovolto il proprio stato vitale dopo solo pochi minuti di Daimoku. Quest'esperienza straordinaria e commovente di passare dalla disperazione alla speranza, vera, profonda, che sa di vita, è sempre alla nostra portata. È una sensazione stupenda che nel momento stesso in cui l'ho provata ho sentito il bisogno di provarla ancora e ancora, tutte le volte che ne sento l'esigenza. Questo è il grande potere di Nam-myoho-renge-kyo. Non sempre, però, quando siamo giù di morale riusciamo a ricreare una simile esperienza, e troviamo la forza per andare davanti al Gohonzon e riattivare quella sorta di "miracolo" che avviene dentro il nostro cuore. E allora cosa possiamo fare in quei momenti?
Come possiamo uscire da quel buio per ritrovare la luce, quella scintilla che ci accompagna nel risentire nuovamente di essere dei Budda?
Ciò che a me ha aiutato moltissimo in alcuni momenti difficili è stato ricorrere al sostegno dei compagni di fede. Questi "buoni amici" possono rappresentare a volte una vera e propria salvezza. «Proprio nei momenti cruciali, quando sembra non esserci alcuna speranza, è fondamentale il sostegno delle altre persone e un incoraggiamento sincero può aiutare a ritrovare la forza di continuare a lottare e a non arrendersi. A volte è l'unica cosa che riesce a ridare la fiducia e la forza di credere ancora di potercela fare nonostante tutto» (Tamotsu Nakajima, NR, 443, 13).
Ho sempre percepito quella dei compagni di fede come una risorsa preziosissima per noi che pratichiamo il Buddismo del Daishonin, e che rende la Soka Gakkai un'organizzazione di grande potenziale umano. Il sangha, letteralmente la comunità dei credenti, è definito uno dei tre tesori del Buddismo (dopo il tesoro del Budda e il tesoro della Legge). In una spiegazione del Gosho I quattro debiti di gratitudine si legge: «Il terzo dei tre tesori è il prete, o il sangha, la comunità dei credenti. Senza il prete che insegna e propaga correttamente il Buddismo, non esistono neanche il tesoro del Budda e della Legge» (NR, 283, 21). Questo per sottolineare che non esiste altra priorità che i legami cuore a cuore che riusciamo a stabilire con le persone con cui pratichiamo il Buddismo. Lo stesso Sensei scrive: «I membri non esistono in funzione dell'organizzazione, è l'organizzazione che esiste per loro» (Una rivoluzione della leadership, Esperia, p. 57).
Nella mia esperienza di fede ho sperimentato che tutte le volte che ho saputo chiedere aiuto ai compagni di fede, manifestando apertura in questa richiesta, ho sempre superato i miei punti morti con più facilità e immediatezza. Ma non sempre è stato così. Spesso mi intestardisco a volercela fare da sola, a non confidare neanche i miei dolori. A volte è come se credessi che la mia fede può rafforzarsi solo se compio il mio percorso senza l'aiuto di nessuno. Ma la pratica non è un gioco a premi dove vince chi riesce ad arrivare per primo senza aver rivolto alcuna richiesta d'aiuto. Tutte le volte che mi sono chiusa alla possibilità di lasciarmi sostenere, in realtà non ho fatto altro che ritardare e affaticare un salto che poteva essere più leggero e gioioso grazie a una condivisione sincera che avrebbe permesso alla mia Buddità di confrontarsi e dialogare con quella di chi mi stava di fronte.
Lo stesso Daishonin accetta e ringrazia sempre i suoi discepoli che lo sostengono per l'aiuto offertogli. Aiuto, peraltro, a lui necessario in termini di vestiti e di cibo. Nichiren non ha mai rifiutato i doni ricevuti perchè preferiva farcela da solo...
Riflettere su questo aspetto della pratica mi ha aiutato a comprendere con maggiore serietà che ha senso andare oltre i propri limiti personali per realizzare un bene più grande che è la felicità che costruiamo insieme agli altri. Se ci lasciamo sostenere, infatti, diamo anche a chi ci sta di fronte la possibilità di vivere un'esperienza utile che può riportare nella sua vita personale, al lavoro, in famiglia e in tutte le relazioni significative. Se mi chiudo a una tale opportunità blocco, in realtà, un circolo virtuoso che può arrivare molto, molto lontano.
E allora quando non ce la faccio da sola, quando la mia difficoltà ha inciampato in quel buio da cui non riesce a uscire, quando sedermi davanti al Gohonzon - davanti alla mia stessa vita - è troppo doloroso, faticoso, insopportabile... allora posso provare a fare spazio e aggiungere una sedia davanti al mio piccolo tempio. Fare spazio per fare entrare un'altra persona nella mia vita, nel mio cuore che in quel momento crede che non ce la fa.
E poi accade. Accade che quel momento vive e si arricchisce di un Daimoku che è a due. Un Daimoku che non è più pesante e solitario, ma è gioioso e pieno di speranza. Una speranza che decide di esistere, che vuole essere. «Quando non riusciamo a trovare la speranza è il momento di crearla», dice Sensei a p. 18 di questo giornale.
Lasciarsi incoraggiare è in realtà un atto di grande coraggio che rende concreto il desiderio di realizzare kosen-rufu; perché se ricevo dal sangha oggi, potrò dare a mia volta domani a un'altra persona - compagna di fede o non. È questo il significato di orientare gli sforzi "verso la felicità delle persone".
Ecco. Se riesco a far entrare l'altro nel mio spazio e a entrare io nel suo, accadono cose straordinarie. Se riesco a mettermi in piedi e a proseguire sulle mie gambe posso dar vita a modi nuovi di vivere la realtà. Creando ogni giorno la speranza per me e per le persone che incontrerò.
(A. D'O.)

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La forza che viene dal sangha

Avevo sempre immaginato che la speranza fosse l'attesa di qualcosa che arriva "da fuori". Come se si delegasse "ad altro", e non a se stessi, la concretizzazione di qualcosa. Con la mia fede buddista ho compreso e sperimentato la differenza. Prima di tutto, "trasformare" la speranza in certezza e forza cambia il mio punto di vista.
Ludwig van Beethoven disse che la speranza forgia il cuore in acciaio. Lo ha riportato Daisaku Ikeda in Words of Wisdom (Parole di saggezza), aggiungendo che la speranza è fiducia, determinazione, coraggio, e che la fede è l'ultima espressione della speranza, proprio perché fortifica il cuore.
Mi colpisce profondamente - a tale proposito - la speranza di vincere le malattie. Cito l'esperienza di una mia cara compagna di fede, colpita da un tumore devastante e incurabile, che nel momento in cui il medico, di fronte a lei, disse al suo compagno: «Salutala per sempre... ormai manca poco...», si voltò verso di lui con il ruggito del leone dichiarando con voce ferma e senza esitazione: «L'amore della mia vita deve salutarmi ora? No, professore, si sbaglia!». Tornata a casa, venti minuti di studio al giorno e maratone di Daimoku, determinata a vincere con la speranza-certezza che non fosse arrivato il momento di lasciare questa esistenza: aveva ancora molto da fare per kosen-rufu. Tale è stata la forza del suo cuore d'acciaio, sorretto giorno dopo giorno dalla speranza, che quando si è ripresentata al controllo i medici sono rimasti senza parole. Il tumore era regredito al punto di essere curabile, senza alcuna spiegazione scientifica. L'ho rivista pochi giorni fa, stava bene, impegnata a incoraggiare tantissimi. Aveva anche dato vita a un nuovo gruppo nel paesino in cui si è trasferita e dove non ne esisteva neanche uno. Sa che non deve "abbassare la guardia" ed è pronta in ogni caso a non mollare. Mai.
Mio marito è affetto dal morbo di Parkinson da circa dieci anni, lo sostengo praticando per lui e infondendogli speranza, con i compagni del gruppo, nel ripetere che può vincere. Qualche mese fa lo specialista che lo segue gli ha detto piuttosto brutalmente che se non si opera al cervello finirà sulla sedia a rotelle o peggio, dicendogli davanti a me che ha un'aspettativa di vita più o meno di vent'anni ma in condizioni sempre peggiori che potrebbero spingerlo al suicidio... Non gli ha dato nessuna speranza e non si è minimamente occupato di me, la moglie, né di come avrei potuto reagire... In un primo momento ammetto di aver pensato: «Eccolo qui, il Demone del sesto cielo davanti a noi con il camice da dottore», ma ho subito "trasformato" il mio pensiero: era il Gohonzon che si manifestava rispondendo alle mie preghiere. Ebbene ringrazio ancora perché proprio quel giorno, negli orari in cui i medici specialisti dicono che i parkinsoniani come lui "si bloccano sempre" non riuscendo a camminare, mio marito non si è bloccato un solo istante. La speranza-certezza si era fatta strada nel suo cuore "in un istante di vita" senza che neanche se ne rendesse conto... Da questa esperienza è cambiato, ha avuto la prova concreta che tutto dipende da lui, dalla speranza divenuta certezza di vincere la malattia, come insegna il Gosho, di prolungare la sua vita e in meglio. In Il prolungamento della vita Nichiren scrive: «Il settimo volume del Sutra del Loto afferma: "Questo sutra offre la buona medicina per tutti i mali della gente di Jambudvipa"» (RSND, 1, 847).
«La sofferenza - spiega Daisaku Ikeda - è il carburante della saggezza, e apre la strada alla felicità [...]. Tramite la malattia gli esseri umani possono comprendere il significato, il valore e la dignità della vita e godere di un'esistenza più soddisfacente» (Gioia nella vita, gioia nella morte, Esperia, Milano, 2009, p. 13). Manca di saggezza il medico che opera in modo freddo, limitandosi a seguire protocolli e a "trattare la malattia" (e non anche il malato): «La cura delle persone che stanno lottando per la loro salute deve iniziare dal desiderio di ascoltare il loro dolore e comprendere la loro sofferenza» (Ibidem, p. 118). Ma manca anche di saggezza, dal punto di vista buddista, la persona malata che si rimette completamente nelle mani del medico: «Non dobbiamo essere passivi nei confronti della nostra terapìa, ma assumere nei suoi confronti un ruolo attivo. In definitiva, siamo i primari e gli infermieri di noi stessi» (Ibidem, pp. 25-26).
Prima di questo "schiaffone", mio marito si sentiva una vittima non in grado di combattere, oggi è un protagonista speranzoso e fiducioso in se stesso e nella pratica, in quella mistica comprensione di essere tutti perfettamente dotati, continuando a curarsi ma con una consapevolezza diversa, pronto ad aprirsi accogliendo il sostegno attivo dei compagni di fede. E anche con la decisione di trovare il medico giusto.
Ho praticato e riflettuto sul significato della speranza alla luce di queste esperienze apparentemente "disperate": la speranza è nel mio alto stato vitale di oggi seppure in continuo movimento, è nell'alternarsi di tutti i dieci mondi in ogni istante di vita; il Daimoku mi consente di farla diventare una realtà costante "oggi": certezza.
Scrive Daisaku Ikeda: «Decidete di essere il sole. Allora non importa quali problemi si debbano affrontare, l'alba arriverà sempre, il bel tempo tornerà sempre e la primavera non mancherà mai di venire» (Words of Wisdom, op. cit.). (P. Z.)

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Quando ti dicono che non c'è speranza

Cos'è la speranza? Cosa vuol dire esattamente? Nella mia città, Roma, il famoso detto "aspetta e spera" ha due significati, uno positivo e uno negativo, dipende dall'intonazione della voce. Quanto ho sofferto e mi sono arrabbiata quando mi dicevano questa frase!
Dopo aver saputo l'argomento per lo speciale ho fatto una piccola ricerca sulla "speranza": in latino non era espressione di ottimismo, mentre in italiano, nel Dizionario di lingua italiana Battaglia, c'è tra gli altri anche il significato di avere fiducia nel raggiungimento di uno scopo prefissato. Sono rimasta colpita da quanto era scritto riguardo all'aggettivo "speranzoso": che nutre fiducia, che è ottimista nei confronti della positiva attuazione di un evento futuro, che intravede una prospettiva favorevole per un'iniziativa, per un progetto, ecco questo sì che mi ha incoraggiata...
Per come vedevo io la speranza, non è stato semplice scrollarmi di dosso "aspetta e spera"; poi è arrivato il Buddismo, dove la speranza è positiva, non ci sono doppi significati, è qualcosa di profondo, di forte, che ognuno percepisce con la propria vita.
Nam-myoho-renge-kyo mi ha dato una forza interiore positiva, ho sentito l'importanza della mia vita, io così insicura, chiusa, anche un po' pessimista ho cominciato a vedere e sentire con occhi diversi, è emersa la speranza di cui tanto avevo e ho bisogno. Il mio buio interiore ha cominciato a illuminarsi, questa piccola luce così debole diventava man mano sempre più luminosa e forte fino a diventare un sole che illuminava ogni angolo nascosto del mio bagaglio personale.
Sapevo e conoscevo tante cose, se le avessi tenute solo per me non avrebbe avuto senso, però come ritirarle fuori lavorando dieci ore al giorno? Come facevo a uscire allo scoperto? La prima cosa che ho fatto è "donare" queste cose facendo attività per l'organizzazione, traduzioni, fotografie, elaborazione delle immagini, imparando così ancora di più.
Misticamente, un giorno un professore mi venne a trovare al lavoro e mi chiese se volevo aiutarlo a far reintegrare dei rifugiati politici, senza darmi tante spiegazioni. Accettai con gioia. Erano afghani, iracheni, sudanesi, persone molto colte, un professore di Storia dell'Arte all'Università di Bagdad. Io dovevo insegnargli a usare Photoshop (un software per l'elaborazione delle immagini) e i liquidi per stampare le foto. Mi sentivo piccola piccola ma in poco tempo, grazie alla recitazione del Daimoku, costruii con loro un bellissimo legame. Tutte le paure che mi ero creata non c'erano più, quel muro era diventato un lenzuolo leggero che poteva essere spostato con un semplice gesto.
Quando l'insicurezza prende l'iniziativa dobbiamo essere capaci di prenderla a braccetto e farle notare che noi ce la facciamo, e che lei è la nostra più grande alleata. Dobbiamo essere così bravi da non farci sviare e affidarci completamente al Gohonzon, e fidarci che le cose cambieranno, che dipende da noi; perché la chiave è quanto poi sono disposta a cambiare, quanto sono disposta a credere, a credere che ce la faccio, come scrive Nichiren Daishonin nel Gosho Lettera a Horen: «È quello che succede alle giunture di una canna di bambù: se ne viene spezzata una, anche le altre si divideranno» (RSND, 1, 456).
Questa frase mi trasmette speranza in ogni ambito della mia vita, toglie spazi a quella parte pessimista che a volte torna non facendomi apprezzare quella che sono e ciò che continuo a costruire con le mie capacità. Questa forza me l'ha data e me la regala ogni giorno la recitazione del Daimoku, e allora perché farne poco?
(F. M.)

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Aspetta e spera

Da bambino la domenica mattina ogni tanto andavo con mio padre in campagna. Avevamo un piccolo agrumeto coltivato a mandarini, sulle pendici dell'Etna.
In estate si irrigava la mattina presto e la domenica era il nostro turno, ricevevamo l'acqua. C'era un sistema di irrigazione antico ma bellissimo e assolutamente efficace. Dalla sorgiva partiva verso i vari agrumeti della zona un sistema di canalizzazione in terracotta, un "mini acquedotto", con degli snodi che venivano comandati manualmente alzando e abbassando le saracinesche, sorta di mattonelle in terracotta che aprivano o interrompevano il flusso dell'acqua che correva nel canale principale. Noi alzavamo le nostre saracinesche e l'acqua nutriva gli alberi.
Era un rito che mi affascinava molto, tanto che quando quell'impianto di irrigazione fu posto in disuso io conservai una di quelle saracinesche e, anni dopo, la regalai a Valeria, mia moglie, e fa ancora bella mostra di sé in casa nostra.
Da quando pratico, ogni giorno assisto a un evento che avviene dentro di me, molto simile a quelle domeniche mattina.
Il mio Daimoku "alza la saracinesca" e nel mio essere fluisce l'acqua della speranza, nutrimento e causa fondamentale di qualunque beneficio visibile della mia pratica buddista.
Riflettendo sulle mie esperienze comincio a pensare che tutto nasca e muoia dalla speranza: "alzi la saracinesca" (reciti Daimoku) e l'impossibile diventa possibile; "abbassi la saracinesca" (trascuri la tua pratica) e il possibile, l'auspicabile, diventa impossibile, vano, inutile.
Nei miei anni di pratica buddista ho realizzato scopi che all'inizio sembravano impossibili, esagerati, velleitari. Ovviamente nessuno di questi obiettivi si è realizzato per magia, con uno schiocco di dita. Dietro, anzi davanti a ognuno di questi obiettivi realizzati c'è stato impegno, lavoro, dedizione. Spesso ho dovuto correggere il mio atteggiamento, ho dovuto imparare a guardare il mondo a trecentosessanta gradi senza mettermi al centro dell'universo, senza farmi ossessionare dai miei desideri. Per accorgermi che vivevo in un mondo pieno di vite come la mia, che come me cercavano di realizzare la propria esistenza, ognuno a modo suo, e che come me agognavano ogni giorno "l'acqua della speranza". E se non condividi l'acqua, prima o poi la tua vita stessa si inaridisce.
E io non l'ho mai persa, la speranza? Certo, l'ho persa. E poi l'ho cercata e ritrovata. E poi l'ho ripersa. E poi l'ho ritrovata.
A tutt'oggi l'ho sempre ritrovata. Basta alzare la saracinesca.
E io la alzo tutti i giorni, mattina e sera. (A. A.)

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Quando fluisce l'acqua del Daimoku

Le quantità ci ingannano e ci dequalificano. Da una parte riempiamo la nostra vita di quantità: soldi per quella cosa, lavoro per quell'altra, l'amore per una persona, l'amore di una persona.
Cerchiamo disperatamente la virtù contro l'assenza di essa.
In che modo la quantità ci inganna?
Pensiamo che avere soldi per quella cosa, lavoro per quell'altra, l'amore per una persona, l'amore di una persona siano di per sé virtù, senza accorgerci che la spinta angosciosa verso queste cose scongiura in partenza qualsiasi conquista di virtù da parte nostra.
La virtù maggiore, per il Buddismo, è la compassione, verso se stessi e verso gli altri. La compassione è la capacità di entrare in sinergia con il pathos nostro e degli altri. Che cosa è veramente nel Buddismo la compassione? Mi pare che sia qualcosa di straordinariamente avvincente, una regola per il nostro sistema di valutazione e rivalutazione delle cose.
Qualcosa che senz'altro alleggerisce il carico del nostro io e, ricordandoci che non siamo soli, ci aiuta ad aprirci al mondo. Possiamo definire la compassione come la "dischiusa" del nostro egoismo, fonte inesauribile di sofferenza. L'egoismo è la radice del sentimento illusorio di separazione dal mondo, che lascia il via libera al diffondersi dell'avidità nel nostro cuore, un sentimento reale che ci porta a credere in qualcosa di sbagliato, di non corrispondente a verità, ritenendo che la nostra felicità sia subordinata al possesso di qualcosa o all'assenza di un'altra. Due facce identiche di una stessa medaglia che sembra d'oro ma che è come cioccolata che si scioglie al sole. Non poi così gustosa.
I desideri e gli obiettivi sono spesso avviluppati in quel terribile veleno che si chiama avidità. Quell'anelito forte e ostinato, non determinato, verso qualcosa; un anelito cieco che annebbia la nostra comprensione e capacità di fare qualcosa in condivisione con gli altri e con noi stessi. È l'atteggiamento a essere velenoso, ripetiamolo. L'atteggiamento velenoso di avidità trasforma quei desideri, di per sé potenzialmente qualità della nostra vita, in quantità che costruiscono continui limiti e barriere alla nostra espressione e compassione.
L'anelito cieco verso qualcosa che ancora non c'è elimina in partenza qualsiasi possibilità di creare speranza nel nostro presente. La qualità, quella della speranza, vive infatti nel nostro presente. A questo proposito Daisaku Ikeda scrive: «Per quanto grandiose e nobili, le visioni che possono trovare realizzazione solo nel lontano futuro non hanno alcuna forza propulsiva per quell'incessante impegno spirituale necessario a coltivare possibilità e portarle a buon fine [...]. Solo quando sperimentiamo la speranza su un piano quotidiano immediato [...] possiamo riuscire a coltivare con gioia e orgoglio i semi della possibilità» (BS, 158, 14). Ikeda sembra suggerirci di non classificare il futuro come un altrove separato ma come una costola del nostro presente, una parte integrante del qui e ora sui quali costruire le fondamenta del nostro agire. In questo caso la quantità, intesa come la tendenza a considerare un tempo futuro lontano da adesso - tra un mese, una settimana, un giorno - può inquinare proprio questo qui e ora. Un'azione che dequalifica il nostro presente, togliendo appunto qualità e potenzialità a ogni momento della nostra vita.
Se paragoniamo la nostra vita a una dimora possiamo immaginarla come piena di ospiti che vanno e vengono in una "attualità mai interrotta", che solo per una nostra umana convenzione siamo soliti dividere e tener ben separati in presente e futuro. Una convenzione che pone limiti e barriere alla nostra espressione e compassione; alla nostra naturale e umana attitudine di aggregarci con il nostro vero io che non possiede quantità limitanti e che è dotato di un'energia di condivisione che ha origine dalla speranza.
La speranza nient'altro è che la nostra capacità di cogliere tutte le qualità presenti in noi stessi e negli altri, in ogni momento. Qualità che vivono dentro e fuori di noi e che possiamo ricercare attraverso la recitazione del Daimoku e nella partecipazione costante al mondo che ci circonda e che vive dentro di noi. Nichiren Daishonin è chiaro nel sottolineare che non esiste separazione tra il mondo interiore e quello esterno. Non esistono terre pure o terre impure, siamo noi a essere puri o impuri.
Dinamica passionale è la speranza, e nasce quando questo semplice eppur profondo concetto si riesce ad afferrare, fare proprio, viverlo. (S. S.)

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La speranza è un gesto creativo

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