Più di cinquant'anni fa, in una regione del Giappone centrale chiamata Kansai, alcuni membri della Soka Gakkai uniti intorno a Daisaku Ikeda fecero un'esperienza di fede e di vita senza precedenti, che è rimasta nella leggenda e che ancora oggi continua a dare i suoi frutti. In un solo mese, grazie alla loro attività sincera e appassionata, 11.111 famiglie abbracciarono il Buddismo di Nichiren Daishonin. Una grande vittoria, realizzata attraverso il profondo legame tra il maestro e i discepoli.

Se il maestro pratica come insegna il Budda, il legame con il maestro è il legame con la Legge. «Io ho avuto un maestro che praticava come il Budda ha insegnato - scrive Ikeda - ed è grazie a lui che oggi sono quello che sono. Il presidente Toda è sempre con me come maestro spirituale; anche adesso, ogni giorno, in ogni istante, nel mio cuore dialogo col mio maestro. È questo lo spirito di non dualità di maestro e discepolo. Coloro che si tengono stretti al maestro come a una bussola, e si sforzano come il maestro insegna, sono persone che vivono sulla base della Legge».

Onorare e rispettare la Legge mistica e onorare e rispettare ogni persona, basando ogni azione sullo studio del Gosho: questa è la chiave per propagare ampiamente il Buddismo. Questo ha fatto Ikeda nel Kansai.

&nbsp;

Il mio Kansai

di Maria Lucia De Luca

Ci raccontano che nel Kansai puoi essere semplicemente come sei, non c'è nessun modello a cui aderire e non c'è nessuno che ti giudica. Nel Kansai c'è sempre qualcuno che ti pensa, che ti apprezza, e recita Daimoku per te. Nella rete di Indra del Kansai, nessuno viene lasciato solo.
L'espressione "Kansai sempre vittorioso", o "mai sconfitto", non riguarda gli astratti confini geografici di una regione del centro del Giappone o una generica popolazione, ma la vita di ogni persona che vi abita. E ha a che fare con la lotta interiore contro l'oscurità fondamentale, quella che ti dice che la tua battaglia è persa in partenza. Nel Kansai c'è sempre qualcuno a ricordarti che puoi trasformare l'impossibile in possibile, che ti incoraggia a ritrovare, attraverso la preghiera, questo atteggiamento, questo spirito. Lo spirito del Kansai.
Uno spirito imparato direttamente da Sensei, dal "loro" Sensei, maestro, amico, compagno di lotta. Al suo fianco le donne e gli uomini di questa zona del Giappone hanno realizzato una grande impresa, ritenuta impossibile. Quel legame costruito allora, nel lontano 1956, quella vittoria comune, ha animato e anima ogni loro esperienza da allora fino a oggi.

Nel romanzo La rivoluzione umana, che racconta la storia della Soka Gakkai dalla sua fondazione, si legge di quando Josei Toda decide di rendere concreto il suo desiderio di realizzare un forte legame con la società, affermando che kosen-rufu non riguarda solo il far crescere la Soka Gakkai come organizzazione religiosa, ma consiste nel portare lo spirito del Buddismo di Nichiren Daishonin nelle varie sfere delle attività umane. Il secondo presidente propone quindi la candidatura di sei membri della Soka Gakkai alle elezioni nazionali del 1956 e affida al giovane Daisaku Ikeda, che all'epoca aveva ventotto anni, la campagna elettorale nel Kansai, la zona dove c'erano le minori possibilità di vincere.
Ikeda si trova di fronte a un'impresa impossibile: la sua prima e fondamentale azione è quella di recitare Daimoku, convinto che il Sutra del Loto sia come «la strategia di un generale». E cerca poi di trasmettere la sua convinzione, quella di vincere, di trasformare l'impossibile in possibile, a tutti i membri del Kansai. Non parte dal fatto che si debbano vincere le elezioni, ma incoraggia ogni persona a sperimentare il Buddismo nella sua vita e a diventare felice.
Secondo i racconti, avendo vissuto quella grande esperienza di vittoria, le persone del Kansai cercano ogni volta di ritrovare lo spirito di allora e trasmettono questo atteggiamento alle generazioni successive. L'effetto di questa costante ricerca interiore si percepisce in modo tangibile nella loro condizione vitale.
Chi torna dal Kansai descrive l'atmosfera allegra e calorosa che si respira a contatto con le persone che praticano lì, raccontando della forte relazione che ciascuno di loro ha costruito con il presidente Ikeda. Lo stesso Sensei più volte ha detto che per affrontare questa fase del movimento di kosen-rufu nel mondo è necessario far proprio lo "spirito del Kansai".
Oggi nel Kansai praticano circa due milioni di famiglie, le loro attività sono sempre caratterizzate da stretti legami interpersonali e ogni problema viene affrontato e risolto sulla base di una convinzione assoluta nel potere del Gohonzon, come a voler provare quello che lo stesso presidente Toda aveva dichiarato nel 1956: «Sono venuto a Osaka per cancellare le parole malattia e povertà».
Ma noi cosa c'entriamo?
Avendo imparato a considerare il Buddismo una religione universale che, secondo il principio di zuiho bini (il precetto dell'adattamento ai costumi locali), si esprime attraverso la cultura del luogo dove viene praticata, nelle prime discussioni su un eventuale "speciale" dedicato allo "spirito del Kansai" abbiamo incontrato tanti dubbi e difficoltà. Inizialmente ci è apparso un mito lontano, un po' esotico, appartenente a un'altra cultura.
Poi, attraverso un cammino che ciascuno di noi ha fatto studiando e cercando di percepire dentro di sé un nuovo legame con il Gohonzon, con Sensei e con la Soka Gakkai, ci siamo appassionati a questa grande impresa realizzata dai nostri compagni di fede d'oltreoceano. Abbiamo voluto raccontarvela attraverso brani della Rivoluzione umana e di altri scritti di Ikeda, proponendovi una cronaca di quei giorni che è in realtà la testimonianza - corredata da esperienze dirette - del legame umano tra Sensei e i membri del Kansai, che si è mantenuto intatto anche nei momenti più drammatici della storia del movimento di kosen-rufu.
È cominciata allora ad affiorare l'immagine di un Kansai più "universale", che può riguardarci molto da vicino. Come nelle immagini di queste pagine, dove ciascuna delle persone fotografate esprime il "suo" Kansai. O nella lunga conversazione con Asa Nakajima, alla quale abbiamo espresso i nostri dubbi e le nostre resistenze, ma anche il nostro desiderio di approfondire.
Così alla fine è nato il titolo: il mio Kansai.

&nbsp;

Così è nato

Cronaca di una vittoria

Testimonianze (1956-1957)

Testimonianze (1956-1957)

GIICHIRO SHIRAKI, ALLORA RESPONSABILE DI CAPITOLO
Una volta espressi la mia determinazione davanti al presidente Ikeda: «Non è affatto una situazione che può portare alla vittoria, ma anche se non ce la faccio questa volta, combatterò più volte fino a quando vincerò». Credevo di aver espresso il massimo della mia volontà, ma lui mi rispose severamente mettendo a nudo la mia leggerezza: «Io sto lottando a costo della vita. Non posso perdere nessuno in questa battaglia, neanche uno su diecimila!».
Ho riflettuto a lungo sulla mia leggerezza davanti alla sua determinazione indescrivibilmente profonda.

TADASHI MURATA, ALLORA VICE-RESPONSABILE DI CAPITOLO
Mi sembra che questo episodio risalga ai primi giorni del 1956. Nel Butsuma del terzo piano della Sede Centrale del Kansai i responsabili principali dell'Area di Osaka avevano fatto Gongyo col presidente Ikeda. Passarono dieci minuti di Daimoku, poi altri venti minuti... Sensei non accennava a fermarsi: mezz'ora, quaranta minuti, un'ora... Ancora non finiva. Io, con il mal di gambe, guardavo frequentemente le spalle di Sensei con un solo pensiero: «Ma quando finisce?». Mi ricordo che la recitazione durò circa due ore. All'epoca, anche i responsabili principali praticavano da tre o quattro anni. Anch'io avevo ricevuto il Gohonzon nel 1953 e quindi praticavo da tre anni.
Certamente sapevo dell'importanza di recitare Daimoku e fare Gongyo. Ma recitavo al massimo per venti minuti. Con una profonda percezione della reale atmosfera di Osaka, Sensei dimostrò con il proprio esempio ai responsabili principali come si inizia una battaglia. Nello stesso periodo un membro locale, alla guida dell'auto che trasportava Sensei, ci riferì che Sensei recitava Daimoku in macchina.
A quel tempo per la gente comune viaggiare in auto era ancora una rarità. Quella persona, pensando che Ikeda, non abituato ad andare in macchina, recitasse per non avere incidenti, gli disse: «Stia tranquillo, Sensei. Non farò incidenti». Ma lui rispose: «Sto facendo penetrare il Daimoku nella terra di Osaka». Così cominciò a sorgere un vortice di Daimoku a Osaka.
«Nam-myoho-renge-kyo è la sorgente di ogni cosa»: ancora oggi sento nel mio cuore la voce di Sensei che recita Daimoku.

HITOSHI TSUJI, ALLORA GIOVANE UOMO RESPONSABILE DI GRUPPO
Dopo aver finito una riunione della Divisione giovani uomini alla sede centrale del Kansai, andai al butsuma per recitare tre Daimoku prima di andare a casa. Ma quando entrai vidi Sensei che stava recitando Daimoku tutto solo, con grande concentrazione. Mi sentii commosso nel constatare la solennità e l'impegno della sua preghiera, nella quale era concentrato lo sforzo di innumerevoli eoni. Mentre tutti dormivano, il maestro - da solo - vegliava.

HISAYO OOWAKI, ALLORA RESPONSABILE DI GRUPPO DELLA DIVISIONE DONNE
In occasione delle visite di Sensei a casa del sig. Shiraki, facevo attività di assistenza e coordinamento per il luogo di riunione, accompagnandovi le persone che volevano ricevere guide personali. Arrivavano lì moltissimi membri. Partecipai a tanti staff d'assistenza. Alcuni anni più tardi, stavo salendo verso la tomba del primo presidente Makiguchi nel quartiere del tempio principale quando incontrai una decina di persone che stavano scendendo. Mi spostai per fare strada quando sentii una voce che mi diceva: «È un bel po' che non ti vedo...». Era Sensei. Rimasi sorpresa. Strinse la mia mano tra le sue.

NOBUYUKI YANAGIHARA, ALLORA STUDENTE
Quando incontrai Sensei per la prima volta, egli mi chiese: «Hai il libro del Gosho?» Io gli risposi: «Sì, ho quello di mio padre». Allora egli mi disse: «Il libro del Gosho è la spada della fede. Ti invito ad averne una copia tutta tua. Se mancano i soldi, bisogna comprare il Gosho anche a costo di lavorare part-time!» Così comprai il mio libro del Gosho lavorando part-time.

TADASHI MURATA, ALLORA VICE-RESPONSABILE DI CAPITOLO
Nell'epoca in cui nel Dipartimento di studio c'erano pochi membri, ebbi occasione di curare una preparazione per quelli che dovevano sostenere l'esame di Buddismo.
Il luogo della preparazione fu la sede centrale del Kansai. All'improvviso entrò Sensei e si sedette al mio fianco. Gli chiesi di sostituirmi nella lezione ma lui rifiutò: «No, signor Murata, prosegua pure. Spieghi al meglio!». Mi sentivo agitato. Con Sensei seduto in silenzio al mio fianco riuscii a malapena a portare a termine la lezione, perdendo spesso il filo del discorso, in preda a un sudore freddo e rosso in faccia per l'emozione. Alla fine Sensei mi disse: «Qualsiasi lezione, la faccia pensando che
ci sono io al suo fianco». Annuii emozionato e pieno di vergogna, sentendomi in dovere di giustificarmi.
Più tardi colsi il senso profondo di quelle parole ricordando che Sensei era solito dire «al fianco del maestro Toda...».
È vero: a fianco di Ikeda Sensei, c'è sempre Toda Sensei! Sento di aver visto allora la profondità del legame maestro-discepolo. Da quel momento ho cambiato sia il mio atteggiamento nella fede che quello nello studio.

YOSHIICHIRO AOKI, ALLORA VICE-RESPONSABILE DI SETTORE
Il 5 gennaio partecipai alla riunione dei responsabili di settore tenutasi alla sede centrale del Kansai. Rimasi profondamente colpito dalla voce di Sensei che sentivo per la prima volta: era fresca, limpida e piena di vigore. Nonostante il suo corpo fosse magro, mi colpì profondamente la forza della sua voce. Diceva che la lotta sarebbe diventata intensa. Nonostante fossi deciso a sforzarmi al massimo in questa impresa impossibile, non potevo fare a meno di sentir aumentare la mia ansia davanti alla gravità della situazione. Intuendo tale atmosfera, Sensei cominciò a ballare maestosamente dicendo: «Abbiamo ancora un po' di tempo, cantiamo la canzone di Kuroda Bushi!» Fu un ballo molto libero sia nell'accelerare che nel rallentare: il ballo di un autentico giovane guerriero in partenza per la battaglia! Poi si rivolse a noi dicendo: «Qualcuno vuole provare a ballare? Il Kansai parte per la sua prima battaglia!». Una persona si fece avanti e cominciò a ballare, ma il canto e il ballo non coincidevano affatto e le sue mosse buffe fecero scoppiare una grande risata nella sala. Poi anch'io mi avvicinai per ballare, ma nonostante fossi convinto di ballare seriamente, probabilmente le mie mosse rigide e confuse erano così buffe che tutti ridevano. Mi sentivo confuso e pieno di vergogna ma seguii l'esempio di Sensei pieno di convinzione, finché non sentii una profonda commozione nel cuore. Alla fine Sensei, concludendo con un magnifico ballo, disse: «Questa battaglia va combattuta con la danza: avanziamo in allegria!». La tensione che dominava la riunione si sciolse e si trasformò in un'allegria leggera. Anche nel mio cuore si aprì il sereno e mi sentii pieno di determinazione e di desiderio di lottare.

HITOSHI TSUJI, ALLORA RESPONSABILE DI GRUPPO DELLA DIVISIONE GIOVANI UOMINI
Una volta Sensei, nel dare una guida personale a una signora, domandò: «Qual è il motivo per cui ha cominciato a praticare? Com'è la sua situazione familiare?».
La signora gli rispose: «È la malattia del mio bambino. Nonostante i medici abbiano perso la speranza, ho sentito dire che si può guarire praticando. Così ho cominciato a praticare questo Buddismo».
Sensei la incoraggiò calorosamente dicendo con ferma convinzione: «Anche se la situazione è difficile, non devi essere mai sconfitta. Stai tranquilla, vincerai. Nel Gosho si legge: "Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito di un leone. Quale malattia può essere un ostacolo?". Ogni malattia rientra in questa "quale malattia". Non esiste un'eccezione. Però è importante il ruggito di leone che è Nam-myoho-renge-kyo. Il grido di un gatto randagio non funziona».
Tutte le persone presenti ascoltavano come se le sue parole fossero rivolte direttamente a loro.
Egli aveva la capacità di spiegare a una persona afflitta dalla sofferenza le cose con tale pazienza e chiarezza che questa era indotta a pensare: «Ah, è così! Non pensavo che questa pratica fosse così potente! Non sapevo che il potere del Gohonzon fosse così assoluto!». Siamo stati profondamente colpiti da Sensei, che parlava basandosi sul Gosho.
All'epoca, quando ci capitava di rivolgerci ai membri più anziani nella fede per avere consigli sulle nostre difficoltà, ricevevamo una risposta asciutta: «Prima fai shakubuku poi vieni a chiedere guida».
Invece, facendo attività con una gioia traboccante basata sul principio: "La fede cambia la vita!", divenne impossibile non vedere risultati.

GIICHIRO SHIRAKI, ALLORA RESPONSABILE DI CAPITOLO
Il presidente Ikeda stava facendo una passeggiata nel parco di Sanada-yama, vicino alla sede centrale del Kansai, insieme ai rappresentanti della Divisione giovani.
Sugli alberi di ciliegio stavano germogliando i boccioli. Un ragazzo disse: «Sensei, è bello veder fiorire questi ciliegi».
Sensei gli chiese: «Tu sai perché i fiori sbocciano in primavera?».
Il giovane rispose: «Sensei, è una cosa già predeterminata...».
Sensei replicò: «È vero: ciò appartiene alle leggi della natura. Ma se lo applichiamo all'organizzazione, cosa direste?».
I giovani rimasero zitti e pensierosi.
Sensei spiegò: «Con l'inverno freddo e gelido gli alberi non possono mettere le gemme, anche se vogliono. I germogli spuntano solo con l'arrivo del tepore primaverile».
«Sensei, questo è ovvio!», replicarono i giovani.
Ma lui continuò: «Anche nell'organizzazione è così. Se la figura centrale è fredda, non spuntano germogli né sbocciano fiori, non nascono persone di valore. Con persone centrali calorose e generose, i germogli spuntano, fioriscono e danno frutti».
I giovani furono convinti nel profondo del cuore.
Poi Sensei arrivò sotto un albero morto. Un giovane osservò: «Sensei, questo albero è morto!»
Egli rispose: «È un'immagine di chi ha perso lo spirito di ricerca. Questa è la condizione di chi ha perso la spinta a voler crescere. Un'organizzazione priva dello spirito di ricerca muore».

(Dalla rivista Daibiakurenge, gennaio 2003)

&nbsp;

La campagna del Kansai

Elogio della semplicità

in prima persona

in prima persona

20 giugno. Anche questa mattina mi sono svegliata facendo il conto dei giorni che sono passati dalla morte di papà: sedici. E poi... quattro settimane dal giorno in cui si è sentito male, è stato operato d'urgenza, è entrato in coma. È dura: la mente viaggia così in questo periodo di lutto, c'è un magnete sempre attivo che richiama lì, al dolore di vivere quando ci si deve separare da chi si ama.
Faccio colazione e pigramente apro il Gohonzon, recito senza esserci del tutto, la mente domina e non trovo il punto: la sofferenza della separazione, la confusione in cui mi trovo, come se la mia geografia interiore fosse priva di un punto cardinale e io non potessi orientarmi più: tutto questo sembra impossibile da trasformare.
Sì, dovrei/vorrei scrivere qualcosa per la rivista: sembrava così chiaro durante l'ultima riunione di redazione, credevo proprio di poterlo fare. Ma non c'è più tempo, non so da dove partire, non troverò mai le parole per parlare, da qui, da questo dolore, della relazione con l'organizzazione e con il maestro, proprio io che faccio tanta fatica a lasciare andare la diffidenza.
Eppure è proprio questo il punto, è questo che mi manca stamattina davanti al Gohonzon: "lo spirito del Kansai", mi manca la certezza assoluta della vittoria, della trasformazione di questa sofferenza in valore, sapere che sfidando e sfidando di nuovo la mia oscurità fondamentale ho già vinto, e ogni giorno di più sto vincendo, sui dubbi che mi tengono lontana dal significato vero, concreto e tangibile che la Soka Gakkai e il maestro hanno nella mia vita.
In queste settimane, mentre accompagnavo sostenuta dal Gohonzon e dai compagni di fede e dalle tante persone care mio papà in questo ultimo tratto di strada, l'ho toccata più volte questa realtà, e attraverso questa realtà ho potuto riconoscere nella mia vita la compassione di Shakyamuni, Nichiren, Makiguchi, Toda e Ikeda, la compassione della Legge.

26 maggio. Sono in sala di rianimazione, mio padre è in coma da quattro giorni. Posso accarezzarlo, posso parlargli, ma non so se mi sente. La vita deve parlare una lingua diversa ora. Mi domando dove sia Sensei, desidero sentirlo accanto a me. Comincio a recitare Gongyo come faccio ogni giorno da quando papà è qui, per lui; ma oggi è diverso: oggi Gongyo è come una canzone che gli dedico, Gongyo è per dirgli che lui è la Torre preziosa così com'è. E in un ichinen io so di essere un Budda e so che mio padre è un Budda e che non può esserci dubbio, siamo insieme alla Cerimonia nell'aria. La sua malattia, la sala di rianimazione, la morte: illusioni. Sento una gioia che davvero non dipende dalle circostanze date, so di condividerla con papà e che non c'è sofferenza. Le notizie disperate dei medici non la alterano. Grazie Sensei, grazie Shakyamuni, grazie Nichiren.

4 giugno. Mio papà è morto stamattina alle 8 e 20. Con mia sorella, che ancora non pratica, abbiamo recitato Gongyo vicino a lui. È stato un bel saluto, lui mi è apparso bellissimo.
Ora c'è da organizzare il funerale, io so bene cosa vorrei, ma devo confrontarmi con gli altri parenti: è assurdo, ma improvvisamente si scatena un braccio di ferro, mi sembra fondamentale averla vinta, che, scopro ora, scrivendo, è diverso da vincere. Sono arrabbiata, sono decisamente nel mondo di Collera. Mi chiama Valentina, la mia responsabile di capitolo: e mi riporta all'essenziale, mi consiglia di lasciare andare i dettagli, di essere il genitore di mio padre e accompagnarlo in questo passaggio. D'accordo, lascio andare, lascio andare senza rabbia, riesco anche a parlare del Buddismo ai miei parenti. E ora mio padre è lì dove volevo io, su una collinetta che affaccia sulla campagna. Grazie Vale, grazie Soka Gakkai.

22 giugno. Stamattina è venuta Anna a recitare con me: non ha ancora il Gohnzon, ma uno spirito da leonessa. Sostenerla è sostenermi. Il Daimoku stamattina è vigoroso, cerco "lo spirito del Kansai" nella mia vita, cerco il cuore del maestro. Grazie Anna.

(S. V.)

&nbsp;

Proprio io, con la mia diffidenza

in prima persona

in prima persona

«Potremmo fare uno speciale sullo spirito del Kansai!».
Questa la proposta a una recente riunione di redazione. A seguire reazioni di varia natura: attesa, curiosità, imbarazzo, distanza, sfida, senso di pesantezza, desiderio di approfondire.
Per quanto mi riguarda ho portato per settimane nella borsa del lavoro alcune cose da leggere sul tema e ho avuto grandi difficoltà a trovare il tempo e la concentrazione necessarie.
Vincere nella vita è un'impresa difficile che richiede un coraggio da re leone e la forte determinazione di non essere mai sconfitti. Questo è esattamente l'atteggiamento corretto che i praticanti del Kansai conoscono e applicano con grande convinzione.
In una famosa stampa giapponese dell'artista Ichiyusai Kuniyoshi, dal titolo Koso goichidai ryakuzu, si vede Nichiren che sulla prua di una barca si oppone a un'onda gigantesca con un deciso gesto delle mani, impassibile, fermo, dritto in piedi, alle sue spalle numerose persone in preda al panico.
Il segreto dello spirito del Kansai sta nel forte legame tra maestro e discepolo.
Nella piccola imbarcazione rappresentata nella stampa Nichiren è il maestro, l'esempio di una fede incrollabile che non vacilla neanche nelle situazioni più estreme, il modello di una vita caratterizzata dalla massima libertà interiore e dalla capacità di condividere con i discepoli affanni e avversità.
Ma la vittoria finale dipende soltanto da come i discepoli sapranno mettere in pratica e vivere "sulla propria pelle" l'esempio del maestro: «Tutto dipende dagli sforzi dei discepoli. Per quanto il fondatore di una scuola possa essere ammirevole, se i discepoli non ne ereditano gli ideali e non si sforzano di realizzarli concretamente è come se quegli ideali fossero morti. Dobbiamo sempre tenere a mente che sono i discepoli a determinare il vero valore del maestro» (MDG, 2, 221).
Nel concetto di shitei funi (non dualità di maestro e discepolo) sono racchiusi i due valori cardine che hanno portato la regione del Kansai a vincere nella fede: abbracciare la Legge con lo stesso cuore del maestro e condividerne il voto originale, ovvero condurre tutte le persone all'ottenimento dell'Illuminazione. Far battere il proprio cuore all'unisono con quello del maestro non significa necessariamente praticare il Buddismo da più tempo, essere più bravi nello studio o più assidui nelle attività dell'associazione, vuol dire soprattutto dedizione altruistica senza risparmiare la propria vita.
«Senza la corretta relazione maestro-discepolo non si può raggiungere la Buddità» (Nikko Shonin, in MDG, 1, 140).

(J. M. P.)

&nbsp;

"Con unica mente desiderano vedere il Budda"

in prima persona

in prima persona

C'è qualcosa che sto imparando a fare. E che sento riguarda da vicino il tema di queste nostre pagine, dunque provo a parlarne.
Nei miei quaderni di propositi, riflessioni e appunti ho cominciato ad aggiungere pagine intere su qualcosa che mi sembra fondamentale e al tempo stesso marginale. Al momento una delle pagine in questione è dedicata alle persone con cui non mi trovo granché. Ho buttato giù una sfilza di nomi, che appartengono soprattutto a compagni di fede coi quali voglio migliorare la mia relazione. In effetti, negli ultimi tempi, laddove mi accorgo di scontrarmi con una difficoltà, mi sento in obbligo di fare una sorta di check up della fede. Così comincio dal Gosho Le quattordici offese (RSND, 1, 670). In particolare dalle ultime, quelle che riguardano i rapporti coi praticanti. Quelle che riguardano l'unità. Ecco che mi ritrovo a fare i conti con la parte più vulnerabile del mio carattere e del mio quotidiano. Un po' per dovere, un po' per sincero spirito di ricerca riparto da zero. Prometto di lasciare da parte pensieri, parole e azioni che impediscono la mia rivoluzione umana. Di non cedere al risentimento e all'illusione di non avere nulla a che fare col prossimo. Inizio, o meglio, riprendo una lotta tra la mia parte illuminata e la mia oscurità.
Quest'ultima, però, ha dalla sua una grande abilità. Sa come prendermi. Sa quanto sia prepotente la mia tentazione di assecondare gli umori più viscerali. Ha sempre ragione quando insinua che «sarebbe ora che questo Gosho lo leggesse anche qualcun altro». E poi mi fa assalire dalla voglia di fare per conto mio, di lasciare che il mio percorso sia come un fiume carsico che appare in superficie e poi ritorna giù, sotto terra, al riparo. Lontano da ostilità, equivoci, noie. Lontano dagli altri. Lontano da me.
Ma per fortuna riesco ad ascoltare anche un'altra voce che, sia pure un po' flebile e balbettante, non mi abbandona. Purtroppo per lei quello che dice ha il sapore di un obbligo inutile, di frasi da manuale. Forse per questo le parole non le escono spedite. Ha paura che non voglia crederle. Ma anche lei mi conosce bene e sa che deve solo attendere. Al momento opportuno, uno degli espedienti più indovinati che usa per accalappiare la mia attenzione è di farmi ricordare alcuni episodi. Ci sono quelli belli e quelli brutti. La protagonista sono sempre io, la differenza tra i primi e i secondi sta solo nell'aver messo in pratica o meno quanto insegna il Buddismo. Questa vocina pian piano si fa forte dell'esperienza e segna una linea di demarcazione. Da una parte mette le volte in cui ho dedicato il Daimoku a cambiare la mia vita per risolvere l'incomprensione e l'incomunicabilità. Dall'altra quelle volte in cui ho invece scelto di pretendere un cambiamento dagli altri. Aperta questa breccia, la vocina non balbetta più, non usa stratagemmi per imporsi. Non ne ha più bisogno: ora finalmente riesco a ricordare quanto sia bello creare valore nelle relazioni, anche se difficili. Mi tornano in mente le parole di Toda ai membri del Kansai: «Dovete capire profondamente che l'unità deriva esclusivamente dal potere del Gohonzon [...]. La nostra unità si basa sulla fede» (D. Ikeda, La rivoluzione umana, Esperia, vol. 10, p. 34).
Per arrivare (o tornare?) a questo punto sono dovuta partire dai miei desideri terreni. La spinta è nata dalla voglia di realizzare qualcosa di prettamente personale, che all'apparenza non ha a che fare con gli altri. Eppure mi ha permesso di rivedere il mio atteggiamento più intimo. Posso decidere di lottare per la felicità di quel compagno di fede con cui non mi intendo, che non mi piace, a cui non piaccio. Perché non ho paura di perdere una parte di me. So che la mia preghiera per realizzare itai doshin mi arricchisce, non è una seccatura. Sono di nuovo in grado di scambiare l'insofferenza con la gratitudine. In primo luogo per aver avuto modo di incontrare il Buddismo attraverso le persone che me ne hanno parlato, che hanno pregato per la mia felicità anche senza che lo sapessi, che non hanno permesso che smettessi di praticare nei momenti duri e che continuano a proteggermi. Sono di nuovo consapevole che la mia rivoluzione umana nasce e cresce grazie agli altri e non nonostante loro.

(A. S.)

&nbsp;

Il mio Kansai

Contenuto riservato agli abbonati