Dalla madre del movimento per i diritti civili Rosa Parks al leader della perestrojka Michail Gorbaciov. Dall’attivista della Cintura verde in Africa Wangari Maathai al “leone” della lotta per la fine dell’apartheid Nelson Mandela, fino al premier cinese Zhou Enlai definito il “gigante dell’Asia”. Sono solo alcuni dei grandi personaggi che Daisaku Ikeda ha incontrato nel corso degli ultimi cinquant’anni e che ritrae nei testi straordinari che presentiamo nelle prossime pagine.







Attraverso gli occhi di Daisaku Ikeda ci accostiamo alla vita dei grandi leader, dove la Storia con la esse maiuscola da lontana, sfocata e astratta diventa prossima e piccola, non per diminuzione ma per una necessaria messa a fuoco. In questi ritratti il presidente Ikeda potenzia e accoglie dettagli generalmente trascurati dalla diplomazia o dall’ufficialità, particolari da cui si dipana il filo dell’umanità che ci riguarda. Lo scrittore latino Terenzio diceva: «Nulla che sia umano mi è estraneo». Ikeda mostra che tutto il sentire umano ci appartiene: corpi, volti, colori, memorie. La battuta ironica con Gorbaciov; la commozione di Rosa Parks; il motto contro lo spreco di Wangari Maathai, comune a donne di mondi lontani e che evoca ricordi domestici; il contatto delle mani di Mandela, ispessite da un lavoro duro, con la delicatezza della nipotina neonata Zaziwe (Speranza). In tutti questi racconti emerge costante l’intreccio tra la grande storia e la storia individuale, entrambe tratteggiate come le pennellate di un dipinto: vicende storiche e momenti cruciali o dolorosi della vita, peculiarità del carattere, particolari intimi e familiari. Come le parole rivelatrici di Rosa Parks: «Mia madre mi ha insegnato a rispettare me stessa. Mi diceva sempre: “Nessuna legge dice che le persone debbano soffrire”». Ogni ritratto è un’esperienza: ci si può tuffare in quelle atmosfere, percepirne i colori, i suoni, i profumi. Sembra di essere lì, all’incontro in ospedale con il premier cinese Zhou Enlai: «Mentre camminava davanti a me mi resi conto di quanto fosse magro; si reggeva in piedi solo con la forza di volontà», scrive Sensei. E poi la stanza «semplice e senza orpelli con la luce bassa per non affaticare i suoi occhi». Ikeda riesce sempre a trovare un terreno valoriale comune, e una sintonia immediata con l’interlocutore. Con Rosa Parks è un “lampo di riconoscimento”, con Zhou un «mi sembrava che ci fossimo già incontrati […]». Ovviamente c’è reciprocità. «Mi sento come se fossimo amici di lunga data», dice Gorbaciov. Li potremmo quasi definire ritratti che incarnano “archetipi” e che, in quanto tali, rendono accessibili capacità universali che abbiamo dentro di noi: Wangari Maathai “una rappresentante di tutte le madri africane”, che incarna la compassione e lo spirito amorevole; Zhou Enlai il sovrano che esprime la compassione del Budda di voler salvare tutte le persone che soffrono; Nelson Mandela il leone che materializza il rispetto universale per la dignità della vita, nella convinzione che, se «oppressi e oppressori sono derubati entrambi della loro umanità», esiste un’intrinseca bontà nelle persone e nessun destino avverso è già segnato.



Costante in tutti i ritratti è la fiducia assoluta nelle potenzialità rivoluzionarie dell’agire individuale: «Nel vasto panorama della storia – scrive Daisaku Ikeda – può sembrare che la vita di una persona sia piccola e insignificante: tuttavia, anche se sembra che gli esseri umani vengano travolti dal corso degli eventi, sono chiaramente loro a creare la storia». Grazie alla relazione umana personale costruita con Sensei ognuno di questi personaggi ci parla e ci coinvolge, e la luce delle rivoluzioni umane emerge dal cono d’ombra della grande storia per arrivarci vicina. (a cura di Giovanna Gobattoni, Thalia Skerlj, Silvia Sperandio)



I testi presentati nelle prossime pagine sono ampi estratti di articoli pubblicati sul sito daisakuikeda.org.

Il coraggio che cambia la storia

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L’automobile si muoveva nella morbida luce del mattino dirigendosi verso il Cremlino sotto un luminoso cielo azzurro. Era il 27 luglio 1990 e io avevo un appuntamento con il presidente sovietico Michail S. Gorbaciov quella mattina alle 10,30. Attraversando le mura merlate pesantemente pattugliate dalle guardie giungemmo al Presidio del Soviet supremo. […] Fummo introdotti nella sala riunioni e appena arrivati entrò Gorbaciov dalla porta di fronte. […] Le prime parole che pronunciai furono: «Sono venuto a discutere con lei». Lo stavo invitando a impegnarsi in un dibattito ampio e fruttuoso. Victor Kim, l’interprete di Gorbaciov, […] sembrò un po’ perplesso sentendo le mie parole. […] Allora l’interprete che mi accompagnava […] intervenne per chiarire meglio le sfumature della mia frase e subito tutt’intorno vi furono grandi sorrisi. Proseguii dicendo: «Facciamo volare scintille, parliamo di tutto con onestà e franchezza, per il bene dell’umanità e delle relazioni fra Giappone e Unione Sovietica». Il volto di Gorbaciov si accese e lui rispose subito a tono: «Conosco bene le sue numerose attività, ma non sapevo che fosse un uomo così passionale. Anch’io amo il dialogo diretto». Poi scoppiò in una risata di cuore. Aveva la battuta pronta, una mente rapida, ed era anche molto arguto. Il presidente sovietico proseguì: «Mi sento come se fossimo amici di lunga data, due vecchi e cari amici felici di incontrarsi per la prima volta di persona». […] Non sono né un politico né un economista, ma un privato cittadino; credo che sia proprio per questo che ho potuto dialogare in modo franco e aperto con i leader mondiali senza essere condizionato dai vincoli del protocollo politico o dei ristretti interessi economici. Dissi: «Oggi, a nome delle persone di tutto il mondo che aspettano di ascoltare il suo messaggio, e per il bene delle generazioni future, vorrei assumere il ruolo dello studente e chiederle la sua opinione su vari argomenti». Aprendo le braccia in segno di benvenuto e sfoggiando il famoso “sorriso di Gorby”, il presidente rispose: «Prima ancora di aver avuto la possibilità di darle il benvenuto come mio ospite, lei mi ha già tolto le parole di bocca!». Sporgendosi in avanti proseguì: «Lei mio studente? Niente di più lontano dalla verità. È lei che sta dando un contributo straordinario all’umanità sostenendo i valori e gli ideali dell’umanesimo. Conosco molto bene le sue idee e nutro un profondo interesse per il lato filosofico delle sue attività. Il “nuovo pensiero”, che fa parte del nostro programma della perestrojka, è come un ramo che parte dal tronco della filosofia che lei abbraccia». […]



Il significato storico della perestrojka […] Come esseri umani è della massima importanza riuscire a vivere fedeli alla voce della nostra coscienza e agire in accordo con il nostro senso di giustizia. Comprendendo le lotte che Gorbaciov deve aver intrapreso per rimanere fedele alle sue convinzioni, non potei fare a meno di dirgli: «Sono un sostenitore della perestrojka e del “nuovo pensiero” che lei cerca di promuovere. Le nostre idee hanno molto in comune. È quasi ovvio, visto che entrambi ci concentriamo sull’essere umano. La nostra umanità è il grande denominatore comune». Mentre parlavo Gorbaciov annuiva e, quando feci un commento sul suo aspetto giovanile, il suo volto dignitoso si aprì in un sorriso. «Essere chiamato giovane mi rende particolarmente felice – disse – perché un anno di perestrojka ti fa invecchiare di cinque anni». Poi aggiunse: «Presidente Ikeda, nutro la massima stima per le sue attività intellettuali e sociali; uno dei motivi è che tutte le sue iniziative hanno un elemento spirituale. In questo momento stiamo cercando di integrare gradualmente nel modo di governare gli elementi spirituali dell’etica e della morale. È un compito difficile, ma credo che il successo di questa impresa porterà risultati straordinari». Nel rigido mondo della politica del blocco orientale l’idea stessa di porre l’accento su fattori spirituali sarebbe stata impensabile un tempo. Credere nella bontà innata delle persone, avanzare con fermezza sostenendo l’ideale dell’umanesimo, porre l’accento sui valori spirituali: Gorbaciov e io condividevamo un terreno comune. «Dapprima le nuove idee sembrano assurde – disse Gorbaciov. – All’inizio i riformatori sono sempre in minoranza. Perciò è sbagliato liquidare subito idee e progetti innovativi definendoli scandalosi o esagerati». […] Sedendo eretto proseguì con vigore: «Quando proposi di costruire un mondo libero dalle armi nucleari e di risolvere i conflitti attraverso il dialogo e non con la violenza, molti risero dicendo che era un’utopia. Ma guardate ciò che sta accadendo; questi ideali adesso si stanno concretizzando».



Un’alleanza tra governo e cultura […] Durante il nostro incontro Gorbaciov andò diritto al nocciolo della questione e spiegò il processo che aveva portato alla perestrojka. Con il volto teso e un tono di voce diretto disse: «Signor Ikeda, quello che voglio dire adesso è molto importante: tutto ciò che ho realizzato finora è stato possibile grazie alle persone intelligenti e capaci che mi hanno circondato, alcune delle quali sono presenti qui oggi. È stato il risultato del legame e dell’unità con loro, il frutto di un’alleanza tra governo e cultura». Una persona può avere un lato politico e uno culturale. È l’unione di questi due aspetti, che si influenzano reciprocamente, a far emergere il potenziale innato dell’individuo, elevando così entrambi i lati a un livello superiore. Anche su questo punto eravamo completamente d’accordo. Migliorando la qualità della cultura possiamo elevare l’essere umano, elevando di conseguenza la qualità del modo di governare. Questo intendevo quando, durante l’incontro, dissi che è essenziale che i politici padroneggino la filosofia e possiedano uno spirito poetico. La nostra conversazione era così piena di passione e di entusiasmo che sembrava che il tempo si fosse fermato. Il presidente disse anche: «Il primo passo nella perestrojka fu dare la libertà a tutti. La questione adesso è come impiegare questa libertà. […] La perestrojka è giunta a uno stadio decisivo. È un momento di cambiamento non solo per l’Unione Sovietica, ma per il mondo intero». […] Questa libertà appena ritrovata portò cambiamenti ancora più radicali. Vedendo l’effetto incredibile della perestrojka rimasi colpito ancora una volta dall’immenso potere della mente umana. […]



La prima visita in Giappone di un capo di Stato sovietico C’era uno scopo che speravo di realizzare nel mio incontro con Gorbaciov: invitarlo a visitare il Giappone. […] Espressi la speranza che lui e la signora Gorbaciov venissero in primavera, quando i ciliegi sono in fiore, o in autunno per ammirare le foglie degli aceri color cremisi. […] «Verrò di certo in Giappone – rispose. […] – La mancanza di dialogo fra i nostri paesi non è normale» ed espresse il desiderio di compiere il viaggio in primavera. Si era così presa la decisione di effettuare la prima visita di un capo di Stato sovietico in Giappone. Tale notizia si diffuse rapidamente, fu data anche nel telegiornale delle 19 in Giappone, sottolineando una svolta nelle relazioni fra i due paesi. Inoltre sulla prima pagina della Pravda, il quotidiano sovietico, comparve un articolo dal titolo “Il presidente annuncia l’intenzione di visitare il Giappone”. […]



«La capacità di continuare a lottare è una questione di spirito» Gorbaciov mantenne la promessa e venne in Giappone nell’aprile del 1991, l’anno dopo il nostro incontro. […] Poi il 20 novembre 1997, in una giornata dai brillanti colori autunnali, diedi il benvenuto ai coniugi Gorbaciov presso le scuole Soka del Kansai. Raissa Gorbaciova, lei stessa insegnante, rivolse un appassionato appello agli studenti: «Sperimenterete ogni sorta di dolori nella vita, e non tutti guariranno. E nemmeno potrete sempre realizzare i vostri sogni. Ma c’è sempre qualcosa che potete attuare, un sogno che potete rendere realtà. La persona che alla fine trionfa è quella che dopo ogni caduta si rialza e continua ad andare avanti. La capacità di continuare a lottare è una questione di spirito». Purtroppo, Raissa Gorbaciova morì di leucemia acuta il 20 settembre 1999. Ma la filosofia umanistica dei Gorbaciov si è incisa profondamente nel cuore dei giovani leader che guideranno il XXI secolo. […]







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MICHAIL GORBACIOV (1931-2022) è stato il penultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, dal 1985 al 1991. Con la sua politica di trasparenza (glasnost) e di riforma (perestrojka) ha avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione del suo paese e nella fine della guerra fredda. Come presidente dell’URSS (1990-1991) ha guidato le riforme culminate con lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1990. Dal gennaio 1992 è stato presidente della Fondazione Internazionale Non-Governativa per gli Studi Socio-Economici e Politici (la Fondazione Gorbaciov) e dal marzo 1993 presidente (nonché fondatore) della Green Cross International, un’organizzazione ambientalista indipendente. Ha incontrato Daisaku Ikeda più volte (nel 1990, 1991, 1997), e il risultato dei loro dialoghi è stato pubblicato nel libro Le nostre vie si incontrano all’orizzonte (Sperling&amp;Kupfer, 2000). Di questo dialogo è stato pubblicato su Buddismo e società un Invito alla lettura dal titolo “Imparare a vedere la pace dove gli altri vedono solo conflitto”, BS, 226). Ikeda parla della sua figura e del suo operato, nonché della loro amicizia, in molti saggi e Proposte di pace, e ne scrive anche nella serie Arcobaleni di speranza (vedi “La grande impresa di avvicinare la realtà all’ideale”, BS, 195). Ne La nuova rivoluzione umana i loro incontri sono raccontati nel volume 30 da p. 325 in poi. Qualche anno fa è uscito su Netflix un interessante documentario di Werner Herzog sulla figura dell’ex presidente sovietico dal titolo Herzog incontra Gorbaciov.
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Michail Gorbaciov. Il nuovo pensiero

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Ci sono momenti in cui una sola parola cambia la storia, in cui una giornata come un’altra assume un significato duraturo, persino eterno. E ci sono lotte in cui un individuo solitario diventa un leader che trasforma il mondo. Quando Rosa Parks si rifiutò di obbedire all’ordine del conducente di autobus che le intimava di cedere il suo posto a un passeggero bianco e lei rispose con una sola parola “No”, suonò la campana del cambiamento nella storia degli afroamericani. Molti altri presero parte a quel movimento nato da anni di frustrazioni e ingiustizie, e Rosa Parks fu l’elemento catalizzatore e il perno del cambiamento. Incontrai per la prima volta Rosa Parks presso il campus della Soka University of America, il 30 gennaio 1993, e fui immediatamente colpito dalla sua personalità accogliente e materna. Questa, pensai, doveva essere la gentilezza da cui tutti erano affascinati. Stava per compiere ottant’anni e aveva sopportato tanto nella vita, eppure sulle labbra aveva sempre un calmo sorriso. Era una persona umile, ma si vedeva chiaramente che la sua convinzione era incrollabile. In un sondaggio pubblicato negli Stati Uniti nel 1993, in cui venne chiesto a storici e studiosi quale fosse la figura femminile americana più influente del XX secolo, Rosa Parks risultò al terzo posto. […]



Stanca di subire Rosa Parks è una leggenda vivente, nota a tutti come la madre del movimento per i diritti civili. […] Il primo dicembre 1955 a Montgomery, in Alabama, stava tornando a casa dopo una faticosa giornata di lavoro nel reparto sartoria di un grande magazzino. Salita sull’autobus si accorse che l’autista era lo stesso uomo sgradevole che dodici anni prima l’aveva costretta a scendere, quando era salita davanti perché la parte posteriore dell’autobus era affollata. I bianchi davanti e i neri dietro. Se non c’erano abbastanza posti per i bianchi, gli afroamericani dovevano cedere il loro sedile. A quel tempo veniva apertamente praticata ogni sorta di discriminazione mirata a far sentire gli afroamericani inferiori, in modo che stessero “al loro posto”. Quel conducente d’autobus in dodici anni non era cambiato. «Sarà meglio che non vi complichiate la vita e liberiate quei sedili». Gli altri si alzarono ma lei non si mosse. «Non vedo come alzarmi servirebbe a non complicarmi la vita» scrive Rosa Parks nella sua autobiografia. «Più noi subiamo e obbediamo, peggio ci trattate». Dietro alla determinazione di quell’unica donna che rifiutava di spostarsi c’era la storia tragica, intrisa di sangue e lacrime, di milioni di afroamericani come lei. I loro antenati erano stati portati in America sulle navi degli schiavisti, trattati come bestie, vivendo e morendo tra enormi sofferenze. Le madri venivano frustate sotto gli occhi dei figli e i genitori guardavano disperati i figli strappati loro per essere venduti. Anche dopo l’abolizione della schiavitù, gli afroamericani venivano sfruttati, linciati e uccisi impunemente. «Ho visto molte cose tristi. Molte, veramente molte – mi disse Rosa Parks. – Un giovane afroamericano fu arrestato perché accusato di aver violentato una donna bianca. Era totalmente innocente, ma lo arrestarono all’età di diciassette anni […] e alla fine, a ventun anni, lo giustiziarono». Rosa Parks si era adoperata insieme al marito Raymond e ad altri per salvare queste vittime, ma si erano trovati davanti il muro dell’oppressione razziale. Le autorità civili, la legge, i mezzi di comunicazione e in generale il popolo americano calpestavano palesemente i diritti inalienabili di quegli esseri umani loro simili, come se fosse una cosa perfettamente normale e accettabile. Rosa Parks era stanca di quelle prepotenze e, come aveva detto, più sopportava, peggio la trattavano. L’autista dell’autobus gridò: «Allora ti decidi ad alzarti?». «No». «Beh, allora dovrò farti arrestare!» esclamò. «Puoi farlo» gli rispose con calma Rosa Parks. Sul posto giunse un funzionario di polizia e, quando le chiese perché non voleva alzarsi, lei chiese a sua volta: «Perché ci mettete sempre i piedi in testa?». Dissero che la signora Parks era stanca e per questo era rimasta seduta, ma lei fu molto chiara: «L’unica cosa di cui ero stanca era cedere sempre, davanti a queste discriminazioni».



Camminare per le generazioni future L’incidente suscitò una esplosione di rabbia nella comunità afroamericana di Montgomery. Senza dubbio fu dovuto anche alla grande stima di cui godeva Rosa Parks, rispettata da tutti come una donna gioviale, amabile e intelligente. Così fu organizzato un boicottaggio degli autobus guidato dal giovane attivista per i diritti civili Martin Luther King e da altri, che da tempo nutrivano un ardente desiderio di cambiamento. Migliaia di afroamericani che prendevano regolarmente l’autobus scelsero di andare a piedi o di condividere un’auto. Anche le compagnie di taxi gestite da neri aiutarono i pendolari, riducendo le tariffe. Nelle ore di punta le strade erano piene di persone in fila che camminavano cantando, con fiera determinazione. Molti dovevano percorrere più di dieci miglia per arrivare al posto di lavoro, ma erano coscienti di camminare sulla strada della libertà, la strada della pace. La storia di una delle partecipanti, che Martin Luther King racconta nel suo libro Marcia verso la libertà, riassume lo spirito di quel boicottaggio: «Una volta il conducente di un’auto condivisa si fermò vicino a una donna anziana che si trascinava con evidente difficoltà: “Salta su nonna – disse – non c’è bisogno che cammini”. Lei gli fece segno di proseguire: “Non sto camminando per me – spiegò – ma per i miei figli e i mei nipoti”. E continuò verso casa a piedi». La punizione fu severa. Rosa Parks venne bersagliata da telefonate di minaccia e perse il lavoro. I giornali pubblicarono notizie false sul suo conto e la casa di King fu colpita da una bomba. Nel primo processo le fu negata l’opportunità di testimoniare per difendersi e fu dichiarata colpevole. Ma davanti alle minacce e alle violenze la signora Parks non pensò mai di scappare o di rifugiarsi altrove. […] La solidarietà di questo movimento nonviolento restò salda e alla fine aprì un varco nella coscienza americana e del mondo intero. Dopo un anno di ricorsi e controricorsi, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò che la segregazione razziale sugli autobus era incostituzionale. Da quel momento il movimento per i diritti civili acquisì un enorme slancio per l’uguaglianza dei diritti degli afroamericani.



Un incontro Un’idea il cui tempo è giunto non si può più fermare. Il coraggio di quell’unica donna fu come una scintilla che incendia un campo arido. In Marcia verso la libertà King descrive così il ruolo che svolse Rosa Parks: «Era ancorata a quel sedile dall’accumulo di affronti dei giorni passati e dalle grandi aspirazioni per le generazioni che non erano ancora nate. Era vittima sia delle forze della storia sia di quelle del destino. Era stata scelta dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo». Avevo sentito che prima del nostro incontro molte persone intorno a lei diffidavano dei giapponesi a causa dei commenti razzisti di alcuni dei nostri politici. Possiamo immaginare come ogni sorta di movimento cercasse di sfruttare il suo nome per la propria causa e quindi doveva stare molto attenta. Ma durante la sua visita al campus le loro preoccupazioni svanirono. Ella arrivò accolta dalle note di We Shall Overcome cantata da un coro di benvenuto. Nel momento in cui ci incontrammo sentii che fra noi ci fu un lampo di riconoscimento, perché anch’io avevo dedicato la vita a una causa. La determinazione della signora Parks, le sue lacrime e le sue speranze, risuonavano nel mio cuore. Anche lei disse che aveva sentito di aver trovato un nuovo amico. […] In quell’occasione invitai la signora Parks a visitare il Giappone e lei accettò felice; così, nel maggio del 1994, prese l’aereo e venne a Tokyo. Molte persone che la conoscevano ne furono sorprese perché prima di allora non si era mai allontanata troppo dai confini americani. Durante la visita alla Soka University pianse mentre ascoltava il coro di un gruppo di studenti. Spiegò che le ricordavano una giovane donna giapponese, sopravvissuta al bombardamento di Hiroshima, che aveva conosciuto negli Stati Uniti. «Anche a quella ragazza piacevano i cori» mi disse. Ascoltando quel canto degli studenti non riuscì a trattenere le lacrime, tale era la gentilezza e la sensibilità di quella donna che dava grande valore ai sentimenti degli altri. Raccontò che la madre l’aveva cresciuta affinché diventasse una persona forte: «Mi ha insegnato a rispettare me stessa. Mi diceva sempre: “Nessuna legge dice che le persone debbano soffrire”». Nel vasto panorama della storia, la vita di una persona può apparire piccola e insignificante: tuttavia, anche se gli esseri umani sembrano travolti dal corso degli eventi, sono chiaramente loro a creare la storia. Come dimostra la vita di Rosa Parks, il grido coraggioso anche di un solo individuo che si batte per la giustizia può accendere una fiamma nel cuore di migliaia di persone e cambiare il corso della storia umana.



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ROSA PARKS (1913-2005) è stata un’attivista statunitense del movimento per i diritti civili. Divenne famosa per aver rifiutato nel 1955 di obbedire alla regola di cedere il proprio posto su un autobus a un bianco. Il suo gesto diede il via al boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, che durò 381 giorni. La protesta, guidata da Martin Luther King, portò la Corte suprema ad abolire le discriminazioni sugli autobus. Rosa Parks è considerata la madre del movimento dei diritti civili americani. Ha incontrato Daisaku Ikeda nel 1993 presso la Soka Universiy of America, in California, e nel 1994 presso la Soka University di Tokyo. Ikeda parla della sua figura e del suo operato, nonché della loro amicizia, in molti saggi e Proposte di pace, e ne scrive anche nella serie Arcobaleni di speranza (vedi “Un rifiuto che ha cambiato la storia”, BS, 193). Su Buddismo e società ha scritto di Rosa Parks anche Paolo Raimondi, presidente del Movimento internazionale per i Diritti civili, in occasione della sua scomparsa (Omaggio a, BS, 113). Ne La nuova rivoluzione umana i loro incontri sono raccontati nel volume 30 da p. 752 in poi. Per approfondire: Rosa Parks, Jim Harkins, La mia storia. Una vita coraggiosa, Mondadori 2021.
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Rosa Parks. Una sola parola

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Con il motto mottainai Wangari Maathai sta girando il mondo per sensibilizzare all’importanza di proteggere l’ambiente naturale. Per quale motivo questa parola giapponese, che significa “Che spreco!”, ha catturato la fantasia della dottoressa Maathai? Quando vidi il suo sorriso schietto e radioso, nel nostro incontro del febbraio 2005, capii immediatamente: perché è una madre, una rappresentante di tutte le madri africane. Wangari Maathai è conosciuta anche come la madre del Movimento della Cintura Verde, un movimento popolare che ha lo scopo di piantare alberi. Negli ultimi trent’anni tante donne povere delle zone rurali si sono unite a lei e hanno piantato più di 30 milioni di alberi in tutta l’Africa. Sono donne che devono alzarsi presto la mattina e percorrere molti chilometri ogni giorno con i bambini piccoli legati sulla schiena alla ricerca di acqua e legna da ardere. Questo movimento, che mira a semplificare la loro vita e allo stesso tempo a proteggere l’ambiente naturale, è davvero un movimento di madri, per le madri e dalle madri. Perciò era prevedibile che la dottoressa Maathai, che ha guidato questo movimento per decenni, fosse colpita dalla saggezza delle madri giapponesi, esemplificata dal loro motto mottainai. Alle persone della mia generazione, che hanno vissuto la seconda guerra mondiale, la parola mottainai fa pensare a quello che facevano le nostre madri. Con le loro mani laboriose trasformavano ogni avanzo di cibo rimasto dalla cena in una deliziosa prelibatezza, per riempire lo stomaco dei bambini che stavano crescendo. Mettevano sottaceto le foglie dei ravanelli, tritavano le bucce delle verdure per farne un contorno saporito o servivano gli avanzi del pesce grigliato come spuntino pomeridiano. I bambini erano fieri di indossare i pantaloncini con le toppe sulle ginocchia cucite dalle mamme. Le madri erano maestre di una scienza della nutrizione basata sull’amore, un’economia domestica basata sul risparmio e la creatività. Lo spirito di amorevole cura che impediva qualsiasi spreco era una delle virtù più ammirevoli del Giappone di quei tempi, ed era intimamente legato ad un’etica di rispetto per la vita e considerazione per gli altri. Sono certo di non essere il solo a lamentare la perdita di questo spirito come una delle ragioni della perdita di umanità così dolorosamente evidente nel mondo attuale. Mia moglie, che ha vissuto anche lei le privazioni del tempo di guerra, ha sempre cercato di essere parsimoniosa ed economa nella gestione della casa. Non sprecava nemmeno un chicco di riso e qualsiasi avanzo della cena di certo sarebbe riapparso in un pasto successivo. Riciclare era per lei una seconda natura: ha sempre conservato cose come carte e nastri da regalo per riutilizzarli. Questi esempi di ingegno e inventiva quotidiana possono sembrare insignificanti e trascurabili, ma le madri di tutto il mondo hanno utilizzato questa saggezza casalinga e questo amore come strumenti efficaci per mandare avanti la famiglia e migliorarne la vita. Il mio maestro, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda, indossò e conservò gelosamente per tutta la vita una giacca imbottita che gli aveva cucito sua madre. Quando lasciò la sua remota città natale nel nord del Giappone per recarsi a Tokyo, all’età di diciannove anni, lei gli disse: «Non importa quanto sembri che le cose vadano male, se indossi questa giacca potrai realizzare quello che desideri». Toda non dimenticò mai, nemmeno per un istante, il profondo amore di sua madre. Ogni volta che si trovava di fronte a una seria difficoltà si risollevava con la determinazione di dimostrare gratitudine per questo amore, dicendo a se stesso: «Finché avrò questa giacca me la caverò». Anche Wangari Maathai ha ideato il Movimento della Cintura Verde spinta dalla compassione e dalla preoccupazione per il futuro dei suoi figli e della sua terra, il Kenya. Loda le nobili donne comuni che prendono parte al Movimento chiamandole “guardie forestali senza diploma”. La loro solidarietà, la loro dedizione e gli sforzi tenaci nelle proprie comunità non stanno soltanto impedendo la desertificazione dell’Africa, ma contribuiscono a sensibilizzare le persone di tutto il mondo sulle questioni ambientali. Il loro servizio all’umanità e al pianeta supera di gran lunga l’operato di qualsiasi leader nazionale e i legislatori ne dovrebbero prendere atto, tributando alla saggezza, allo spirito e alle azioni di queste persone il rispetto che meritano. Purtroppo però l’élite che guida le nazioni del mondo – i politici, i burocrati, gli accademici – tende a disprezzare questi movimenti popolari. In un discorso tenuto alla Soka University nel febbraio 2006, Wangari Maathai disse che inevitabilmente i politici cercano di approfittarsi delle persone, ed è quindi fondamentale che queste lo impediscano impegnandosi nel governo dei paesi. Ciò è proprio vero. Credo che la democrazia nel XXI secolo debba basarsi sull’apprendimento della saggezza delle madri, le rappresentanti del popolo, valorizzando appieno l’intelligenza delle donne. Mia madre è anche il punto di partenza delle mie attività per la pace. Rimase forte e coraggiosa anche dopo che quattro dei suoi figli le vennero strappati, uno dopo l’altro, per combattere nella seconda guerra mondiale. Ma quando, dopo la guerra, ricevette la notizia che il figlio maggiore era stato ucciso in battaglia, le si spezzò il cuore. Non dimenticherò mai, finché vivo, il suo dolore e la sua disperazione. Il dolore di una madre di buon cuore è il dolore di milioni di madri. La guerra, che sottomette le madri del mondo, le costringe alla fame e a subire lutti così devastanti, non deve mai essere permessa, in nessuna circostanza. La guerra è l’opera dei demoni. Una società è veramente felice quando una simile sofferenza da parte delle madri è stata interamente eliminata.



I giovani sono la speranza Durante la guerra molti alberi del quartiere di Tokyo in cui sono nato e cresciuto furono distrutti dai bombardamenti aerei e i pochi risparmiati furono tagliati per fornire carburante a scopi militari. Anche il grande ciliegio nel nostro cortile fu vittima della crudeltà dell’ascia e sul luogo in cui sorgeva fu costruita una fabbrica di armi. Stranamente in una parte del mio quartiere, in mezzo a un paesaggio desolato, diversi ciliegi rimasero in piedi. Dopo la guerra misero le gemme e fiorirono a profusione, come per incoraggiare chi passava sotto i loro rami. Ricordo l’espressione di conforto di mia madre quando alzava lo sguardo su quei fiori. In quel momento decisi: avrei piantato ciliegi in tutto il Giappone. Ho tenuto fede a quel sogno giovanile piantando alberi commemorativi nel suolo fertile di tanti paesi del mondo, pregando per la crescita e lo sviluppo di ogni nazione e per la buona salute dei miei amici che ci vivono. Piantare un albero è piantare la vita; significa far crescere il futuro, far crescere la pace. Questa era la profonda convinzione che Wangari Maathai e io condividevamo quando ci incontrammo e dialogammo insieme. Chiesi a un gruppo di giovani di unirsi a me nel dare il benvenuto alla madre dell’ambientalismo africano, proprio come avevamo accolto il presidente sudafricano Nelson Mandela, il padre dei diritti umani in Africa (nell’ottobre 1990). Volevo comunicare e trasmettere alle generazioni future il pensiero e le azioni di questi due leader africani. Desideravo che i giovani incidessero nel profondo del cuore le preghiere di quelle tante madri africane senza nome. Wangari Maathai ha detto: «Per quanto possa sembrare disperata una situazione, la luce della speranza può sempre brillare». Che forza, che ottimismo! La speranza a cui si riferiva è, senza dubbio, incarnata dai giovani.



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WANGARI MAATHAI (1940-2011) è stata un’ambientalista e attivista keniota. Prima donna centroafricana laureata, nel 1966 in Biologia, ha fondato nel 1977 il Movimento della Cintura Verde, portando avanti una forte campagna di sensibilizzazione verso i problemi della natura e del disboscamento. Grazie al suo impegno sono stati piantati oltre 51 milioni di alberi in Kenya per combattere l’erosione del terreno. È stata membro del Parlamento keniota e Assistente Ministro per l’ambiente e le risorse naturali. Nel 2004 è stata la prima donna africana a ricevere il premio Nobel per la pace per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace». Ha incontrato Daisaku Ikeda nel 2005 e ha tenuto una conferenza alla Soka University di Tokyo l’anno successivo. Ikeda cita il suo operato in quasi tutte le sue Proposte di pace e nella Proposta per l’ambiente (BS, 154). Ne scrive anche nella serie Arcobaleni di speranza (vedi “Piantando alberi ha cambiato il mondo”, BS, 189). Su Buddismo e società le è stato dedicato anche un omaggio in occasione della sua scomparsa (“La donna che piantava alberi”, BS, 150). Per conoscere meglio la sua straordinaria figura suggeriamo il podcast “Climateers: Wangari Maathai, ambientalista per la pace” disponibile <a href="https://open.spotify.com/episode/59TaiJiZuNRteCeP8cAPqF">qui</a>
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Wangari Maathai. Una venerazione per la vita

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Quando lo incontrai a Tokyo, in un pomeriggio del luglio del 1995, sprizzava convinzione e fiducia. Ci vedevamo per la seconda volta, a poco più di un anno dalla sua elezione a presidente del Sudafrica. Nelson Mandela, il “pericoloso criminale” incarcerato 27 anni per alto tradimento, era uscito di prigione e diventato presidente del suo paese. Finalmente la giustizia, messa da parte per così tanti decenni, cominciava a regnare di nuovo. Come egli stesso ebbe a dire: «Le prigioni del Sudafrica miravano a tagliarci le gambe affinché non avessimo mai più la forza e il coraggio di perseguire i nostri ideali».



L’Università Mandela In carcere i prigionieri venivano svegliati prima dell’alba per iniziare una lunga giornata di lavori forzati. Per tredici anni Mandela rimase in catene in una cava di calcare, costretto a estrarre calce dalle pareti rocciose sotto il sole cocente. Ma anche in quelle condizioni infernali riuscì a studiare, incoraggiando gli altri prigionieri a condividere le proprie conoscenze e a discutere delle loro idee. Le lezioni si svolgevano in segretezza e la prigione giunse a essere chiamata “Università Mandela”. Si impegnava costantemente a trasformare visioni distorte e a creare alleanze tra chi lo circondava e alla fine, con il suo spirito indomito, si conquistò il rispetto persino delle guardie carcerarie. Il suo più grande tormento era di non poter aiutare i suoi familiari e proteggerli dalle persecuzioni delle autorità. La sua casa fu attaccata e bruciata, sua moglie molestata ripetutamente, arrestata e interrogata. Mandela era in prigione quando apprese che sua madre era stata stroncata da un infarto e si addolorò immensamente al pensiero che fosse morta ancora preoccupata per la sua incolumità, come era stato in quei lunghi anni di lotta per la libertà e la dignità. Poco dopo gli fu comunicato che suo figlio maggiore era stato ucciso in un “incidente” d’auto molto sospetto.



Una riunione di famiglia con “Speranza” Eppure, nonostante tutto, Mandela si rifiutò di perdere la speranza. Nel 1978, dopo sedici anni di prigionia, gli fu concesso di incontrare la figlia Zeni, che portò con sé la sua bambina appena nata. L’ultima volta che aveva potuto abbracciare sua figlia, lei era piccola come la neonata che l’accompagnava quel giorno. Durante la visita tenne la nipotina tra le braccia e in seguito scrisse: «Tenere una neonata così morbida e vulnerabile tra le mie mani ruvide, che per troppo tempo avevano impugnato solo pale e picconi, mi diede una gioia profonda. Non penso che ci sia stato mai uomo più felice di tenere in braccio un bambino di quanto lo fossi io quel giorno». Zeni gli chiese di dare un nome alla bambina. Guardando la nipote egli pensò al futuro e a quando, una volta cresciuta, l’apartheid sarebbe stato un lontano ricordo. Pensò a lei e agli altri della sua generazione camminare fieri e senza paura sotto il sole della libertà, immaginando un paese in cui tutte le persone avrebbero vissuto in uguaglianza e armonia. E con questi pensieri che gli turbinavano nella mente chiamò la piccola bambina Zaziwe, che significa “speranza”.



Umanità invisibile Quando il presidente Mandela e io ci incontrammo per la prima volta, nel 1990, suggerii di organizzare una serie di iniziative per informare il pubblico giapponese della realtà dell’apartheid e per promuovere l’istruzione in Sudafrica. Lui accettò le mie proposte con sincera gioia. Il suo segretario, Ismail Meer, disse che quella offerta di scambi culturali rappresentava un riconoscimento molto apprezzato degli africani in quanto esseri umani, che era loro negato in Sudafrica dove venivano classificati semplicemente come “neri”. La tendenza a etichettare le persone non è prerogativa esclusiva del Sudafrica. Ovunque, gli atteggiamenti basati sul pregiudizio sono alla base delle violazioni dei diritti umani. Suddividendo le persone in categorie smettiamo di riconoscerle come individui, come esseri umani nostri simili; non siamo più in grado di metterci nei loro panni. Sono lì davanti a noi, ma non li vediamo.



Dividere il continente La riluttanza a riconoscere l’umanità dei popoli africani è letteralmente iscritta sulla mappa dell’Africa moderna; i suoi confini arbitrari e divisivi sono stati decisi dalle potenze coloniali. L’Africa non è un “continente nero”, l’oscurità è stata portata dall’esterno. Né l’Africa è un continente povero; è stata impoverita da uno sfruttamento rapace. Durante la guerra fredda l’Africa divenne il palcoscenico delle guerre per procura dei blocchi orientale e occidentale, arricchendo così i trafficanti d’armi delle grandi potenze. E cosa aveva da dire il resto del mondo al popolo africano che aveva sopportato tutto questo? Chiamava l’Africa un “fallimento”, con indescrivibile arroganza!



Uguaglianza per tutti “La lotta è la mia vita”. Fedele a questa convinzione, nel 1962 Mandela trasformò persino l’aula del tribunale in cui veniva processato in un campo di battaglia di ideali articolati con coraggio ed eloquenti appelli per la giustizia. In piedi davanti al giudice chiese che il diritto di voto fosse esteso a tutti gli africani e dichiarò: «Non mi considero né legalmente né moralmente obbligato a obbedire a leggi emanate da un parlamento nel quale io non ho rappresentanza». Dall’interno della sua cella continuò a ispirare i sudafricani. Pur non potendo comunicare con loro, la sua stessa esistenza era fonte di speranza. Il mondo espresse la sua riprovazione per l’apartheid e sostenne coloro che vi si opponevano attraverso sanzioni economiche e boicottaggi culturali e sportivi. Sentendo tali pressioni il governo sudafricano in numerose occasioni si offrì di scarcerare anticipatamente Mandela. Ma egli rifiutò sempre queste offerte, che avrebbero compromesso l’integrità del movimento antiapartheid. Si rifiutò di prendere in considerazione la sua libertà prima che l’intero paese l’avesse conquistata. Ai suoi occhi, l’intero Sudafrica era una prigione.



La nazione arcobaleno Finalmente arrivò il giorno della liberazione. Era l’11 febbraio 1990 e Mandela tenne un discorso in un comizio a Città del Capo: «Sono qui davanti a voi non come un profeta ma come un vostro umile servo, un servo del popolo. I vostri eroici e instancabili sacrifici mi hanno permesso di essere qui oggi. Pertanto metto gli anni che mi restano da vivere nelle vostre mani». Mandela sognava una terra che non fosse governata dai neri o dai bianchi, ma una “nazione arcobaleno” in cui tutte le persone potessero essere trattate allo stesso modo. «È un ideale per il quale spero di vivere e che intendo realizzare – disse a tale proposito – ma per il quale sono pronto a morire, se sarà necessario».



Loro sono con me Le prime elezioni libere del Sudafrica, aperte a tutti i cittadini, si svolsero nell’aprile del 1994. Mentre Mandela si dirigeva verso il seggio elettorale gli apparvero nella mente i volti di coloro che erano morti nel viaggio che aveva condotto a quel momento, uomini, donne e bambini che avevano dato la vita affinché lui e tutti i sudafricani potessero trovarsi dov’erano quel giorno. Le filosofie più profonde nascono da coloro che hanno sopportato l’oppressione più dura. «Fu durante quei lunghi e solitari anni – disse Mandela – che la fame di libertà per il mio popolo si trasformò in fame di libertà per tutti, bianchi e neri. Sapevo fin troppo bene che gli oppressori devono essere liberati proprio come gli oppressi. Un uomo che toglie la libertà a un altro uomo è prigioniero dell’odio; è rinchiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. […] Oppressi e oppressori sono derubati entrambi della loro umanità». Nessuno può insegnarci il significato più profondo della libertà meglio di quest’uomo, che trascorse metà della sua vita adulta in carcere. L’essenza della libertà risiede in una convinzione incrollabile. Solo le persone che vivono fedeli alle proprie convinzioni, la cui fede interiore permette loro di elevarsi al di sopra delle proprie catene in qualsiasi situazione, sono veramente libere. Come disse il presidente Mandela: «Esseri liberi non significa semplicemente liberarsi delle proprie catene, ma vivere in una maniera che rispetti e valorizzi la libertà degli altri». La sua lotta per porre fine all’apartheid è in realtà una lotta per la vera essenza della dignità umana. Credo che Mandela si sia lanciato in questa impresa come rappresentante dell’intera umanità.







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NELSON MANDELA (1918-2013) è stato un politico e attivista sudafricano, uomo simbolo dell’uguaglianza e dell’antirazzismo. Rivoluzionario e successivamente promotore di una politica di riconciliazione e pacificazione, fu a lungo uno dei leader del movimento anti-apartheid ed ebbe un ruolo determinante nella caduta di tale regime, pur passando in carcere gran parte degli anni (27) dell’attivismo anti-segregazionista. Mandela fu il primo non bianco a ricoprire la carica di presidente del Sudafrica, dal 1994 al 1999, e insieme al predecessore Frederik de Klerk, anche lui antagonista dell’apartheid, fu insignito del premio Nobel per la pace nel 1993. Ha incontrato Daisaku Ikeda nel 1994 e nel 1995. Ikeda parla della sua figura e del suo operato, nonché della loro amicizia, in molti saggi e Proposte di pace (vedi in particolare quella del 2018 su BS, 188) e ne scrive anche nella serie Arcobaleni di speranza (vedi “Il trionfo della speranza”, BS, 179). Su Buddismo e società gli è stato dedicato anche l’articolo “La stella di Madiba”, pubblicato in occasione della sua scomparsa (BS, 163). Ne La nuova rivoluzione umana i loro incontri sono raccontati nel volume 30 da p. 656 in poi. Per approfondire suggeriamo il film Mandela: Long way to Freedom, di Justin Chadwick, tratto dal libro omonimo, Lungo cammino verso la libertà: autobiografia, Feltrinelli, Milano, 1995.
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Nelson Mandela. Sotto il sole della libertà

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