Anche quest'anno, in occasione dell'anniversario della fondazione della Soka Gakkai Internazionale, il 26 gennaio Daisaku Ikeda ha presentato all'Assemblea generale delle Nazioni Unite la sua Proposta di pace.
Il testo contiene analisi lucide e profonde dei problemi globali che affliggono l'umanità e alcune proposte coraggiose e lungimiranti per mettere il punto di vista del Buddismo al servizio delle questioni mondiali.
Il processo di globalizzazione sembra procedere in modo inarrestabile, ma ciò non si può considerare un progresso verso un ordine globale. La situazione presente potrebbe anzi essere meglio definita come un "disordine globale", di fronte al quale la reazione più diffusa è una tendenza al fondamentalismo che riguarda la religione, l'identità nazionale o etnica, le ideologie politiche e persino le forze di mercato. Atteggiamento comune a tutte queste forme è che si dà priorità ai princìpi astratti a scapito degli esseri umani, che anzi diventano schiavi delle idee.
L'umanesimo radicato nel Buddismo rappresenta una battaglia spirituale per riaffermare l'umanità e contrastare questa deriva fondamentalista, nella convinzione che gli esseri umani debbano essere protagonisti della creazione della storia in tutti i suoi aspetti, compreso quello religioso.
La chiave per condurre una lotta spirituale di successo in nome degli ideali dell'umanesimo sta nel dialogo, che richiede di saper padroneggiare e far emergere le più alte virtù umane: bontà, forza e saggezza. Le religioni devono essere lo strumento per liberare queste qualità.
Nel ventunesimo secolo, in quanto abitanti della terra dovremmo essere capaci di affiancare alla visione spaziale che travalica i confini nazionali una prospettiva temporale che spinga tutti verso una maggiore responsabilità nei confronti delle generazioni future. Per questo motivo l'impegno individuale di ciascuno si dovrebbe concentrare su tre aspetti basilari: la salvaguardia dell'ambiente, la protezione della dignità umana, la mobilitazione per un disarmo atomico totale con la definitiva dichiarazione di illegalità di tutti gli ordigni nucleari.
PROPOSTA DI PACE 2008
È iniziato un nuovo secolo ma non si sono ancora delineati i contorni di un nuovo assetto mondiale. Nonostante le difficoltà non bisogna abbandonare la ricerca di un ordine globale che curi gli interessi dell’umanità e si occupi del benessere delle persone
In occasione del trentatreesimo anniversario della fondazione della Soka Gakkai Internazionale (Sgi) vorrei condividere alcune mie riflessioni e avanzare delle proposte per contribuire alla realizzazione di una pace mondiale duratura.
Sono passati quasi vent’anni dalla fine della guerra fredda che ha tenuto in scacco la comunità internazionale per quasi mezzo secolo. È iniziato un nuovo secolo, ma non si sono ancora delineati i contorni di un nuovo assetto mondiale.
Nell’ottobre del 1990 fu pubblicato il mio dialogo con Linus Pauling (1901-94), insignito per due volte del premio Nobel. All’inizio del nostro dialogo Pauling descrisse uno scenario incoraggiante: «Sono davvero entusiasta per le prospettive che si sono aperte per il nostro mondo. Mi sento pieno di coraggio. L’Unione Sovietica ha cominciato a muoversi. Sotto la guida del presidente Michail Gorbaciov la corrente globale si sta dirigendo verso il disarmo. […] Per la prima volta l’umanità sta percorrendo la strada della razionalità e della ragione. Finalmente abbiamo cominciato a incamminarci verso un mondo con queste caratteristiche».1
Pauling aveva allora quasi novant’anni e le sue parole riportano alla mente il viso caloroso e gentile di questo grande campione della pace. Purtroppo le sue speranze furono tradite dagli avvenimenti storici successivi. Nei primi anni novanta si era andata affermando l’idea di un nuovo ordine mondiale retto dagli Stati Uniti, la nazione che per prima stava affrontando un processo inevitabile di globalizzazione. Ma con il rapido insorgere di tensioni e conflitti, le prospettive di questo nuovo ordine mondiale tramontarono e oggi la situazione è caratterizzata piuttosto da un disordine globale.
Tuttavia non ci possiamo permettere di tornare al passato. Nonostante le difficoltà è essenziale non abbandonare la ricerca di un nuovo ordine globale che curi gli interessi dell’umanità e si occupi del benessere delle persone. Solo con questo tipo di impegno è possibile evitare che la società sprofondi sempre più nel caos.
In questa direzione sono state avviate importanti iniziative. Il 15 e 16 gennaio di quest’anno si è svolto a Madrid, in Spagna, il primo Forum dell’Alleanza delle civiltà a cui hanno partecipato oltre settantacinque stati membri delle Nazioni Unite e varie organizzazioni internazionali, accomunate dalla convinzione che il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale richieda il superamento delle animosità fra le culture. Nel suo intervento il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha esortato i partecipanti a proseguire nei loro sforzi per la pace: «Sebbene abbiate retroterra culturali e obiettivi differenti, desidero che concordiate sul fatto che l’Alleanza delle civiltà è uno strumento importante per contrastare l’estremismo e sanare le divisioni che minacciano il mondo».2
In una conferenza stampa all’inizio di quest’anno, il presidente francese Nicolas Sarkozy si è fatto promotore di una “politica di civiltà” (politique de civilisation) fondata principalmente sull’umanità e sulla solidarietà. Ha affermato che «non si può organizzare il mondo del ventunesimo secolo con le strutture del secolo scorso»3 e ha lanciato la proposta di aprire l’attuale summit dei G8 a nuovi paesi come la Cina, l’India, il Sudafrica, il Messico e il Brasile, creando così un nuovo sistema dei G13.
Da qualche tempo insisto sulla necessità di un ampliamento dell’attuale sistema del summit dei G8 e di un coinvolgimento di stati come Cina e India e di altri paesi, allo scopo di formare un “summit di paesi responsabili” come passo verso una più ampia condivisione delle responsabilità a livello globale. Desidero offrire il mio pieno appoggio a questa proposta.
LA DERIVA VERSO IL FONDAMENTALISMO
Fanatismo religioso, etnocentrismo, razzismo, adesione dogmatica a qualche ideologia si stanno diffondendo sempre più, a scapito degli esseri umani che ne diventano schiavi. Compito dell’umanesimo è restituire alle persone il loro ruolo di protagoniste centrali
Dopo la fine della guerra fredda sono state fatte alcune azioni per costruire un “nuovo ordine mondiale” in nome della democrazia e della libertà. Anche se la democrazia e la libertà sono valori fondamentali, occorre riconoscere il pericolo insito in ogni tentativo di trapiantare forme istituzionali e pratiche specifiche in contesti caratterizzati da una cultura politica differente. Anche quando la libertà e la democrazia sono salde, se non ci si sforza di conservarle e rafforzarle, esse regrediranno fino al punto di diventare forme vuote.
Queste considerazioni furono al centro della Proposta di pace da me presentata nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino avvenuta nel novembre dell’anno prima. Allora basai la mia analisi sulla lettura della Repubblica di Platone, il quale affermava che, sostenendo un’insaziabile ricerca della libertà, la democrazia alimenta una moltitudine di desideri che gradualmente e insidiosamente «conquistano la cittadella dell’anima dei giovani».4 Alla fine la situazione sfugge al controllo e si cerca un leader forte che ristabilisca l’ordine: tra i “fuchi (maschi delle api) indolenti” viene scelta un’unica creatura dotata di pungiglione. Così Platone descriveva la logica e la facilità con cui la democrazia regredisce verso la tirannia.
Le mie preoccupazioni di allora non si sono dimostrate prive di fondamento. La corsa sfrenata della globalizzazione finanziaria ha prodotto un mondo governato da disparità di dimensioni inaudite, con il culto spudorato della ricchezza materiale da una parte e il senso di frustrazione causato dall’assenza di una giustizia economica dall’altra. Questa disuguaglianza strutturale è uno dei fattori chiave – forse è il fattore chiave – alla radice di tutte le forme di terrorismo che stanno proliferando ovunque nel mondo. La storia insegna che ogni tentativo di eliminare il terrorismo e le forme criminali affini soltanto attraverso l’impiego unilaterale della forza, senza un’analisi accurata dei fattori strutturali che li determinano per poi fornire risposte adeguate, non farà che peggiorare le cose. L’ordine che poggia sull’impiego della forza è il vicino più prossimo del caos.
Come buddista sono molto preoccupato per il tipo di mentalità che sta prendendo piede nell’attuale quadro della nostra società: mi riferisco al fenomeno che potremmo definire come deriva verso il fondamentalismo. Questo fenomeno non riguarda soltanto il fondamentalismo religioso, di cui si è tanto dibattuto, ma include l’etnocentrismo, lo sciovinismo, il razzismo e l’adesione dogmatica alle ideologie, comprese quelle del mercato. Queste forme di fondamentalismo si sviluppano in situazioni di caos e disordine e ciò che le accomuna è la tendenza a dare priorità ai princìpi astratti a scapito degli esseri umani, i quali finiscono per diventare schiavi di questi princìpi.
In questa sede non è mia intenzione tentare un’analisi approfondita, ma ritengo che Albert Einstein (1879-1955) abbia colto il nocciolo della questione quando afferma che «i princìpi sono fatti per le persone e non il contrario».5
Sostenere e mettere in pratica con coerenza la visione del mondo evocata da Einstein non è semplice. Le persone tendono facilmente a fare ricorso a regole prestabilite che offrono loro risposte già confezionate a interrogativi e dubbi. Per usare una metafora di Simone Weil (1909-43), le persone e la società sono trascinate senza sosta verso il basso dalla forza di gravità (la pesanteur), una forza apparentemente intrinseca negli esseri umani che li porta a degradarsi. La natura fondamentale di questa forza consiste nel provocare lo smarrimento del senso di sé, che dovrebbe invece costituire il nucleo della nostra umanità.
Sono convinto che il nostro tempo abbia bisogno di un umanesimo capace di affrontare e bloccare questa deriva fondamentalista. Il compito dell’umanesimo è quello di restituire alla gente e all’umanità il loro ruolo di protagonisti centrali; in definitiva si può compiere questa impresa soltanto attraverso un costante impegno spirituale che consiste nell’allenare e temprare se stessi.
L’UMANESIMO DI ANDRÉ GIDE
«Ci sono cose che sono più importanti di me stesso, perfino più importanti dell’Unione Sovietica: l’umanità, il suo destino e la sua cultura»
A questo punto vorrei citare un episodio molto noto che a mio avviso descrive efficacemente il confronto fra fondamentalismo e umanesimo. Mi riferisco all’evoluzione del pensiero del grande umanista francese André Gide (1869-1951) riguardo all’esperimento socialista in Unione Sovietica.
Nel giugno del 1936, appresa la notizia che l’amico e ammirato scrittore Maxim Gorky (1868-1936) versava in gravi condizioni di salute, Gide si precipitò a Mosca riuscendo ad arrivare il giorno prima della sua morte. Dopo aver pronunciato un discorso al funerale e aver presenziato alle cerimonie commemorative previste, Gide viaggiò per un mese attraverso l’Unione Sovietica realizzando così un sogno che accarezzava da lungo tempo. Le memorie di quel viaggio furono pubblicate nel novembre di quello stesso anno in un volume dal titolo Ritorno dall’Urss. Il libro innescò un acceso dibattito pubblico di proporzioni storiche, creando scompiglio negli ambienti intellettuali non solo in Francia, nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti, ma anche in Giappone.
Pur riconoscendo pienamente la portata storica della rivoluzione russa e dei successivi sviluppi dell’Unione Sovietica, Gide analizzava – con un approccio che oggi ci appare estremamente prudente – le patologie del comunismo sovietico che allora stavano cominciando ad affiorare. Gran parte delle osservazioni di Gide erano appropriate, come poi è stato dimostrato dal crollo dell’Unione Sovietica.
Allora eravamo nei “rossi” anni trenta, quando la lotta contro il fascismo durante la guerra civile spagnola aveva richiamato giovani e intellettuali nelle file della sinistra. Molti di loro guardavano all’Unione Sovietica come il baricentro delle loro speranze. La critica di Gide, proprio perché proveniva da un rappresentante riconosciuto della sinistra, suscitò forti reazioni negli ambienti accademici, giornalistici e politici.
L’opinione pubblica era divisa, ma la maggior parte si schierò contro di lui. Considerato da molti come un traditore, Gide rimase isolato e privo di sostegno. Tuttavia non arretrò dalle sue posizioni, deciso a rimanere fedele alle proprie convinzioni.
«Ai miei occhi – scrisse – ci sono cose che sono più importanti di me stesso, perfino più importanti dell’Unione Sovietica: l’umanità, il suo destino e la sua cultura».6
Considero questa affermazione come una dichiarazione di umanesimo chiara ed essenziale, addirittura storica. Oggi si parla di “umanità” in modo stereotipato e la parola ha perso forza e risonanza, ma per Gide era ricca di sfumature e significati penetranti e raffinati: essa rappresenta il fondamento irrinunciabile della giustizia e la base universalmente valida dell’azione.
«Ci sono cose più importanti di me stesso». La parole di Gide puntano alla cultura dell’umanità – una cultura che incarna valori universali, lo spirito di rispettare se stessi e gli altri, la differenza e la varietà, la libertà, la giustizia, la tolleranza – in nome della quale egli era preparato a dare tutto, persino la sua stessa vita. La profondità e l’intensità delle sue convinzioni lo sostennero nella lotta solitaria contro le correnti impetuose del suo tempo.
La vastità dell’umanesimo di Gide mi richiama alla mente l’insegnamento buddista secondo cui il principio ultimo e la natura essenziale di tutti i fenomeni si trova soltanto nel cuore umano. Questa “natura di Budda” universale – che talvolta è simboleggiata dall’immagine del Budda seduto su un trono a forma di fiore di loto – non è altro che l’aspetto puro, incontaminato e indistruttibile del cuore umano. La determinazione di rispettare tutte le persone, che rappresenta il caposaldo dell’umanesimo buddista, ci porta a comprendere che le differenze settarie, incluse le differenze ideologiche, culturali ed etniche, non sono mai assolute. Queste differenze, così come l’ordine e l’organizzazione della stessa società umana, sono relative; dovremmo considerare le differenze come concetti flessibili e fluidi che necessitano di essere costantemente rinegoziati per divenire più funzionali ai bisogni degli esseri umani. Questo è il significato della frase: le persone – e non i princìpi astratti – sono i protagonisti del destino.
Anche nelle scritture buddiste troviamo la seguente affermazione: «Pertanto il magazzino degli ottantaquattromila insegnamenti rappresenta il diario della nostra vita. La nostra mente contiene il magazzino degli ottantaquattromila insegnamenti. Supporre che il Budda, la Legge o la Pura terra esistano al di fuori della nostra vita e cercarli all’esterno è un’illusione. Quando la mente incontra cause buone o cattive, essa crea e manifesta gli aspetti del bene e del male».7
“Gli ottantaquattromila insegnamenti” è un’espressione utilizzata per indicare l’intero corpo degli insegnamenti del Budda Shakyamuni, ma al tempo stesso può essere usata per rappresentare l’insieme che comprende la totalità di queste distinzioni e differenze. Riconoscendo che tale realtà esiste nella vita di ogni singolo essere umano, dobbiamo impegnarci a raggiungere un livello spirituale che non sia condizionato da una coscienza discriminatoria, ma che piuttosto si nutra della consapevolezza della pari dignità di tutti gli esseri umani. Questo deve essere il nostro punto di partenza e il nostro punto di arrivo. Tale impostazione contrasta nettamente con le ideologie fondamentaliste, perché la caratteristica di queste ultime è quella di enfatizzare oltremodo l’attaccamento alla differenza.
UNA SFIDA A CUI DOBBIAMO RISPONDERE
Umanizzare la religione e superare i suoi aspetti oscuri e distruttivi: ecco la sfida che dobbiamo vincere se vogliamo che la società umana progredisca
Oltre mezzo secolo fa il critico letterario giapponese Kazuo Watanabe (1901-75), che dedicò la sua vita alla ricerca e alla traduzione delle opere delle filosofia umanistica francese, partendo dall’analisi degli attacchi di fanatismo che avevano contrassegnato la seconda guerra mondiale arrivò alla richiesta di una “umanizzazione della religione”: «Un nuovo Lutero, un nuovo Calvino devono intraprendere una seconda riforma religiosa. Per quanto possa sembrare un’affermazione singolare, l’unica via per giungere a ciò è quella di umanizzare la religione. Con ciò intendo dire che è necessario scardinare tutti gli aspetti che rendono la religione simile all’oppio e riconoscere che anche Dio esiste per servire l’umanità. Dobbiamo riflettere sulla piccolezza e sulla fragilità umane che ci rendono facili schiavi e strumenti delle nostre stesse creazioni. Abbiamo bisogno di trasmettere questo insegnamento al nostro prossimo e assumerci il compito di chiarire le nostre responsabilità rispetto a tutto ciò che come esseri umani abbiamo conquistato a partire dal Rinascimento».8
A sessant’anni di distanza da questa proposta così radicale di Watanabe lo stato attuale della religione ci induce a prendere atto che siamo di fronte a una sfida che attende ancora una risposta. Ne è una prova il fatto che la parola “fondamentalismo” appare sempre più frequentemente associata alla religione. Non possiamo permettere che l’appello di Watanabe rimanga senza risposta. Se non agiamo, la religione perderà il suo potenziale di forza motrice della costruzione della pace e diventerà uno dei fattori determinanti dei conflitti e delle guerre.
Nel 1993 ebbi l’opportunità di pronunciare un discorso all’Università di Harvard, intitolato Il Buddismo mahayana e la civiltà del ventunesimo secolo. Nel mio intervento sottolineai l’importanza di concentrare la nostra attenzione sull’impatto che la religione ha sugli esseri umani: «In un’epoca segnata da una diffusa rinascita della religione ci dobbiamo domandare se questa rende le persone più deboli o più forti. Se essa incoraggia ciò che in loro è bene o male. Se le rende migliori o peggiori».9 Sono domande che dovremmo porre a tutte le religioni, incluso naturalmente il Buddismo, se vogliamo riuscire nel tentativo di “umanizzarle”.
Il premio Nobel per la pace Elie Wiesel ha analizzato il fanatismo e l’odio che inevitabilmente accompagnano il dogmatismo e il fondamentalismo. Ha creato la Fondazione Elie Wiesel per l’umanità, che ha sponsorizzato numerose conferenze internazionali sul tema dell’“Anatomia dell’odio”. Wiesel descrive così le sue motivazioni: «Come si può spiegare l’attrazione che il fanatismo esercita su tanti intellettuali al giorno d’oggi? E cosa si può fare per rendere immune la religione da tale richiamo? […] Sin dall’inizio della storia è solo l’essere umano a soffrire per il fanatismo e l’odio, ed egli soltanto può opporvisi. In tutto il creato soltanto l’essere umano è sia capace che colpevole di odio».10
Questo è il grido irrefrenabile della coscienza, un’espressione appassionata del bisogno di umanizzare la religione.
Da bambino Wiesel perse la famiglia nell’Olocausto; fu separato dalla madre e dalla sorella ad Auschwitz e fu testimone della morte del padre a Buchenwald. Essendo sopravvissuto all’inferno del nazismo, la più orribile forma di fanatismo immaginabile, le sue parole hanno un peso e una risonanza particolari poiché trasmettono in modo palpabile la percezione dell’impasse in cui si trova oggi l’umanità.
L’attaccamento a interessi di parte, a spese degli sforzi per umanizzare la religione, non farà altro che rendere le persone più deboli, più cattive e più stupide. Un tale fanatismo amplificherà gli aspetti che rendono la religione simile all’oppio e ne faranno sempre più un fattore scatenante di conflitti e di guerre. Credo che non sia necessario menzionare esempi specifici sugli esiti irrimediabili di questa deriva fondamentalista a cui allude Wiesel, poiché questo aspetto oscuro e distruttivo della religione pervade ormai tutto l’arco della storia umana.
In effetti l’opera di umanizzazione della religione non è ancora iniziata seriamente; è una sfida che abbiamo davanti e che dobbiamo vincere se vogliamo che la società umana progredisca.
Valutare l’impatto della religione e delle convinzioni religiose nella storia umana è un compito complesso, e qui non intendo addentrarmi in tale analisi. Se raccogliamo la sfida, ancora priva di risposta, di umanizzare la religione, dobbiamo assicurarci che il ruolo della religione nel ventunesimo secolo sia sempre quello di elevare e rafforzare la nostra umanità, contribuendo così alla realizzazione della pace e della felicità umana.
IN LODE ALLO SPIRITO UMANO
«La religione rientra nell’ambito delle attività spirituali, mentre le attività spirituali non sono contenute all’interno della religione». Così lo storico Michelet nega gli elementi della religione che potrebbero sovrastare l’essere umano
A questo proposito è da tempo che guardo con interesse alla posizione del grande storico del diciannovesimo secolo Jules Michelet (1798-1874) sul tema della religione.
Michelet visse nel periodo noto come Rinascimento orientale. Come parecchi secoli prima era stata cruciale la scoperta delle antiche civiltà greche e romane durante il rinascimento culturale europeo, così nella metà del diciannovesimo secolo l’Europa conobbe un rinnovato interesse per le culture “orientali” dell’India e della Persia. Tramite la riscoperta di queste culture si tentò di andare oltre i limiti spazio-temporali della visione del mondo della Cristianità. Per certi versi il clima di allora era simile a quello di oggi caratterizzato dalla globalizzazione. Ne La Bibbia dell’umanità (1864) Michelet scrive: «Che epoca felice è la nostra! L’anima della terra si è armonizzata grazie alle linee del telegrafo, ed è stata riunita nel suo presente. Attraverso le linee della storia e della comparazione fra diverse epoche essa offre il senso di un passato fraterno. Ci offre la gioia di sapere che l’anima della terra ha sempre vissuto nel medesimo spirito».11
Il riferimento alla comunicazione globale “via telegrafo” fa pensare alla nostra società dominata da Internet. La metà del diciannovesimo secolo vide il nascere della moderna civiltà tecnologica e scientifica. In quello scenario Michelet, che era un ottimista di carattere, cominciò a nutrire enormi aspettative sulle possibilità di espansione delle frontiere della civiltà grazie a una comprensione unificata del mondo.
In netto contrasto con quell’epoca, il nostro tempo mostra i segni del declino inevitabile della moderna civiltà industriale, secondo le linee indicate dal rapporto del Club di Roma, I limiti della crescita, pubblicato più di trentacinque anni fa. Un senso di sterilità e impersonalità avvolge la società di Internet in crescente espansione. Oggi è difficile sentire lo stesso entusiasmo di Michelet circa le potenzialità di espansione delle tecnologie di comunicazione che dovrebbero armonizzare «l’anima della terra».
I contemporanei di Michelet – forse perché erano capaci di relativizzare la propria civiltà – avevano fiducia nel potenziale illimitato degli esseri umani. Lo spirito dell’epoca influì sull’approccio di Michelet verso la religione e sul suo tentativo di umanizzarla. Per Michelet “Bibbia dell’umanità” sono non soltanto il Vecchio e il Nuovo testamento ma anche i testi sacri di quasi tutte le civiltà classiche mondiali (con la sola eccezione della civiltà cinese). Dichiarando che «il loro autore è l’umanità stessa»12 Michelet esamina accuratamente e confronta con imparzialità i Veda e i Ramayana indiani, l’epica eroica e il teatro classico dell’antica Grecia, il Shahnameh (Libro dei Re) della Persia e i testi antichi dell’Egitto e dell’Assiria.
Al termine del suo lavoro di ricerca Michelet giunge a questa audace conclusione: «La religione rientra nell’ambito delle attività spirituali, mentre le attività spirituali non sono contenute all’interno della religione».13 Con questa affermazione lo storico compie l’operazione chiara e inequivocabile di umanizzare la religione, negandone tutti gli elementi che potrebbero trascendere o sovrastare l’essere umano. Michelet dichiara: «Abbiamo visto che esiste una perfetta concordanza fra Asia e Europa, una concordanza fra i tempi antichi e la nostra era moderna. Abbiamo compreso che in ogni epoca le persone hanno pensato, sentito e amato nello stesso modo. Per questo non esiste che una sola umanità, un solo cuore, e non due. È stata ristabilita per sempre una grande armonia che scorre nel tempo e nello spazio».14
Dalla prospettiva della nostra epoca, segnata dalla sfiducia e dalla frustrazione, non possiamo non avvertire la distanza che ci separa dalla concezione di Michelet. Il suo inno fiducioso al genere umano, intonato all’alba della civiltà moderna, ci appare utopistico e ingenuo. L’indagine sulla genealogia della fioritura dell’umanità che prende le mosse dall’antica India e dalla Grecia, attraverso “l’epoca oscura” del Medioevo, per giungere al Rinascimento e alla Rivoluzione francese con i suoi valori di libertà, fraternità e uguaglianza, è stata duramente smentita dagli accadimenti della storia. Il ventesimo secolo ha conosciuto due guerre mondiali, gli orrori di Auschwitz e Hiroshima, tragedie che ci hanno reso consci della natura a doppio taglio della conoscenza, della scienza e della tecnologia. (Allo stesso modo, il crollo dell’Unione Sovietica ha sconfitto la visione della storia come progressione naturale dalla Rivoluzione francese alla Rivoluzione russa).
Ma, come dice il proverbio, non dobbiamo gettare via il bambino con l’acqua sporca. «Per favore! Siamo umani! Facciamoci entusiasmare da una nuova grandeur umana come mai l’abbiamo conosciuta prima».15 Sono d’accordo: dobbiamo ascoltare l’appello di Michelet e rivalutare la sua concezione dell’umanità come protagonista centrale della costruzione della storia in tutti i suoi aspetti, incluso quello religioso. Il successo della nostra battaglia per l’umanesimo dipenderà dalla capacità di fare nostra questa posizione, di approfondirla e trasmetterla alle future generazioni.
Dobbiamo riconoscere che l’elogio che fa Michelet dell’essere umano racchiude un dinamismo che non ha nulla a che vedere con la vaghezza, l’indeterminatezza emotiva e la debolezza che oggi sembra associarsi alla parola “umanesimo”. A differenza di successive espressioni dell’umanesimo, involutesi spesse volte in forme surrettizie di liberazione senza freni dell’ego, l’umanesimo che professava Michelet era corroborato da un solido autocontrollo, da una fede nella natura e nell’essenza normativa dello spirito umano.
Alla fine de La Bibbia dell’umanità Michelet si dice convinto di essere parte dell’eredità legittima della storia: «Un torrente di luce, un grande fiume di Diritto e Ragione scorre dall’antica India fino all’anno 1789».16 Affermando che «identica in tutte le epoche, la Giustizia eterna emette la sua luce dalle solide fondamenta della natura e della storia»,17 Michelet fondava se stesso sul diritto, la ragione e la giustizia. Attraverso il dominio di sé e l’autoriforma egli esprimeva l’orgogliosa determinazione di essere protagonista della storia. L’esaltazione generosa dell’umanità agisce come forza centrifuga che dal centro dell’essere si irradia verso l’esterno, mentre l’autodisciplina e l’autocontrollo hanno la funzione centripeta di regolare e riportare al centro. Il giusto equilibrio tra queste due forze è essenziale per un sano funzionamento dell’anima umana.
Sebbene il concetto di diritto a cui si richiama Michelet differisca in molti aspetti dal Dharma – la legge che secondo il Buddismo è inerente alla vita – il suo approccio presenta notevoli somiglianze con l’esortazione finale del Budda ai suoi seguaci: «Siate per voi stessi come un’isola, siate il vostro stesso rifugio, non prendete alcun altro come rifugio; che il Dhamma [Dharma o Legge] sia la vostra isola, che il Dhamma e nient’altro sia il vostro rifugio».18 Per chiunque desideri essere veramente umano e protagonista nel dramma della vita, questo tipo di ricerca indipendente e centrata sul sé è tanto essenziale oggi quanto lo è stata nel passato.
UN UMANESIMO IMPEGNATO
La chiave per iniziare una battaglia spirituale fruttuosa in nome degli ideali dell’umanesimo consiste nel dialogo. Abbandonare il dialogo significa abbandonare la nostra umanità
Come ha denunciato Kazuo Watanabe, gli esseri umani sono dominati da un senso di «piccolezza e fragilità» che li portano a diventare «gli strumenti e gli schiavi delle loro stesse creazioni»; in definitiva dobbiamo prendere atto che la storia non si è sviluppata secondo la prospettiva indicata da Michelet.
È questo senso di piccolezza e fragilità che spinge gli individui ad agire contro ciò che è umano [les hommes contre l’humain (gli esseri umani contro l’umano) per usare un’espressione di Gabriel Marcel (1889-1973)], vanificando ogni tentativo di essere protagonisti della creazione della storia. Il ventesimo secolo – durante il quale l’ideologia portata a valore assoluto e il fanatismo di ogni specie hanno scatenato tempeste di guerre e di violenza – offre la testimonianza più dolorosa di tale fallimento.
Vediamo che qui a operare non è la giustizia universale glorificata da Michelet ma espressioni parziali e particolari di giustizia, ciascuna delle quali fa il suo separato appello al senso di piccolezza e fragilità degli esseri umani, rivendicando la propria assolutezza e rimanendo imbrigliata in una lotta disperata. Questa è la trappola in cui si cade a causa della deriva incontrollata verso il fondamentalismo. Inconsapevole della miseria provocata dal perseguimento fanatico di asserzioni parziali e particolari della giustizia, la maggior parte delle persone è incapace di resistere al loro fascino.
Se vogliamo bloccare questa deriva verso il fondamentalismo non possiamo rimanere a guardare passivamente. Un vero umanista non può evitare o abbandonare la lotta contro il male. L’umanesimo, come si è già detto, è una parola e un concetto ricco sia di prospettive positive – pace, tolleranza e moderazione – sia di eventuali implicazioni negative come la tendenza a facili compromessi e a un tiepido impegno. Se non ci liberiamo di tali aspetti negativi non saremo in grado di contrastare l’estremismo che è il vero volto del fanatismo.
Kazuo Watanabe faceva spesso riferimento a un saggio di Thomas Mann (1875-1955) che «in un periodo di violenti sconvolgimenti prima tenevo sotto il cuscino e adesso tengo nel mio sacco da viaggio».19 In questo saggio, che si intitola Achtung, Europa! (Attenta, Europa!) Mann, impegnato per tutta la vita a combattere il nazismo, richiede con forza l’affermazione di ciò che definisce “umanesimo combattivo”: «Il genere di umanesimo di cui abbiamo bisogno oggi è un umanesimo combattivo conscio del proprio valore, un umanesimo determinato a impedire che i principi di libertà, tolleranza e scetticismo siano abusati e calpestati dal fanatismo che non conosce vergogna o dubbio».20
Gide offrì il suo sostegno entusiasta all’idea dello scrittore tedesco, definendola la forma più autentica di umanesimo. Si può supporre che l’umanesimo di Mann scaturisca dalla medesima fonte di quello di Gide: il riconoscimento del valore universale dell’umanità come base per la giustizia, che il pensatore francese dichiarava essere «più importante di me stesso, più importante dell’Urss».
Percepisco molte affinità con la lotta spirituale dell’umanesimo buddista. Oggi il movimento buddista della Sgi si è diffuso su scala mondiale e gode del sostegno di ampi settori della società. Io credo che ciò accada perché noi siamo portatori di un umanesimo universale che trascende le impostazioni settarie e dogmatiche. Agendo così abbiamo raccolto la sfida più importante nella storia della civiltà: umanizzare la religione.
La chiave per iniziare una battaglia spirituale fruttuosa in nome degli ideali dell’umanesimo consiste nel dialogo, una sfida che è antica (e nuova) quanto l’umanità stessa. Una delle caratteristiche essenziali degli esseri umani è quella di essere creature dialogiche; abbandonare il dialogo significa abbandonare la nostra umanità. Senza dialogo la società è come avvolta nel silenzio della tomba.
Nella misura in cui ci impegniamo per essere saggi (Homo sapiens), dobbiamo impegnarci per essere maestri nel linguaggio e nel dialogo (Homo loquens). Da più parti è stato osservato che in tutte le epoche il dialogo costituisce veramente la condizione essenziale che ci rende umani.
Socrate dichiarò: «Perché non può capitare a uno peggior guaio di questo, che gli vengano in odio i ragionamenti. Nascono allo stesso modo misologia (l’avversione per i ragionamenti e il linguaggio) e misantropia (l’avversione per gli esseri umani)».21
Il fisico e filosofo tedesco Carl Friedrich von Weizsäcker (1912-2007) – il cui fratello, diventato in seguito presidente della Germania, ho avuto il privilegio di incontrare nel 1991 – definì gli esseri umani come «i nostri veri compagni con i quali vivere e conversare».22
Così dicendo, anche lui poneva il dialogo al centro della dimensione umana.
Sorretto dalla convinzione che il dialogo è la linfa vitale della religione ho incontrato più di settemila pensatori ed esponenti di spicco degli ambiti più diversi e ho pubblicato quasi cinquanta dialoghi a cominciare da quello con lo storico britannico Arnold J. Toynbee (1889-1975) (edito in lingua italiana nel 1988 con il titolo Dialoghi. L’uomo deve scegliere, per la casa editrice Bompiani). Ho avuto come interlocutori rappresentanti delle civiltà cristiane e confuciane, esponenti dell’Islam e dell’Induismo, culture con le quali il Giappone ha avuto storicamente pochi contatti. Inoltre ho incontrato numerosi esponenti dell’ex blocco socialista. Riguardo ai temi affrontati, ho dialogato non soltanto con studiosi di discipline umanistiche, ma anche con fisici, astronomi e altri esperti in scienze naturali.
Le scritture buddiste insegnano che da un’unica Legge derivano innumerevoli significati.23 Nel realizzare questi dialoghi mi sono basato sul mio impegno personale per l’umanesimo buddista motivato dal desiderio di creare, attraverso la costante pratica del dialogo, ponti che uniscano religioni, civiltà e discipline differenti e contribuiscano a far sì che l’asse portante della nuova era sia un umanesimo aperto e universale.
I rappresentanti della Sgi partecipano regolarmente al dialogo interreligioso. Per citare un esempio, subito dopo gli attacchi terroristici dell’undici settembre 2001 la Sgi ha partecipato, in rappresentanza della tradizione buddista, a un simposio sul ruolo della religione nella costruzione della pace promosso dall’Accademia europea delle scienze e delle arti, a cui hanno aderito anche rappresentanti della religione cristiana, ebraica e musulmana. Inoltre gli istituti di ricerca da me fondati, come l’Istituto di filosofia orientale, l’Istituto Toda per la pace globale e la ricerca politica e il Centro di ricerche per il XXI secolo di Boston, hanno promosso iniziative per favorire il dialogo fra religioni e civiltà differenti.
Nella sfera religiosa, con la sua tragica eredità di fanatismo e intolleranza, nulla è più vitale di un dialogo che trascenda il dogmatismo e si basi sull’esercizio della ragione e dell’autocontrollo. Per ogni religione rinunciare al dialogo significa rinunciare alla propria ragione d’essere. Per la Sgi questo significa che nella ricerca di promuovere l’umanesimo buddista non dobbiamo permettere che venga ammainata la bandiera del dialogo – la conditio sine qua non dell’umanesimo – anche di fronte alle minacce rappresentate dalle forze reazionarie del fanatismo, della sfiducia e del dogmatismo.
Il dialogo abbandonato a metà strada è privo di significato. Il dialogo autentico è quello che si persegue con costanza e convinzione. Per manifestare il nostro vero valore come Homo loquens dobbiamo impegnarci in questa lotta spirituale portandola avanti in modo coerente e convinto, e ciò richiede l’espressione delle virtù più nobili dell’essere umano come la bontà, la forza e la saggezza. Per essere degne di questo nome, le religioni devono offrire gli strumenti per liberare queste qualità, devono promuovere un cambiamento rivoluzionario negli esseri umani. Questo è il motivo per cui il mio discorso ad Harvard fu imperniato sul ruolo cruciale che il Buddismo mahayana può svolgere nella civiltà del ventunesimo secolo. Sono sempre stato fermamente convinto di questo.
IL QUADRO DI RIFERIMENTO IN MATERIA DI DIRITTI UMANI
Oltre all’universalità che trascende i confini nazionali, nel ventunesimo secolo dobbiamo sviluppare un senso di responsabilità esteso alle generazioni future
Partendo da questa prospettiva generale ora vorrei esaminare le azioni concrete e le politiche che possono essere attuate per risolvere la complessa trama dei problemi globali che l’umanità sta affrontando in questo frangente.
Quest’anno si celebra il sessantesimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani, espressione della decisione condivisa di non ripetere mai più gli orrori e le tragedie della seconda guerra mondiale. La Dichiarazione, composta da trenta articoli che sanciscono sia diritti politici e civili sia diritti economici, sociali e culturali, si apre con questo nobile preambolo: «Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo…».24
Tale Dichiarazione ha influenzato l’azione politica dei governi, è servita come base di riferimento per gli accordi e per le istituzioni che si occupano di diritti umani, e ha ispirato generazioni di attivisti dei diritti umani.
Quando fu adottata, la Dichiarazione diede voce a una visione universale dei diritti umani, stabilendo l’obiettivo di creare un mondo libero dalla miseria e dalla paura. Insieme con la Carta delle Nazioni Unite, anch’essa adottata alla fine della seconda guerra mondiale, la Dichiarazione universale dei diritti umani ha segnato un nuovo punto di partenza e ha tracciato il percorso da seguire nell’individuazione di nuovi modelli di coesistenza pacifica per il genere umano.
Nel ventunesimo secolo, l’asse “orizzontale” o spaziale di un’universalità che trascende i confini nazionali – come proposto nella Dichiarazione – deve essere integrata dall’asse “verticale” o temporale di un senso di responsabilità che si estenda alle future generazioni, in particolare per ciò che concerne i nostri sforzi di costruire una società globale pacifica e sostenibile.
All’interno di questo quadro vorrei avanzare alcune proposte concrete in riferimento a tre specifici ambiti: la salvaguardia dell’integrità ecologica del pianeta, il sostegno della dignità umana e la costruzione delle infrastrutture per la pace.
SALVAGUARDARE L'INTEGRITÀ ECOLOGICA DEL PIANETA
Sulle questioni ambientali che interessano l’intero genere umano occorrono azioni comuni e un’educazione al risparmio energetico e al rispetto dell’ecosistema
Nell’ottobre del 2007 è stato pubblicato un rapporto stilato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente dal titolo Prospettive sull’ambiente globale: ambiente per lo sviluppo (Geo-4). Sebbene in alcune città la qualità dell’aria sia migliorata, secondo questo rapporto oltre due milioni di persone muoiono prematuramente ogni anno, su scala mondiale, a causa dell’inquinamento atmosferico. Il buco nello strato di ozono stratosferico localizzato sopra l’Antartico, che protegge dai raggi ultravioletti nocivi, si è allargato in misura mai raggiunta prima. È inoltre diminuita la disponibilità su scala mondiale di acqua dolce pro capite e sono state identificate almeno sedicimila specie a rischio di estinzione.
Su questioni relativamente più semplici si sono registrati dei progressi, ma per affrontare le problematiche più complesse e spinose è necessario impegnarsi cercando di fare il massimo. C’è urgente bisogno di agire.
Il Quarto rapporto di valutazione del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change) pubblicato nel novembre scorso rivela che, a causa del brusco aumento delle emissioni di anidride carbonica registrato negli ultimi anni, il tasso di riscaldamento globale nel cinquantennio fra il 1956 e il 2005 è cresciuto di quasi il doppio rispetto all’andamento complessivo (tasso medio) del periodo 1906-2005. Se la tendenza rimane la stessa le temperature della superficie terrestre potrebbero aumentare fino a 6,4 gradi entro la fine del ventunesimo secolo.
Il rapporto denuncia inoltre che se il riscaldamento globale procederà senza controllo, i ghiacci del mar glaciale artico continueranno a ritirarsi progressivamente, si verificheranno aumenti della frequenza di siccità, ondate di calore, piogge torrenziali e altri eventi atmosferici estremi. Questi cambiamenti potrebbero compromettere seriamente le fondamenta stesse della vita umana sulla terra.
La percezione crescente dell’urgenza di affrontare le questioni ambientali è dimostrata dal fatto che il cambiamento climatico è stato costantemente all’ordine del giorno in tutti gli incontri internazionali annuali tenutisi di recente e culminati nel vertice ad alto livello sul cambiamento climatico del settembre scorso presso il Quartier generale delle Nazioni Unite. Ciononostante la società internazionale non riesce a mettere in campo azioni concertate.
L’integrità ecologica del pianeta è una questione che interessa e preoccupa tutto il genere umano, poiché trascende i confini nazionali e le priorità di ciascuno stato. Qualunque soluzione richiede un forte senso di responsabilità individuale e l’impegno di ciascun abitante del pianeta.
Il presidente fondatore della Soka Gakkai, l’educatore e geografo Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), sosteneva che gli individui dovrebbero essere consapevoli di tre livelli di cittadinanza: le radici locali e il diretto impegno nella comunità dove si vive; il senso di appartenenza alla comunità nazionale; il riconoscimento del fatto che il mondo, in definitiva, è il palcoscenico su cui ognuno vive la propria vita, e che in tal senso siamo tutti cittadini del mondo. Su questa base esortava le persone a superare il loro eccessivo o esclusivo attaccamento agli interessi nazionali e a sviluppare una coscienza attiva della necessità di impegnarsi in favore dell’umanità intesa come un tutt’uno.
Questo principio ha ispirato la richiesta avanzata nel 2002 dalla Sgi di istituire il Decennio delle Nazioni Unite dell’educazione allo sviluppo sostenibile, e il nostro conseguente impegno a cooperare con importanti agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni non governative in vista della realizzazione del Decennio.
Viviamo in un’epoca in cui si avverte il pressante bisogno di proporre azioni concertate per il bene del pianeta e dell’umanità. Le Nazioni Unite rappresentano l’istituzione mondiale che può fungere da centro di raccordo e agevolazione di tali azioni. L’Onu, per fare un esempio, ha sviluppato e coordinato le attività per l’ambiente attraverso il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), che ospita i segretariati di vari trattati internazionali sull’ambiente e promuove i programmi per lo sviluppo sostenibile e la protezione ambientale attraverso una rete di sei uffici regionali.
Come riconoscimento dei solidi risultati raggiunti dall’Unep è stata avanzata da più parti la richiesta di ampliarne le capacità funzionali allo scopo di rispondere in modo più efficace alle minacce ambientali globali che continuano ad aumentare in complessità e dimensioni. Nel corso della riunione del Forum globale dei Ministri dell’ambiente e del consiglio direttivo dell’Unep, che si è svolto a Nairobi nel febbraio del 2007, si è raggiunto un accordo sulla necessità di rispondere a queste richieste. In quella sede è stata sottolineata l’esigenza di dotarsi di un quadro di riferimento istituzionale più efficace per raccogliere e analizzare le scoperte scientifiche e coordinare l’elaborazione, l’adozione e l’attuazione di accordi sull’ambiente; infine è stata avanzata la richiesta di trasformare l’Unep da Programma ad Agenzia specializzata, assegnandogli così uno status più elevato.
Penso da tempo che le questioni ambientali costituiscano una delle missioni principali delle Nazioni Unite nel ventunesimo secolo. Nella mia Proposta di pace del 2002 ho suggerito l’istituzione di un alto commissariato delle Nazioni Unite per l’ambiente che avesse lo speciale mandato di coordinare le attività delle varie agenzie ed esercitare una forte leadership per la risoluzione delle questioni ambientali globali. Vorrei perciò unirmi al coro di voci che richiedono un rafforzamento e un potenziamento dell’Unep per trasformarlo in Agenzia specializzata, una sorta di organizzazione mondiale per l’ambiente.
Il motivo che mi spinge ad appoggiare una tale proposta è la constatazione che fino a oggi soltanto i paesi che appartengono al Consiglio direttivo dell’Unep hanno la possibilità di partecipare direttamente ai dibattiti e alle decisioni. Se l’Unep ottenesse lo status di Agenzia specializzata, tutti gli stati che scelgono di aderire alle Nazioni Unite potrebbero sedersi al tavolo delle decisioni. Una considerazione simile era alla base della proposta che feci nel 1978 di creare le “Nazioni Unite per l’ambiente”. La definizione di un quadro di riferimento istituzionale che consenta a tutti gli stati di impegnarsi nelle questioni ambientali può essere della massima importanza, specialmente per ciò che concerne l’obiettivo pressoché unanime di stabilire un efficace sistema di governance globale delle questioni ambientali.
L’esigenza di combattere il cambiamento climatico è stata riconosciuta come una sfida di grandissima importanza. Al summit di Heiligendamm, in Germania, lo scorso giugno 2007, i capi dei G8 hanno preso in seria considerazione l’obiettivo di ridurre della metà le emissioni totali di gas a effetto serra entro il 2050. Ma al momento il solo quadro normativo esistente sulla riduzione delle emissioni dei gas serra è rappresentato dal Protocollo di Kyoto che sarà in vigore fino alla fine del 2012. Se l’obiettivo è la riduzione del cinquanta per cento delle emissioni, è chiaramente indispensabile che ogni nuovo accordo successivo al 2012 assicuri una partecipazione su scala mondiale, in particolare di quei paesi che non hanno ratificato l’attuale protocollo.
Nel dicembre del 2007 si è svolta a Bali, in Indonesia, la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che ha portato all’adozione della cosiddetta Roadmap di Bali, che fissa il percorso di definizione del quadro di riferimento post-2012. Anche se siamo lontani dalla definizione di obiettivi specifici sulla riduzione delle emissioni, è già un primo successo il fatto che gli Stati Uniti, l’India e la Cina – paesi che sono notoriamente fra le maggiori fonti di emissioni dei gas serra e non firmatari del Protocollo di Kyoto – si sono resi disponibili a partecipare a questo processo.
Vorrei invitare tutte le parti coinvolte nei negoziati previsti dalla Roadmap di Bali ad abbandonare l’atteggiamento negativo che porta a minimizzare gli obblighi e le responsabilità nazionali, e a sviluppare invece un atteggiamento positivo verso il raggiungimento di obiettivi più allargati e di interesse globale. Questo cambiamento di orientamento è essenziale.
Combattere il cambiamento climatico è una sfida che richiede di superare i vincoli imposti dai propri interessi particolari. Abbiamo bisogno di costruire una rete internazionale di cooperazione e solidarietà da contrapporre a questo tipo di tendenza. Nello specifico vorrei invitare i principali paesi produttori di emissioni di gas serra a iniziare a porsi obiettivi ambiziosi e attuare politiche incisive, sostenendo attivamente anche gli sforzi delle altre nazioni. Spero che così questi stati si impegnino in una competizione virtuosa, facendo a gara per offrire il maggiore contributo possibile alla risoluzione della crisi del pianeta.
In un libro pubblicato nel 1903 Tsunesaburo Makiguchi invocò una “competizione umanitaria” fra gli stati. Con ciò egli immaginava un ordine internazionale in cui i diversi stati del mondo si impegnassero a influenzarsi positivamente tra loro per coesistere e svilupparsi insieme, invece di perseguire interessi strettamente nazionali a danno degli altri. Ritengo che la risoluzione della crisi dell’ambiente rappresenti un’occasione unica per avanzare verso il mondo evocato da Makiguchi. Nutro la seria speranza che il Giappone, che assumerà la presidenza dei G8 per il vertice che si terrà nel luglio di quest’anno a Toyako, nell’Hokkaido, prenda su di sé il compito di promuovere atteggiamenti e approcci adeguati ai bisogni della nuova era.
Riguardo ai mezzi più efficaci per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, vorrei fare il punto sulle trasformazioni necessarie per raggiungere il traguardo della realizzazione di una società a “basso carbonio” (attraverso la diminuzione dell’uso di fonti di energia che producono anidride carbonica, n.d.r.) e senza sprechi. Il primo passo in questa direzione deve essere l’impiego di energie rinnovabili e di misure atte a favorire il risparmio energetico. Porsi obiettivi e impegni in modo attivo farà scaturire nuove idee che potrebbero per esempio tradursi in innovazione tecnologica.
L’Unione Europea ha già incentivato l’introduzione di fonti energetiche rinnovabili. In base all’accordo raggiunto nel corso della riunione dei Capi di stato e di governo svoltasi a marzo dello scorso anno, gli stati membri si impegnano a incrementare l’uso delle fonti energetiche solari e altre rinnovabili, fissando l’obiettivo vincolante di aumentare la quota di energie rinnovabili, nel totale dei consumi energetici di tutta l’Unione Europea, dall’attuale 6,5 per cento al venti per cento entro il 2020.
Parallelamente, il risparmio e un’accresciuta efficienza in campo energetico sono fattori cruciali nella transizione verso un mondo a “basso carbonio” e senza sprechi. Il Giappone, che ha accumulato notevoli risultati ed esperienze in questo ambito, dovrebbe svolgere un ruolo attivo collaborando a stretto contatto con i paesi vicini allo scopo di far diventare l’estremo oriente un modello di efficienza energetica.
Nella mia proposta di pace del 2007 ho auspicato la creazione di un’organizzazione per lo sviluppo e per l’ambiente dell’area del sud-est asiatico come modello pilota di cooperazione a livello regionale e come primo nucleo verso l’eventuale creazione di una comunità del sud-est asiatico. È auspicabile, come primo passo verso questo obiettivo a lungo termine, che il Giappone assuma un ruolo guida nelle questioni del risparmio energetico.
Oltre a una riforma dall’alto, che passa attraverso la ridefinizione del quadro istituzionale, è cruciale incoraggiare il cambiamento dal basso, ampliando l’impegno a livello di base e favorendo l’empowerment della gente per realizzare azioni collettive. Questo convincimento ha motivato la mia richiesta di un Decennio dell’educazione per lo sviluppo sostenibile. Credo fermamente nel potere dell’istruzione. L’empowerment attraverso l’educazione fa emergere l’illimitato potenziale degli individui e conseguentemente crea correnti che, sviluppandosi prima all’interno delle comunità regionali e allargandosi successivamente a livello più globale, possono trasformare profondamente il mondo in cui viviamo.
La Sgi ha offerto il suo sostegno alla produzione del documentario a scopo educativo dal titolo Una rivoluzione tranquilla – realizzato nel 2001 in collaborazione con il Consiglio della Terra, l’Unep e il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite per l’ambiente (Undp) – e ha supportato la mostra I semi del cambiamento: la Carta della Terra e il potenziale umano, realizzata inizialmente in collaborazione con la Carta della Terra. Queste iniziative erano tutte finalizzate a promuovere sin dal suo avvio il Decennio delle Nazioni Unite dell’educazione allo sviluppo sostenibile.
Prima dell’inizio del Decennio, il Centro di ricerche per il XXI secolo di Boston ha contribuito alla stesura della Carta della Terra, una dichiarazione che sancisce i princìpi e i valori fondamentali per la costruzione di una società globale giusta e sostenibile.
Nell’ambito delle attività per la protezione dell’ambiente, nel 1993 la Soka Gakkai del Brasile ha fondato il Centro di ricerche ecologiche dell’Amazzonia, che raccoglie e conserva i semi di varietà di alberi indispensabili per l’integrità dell’ecosistema amazzonico. Le organizzazioni della Soka Gakkai del Canada, delle Filippine e di altri paesi si sono impegnate in varie campagne di piantagione di alberi.
Nel febbraio del 2005 ho incontrato Wangari Maathai, premio Nobel per la pace e fondatrice del movimento Green Belt (cintura verde). Il nostro dialogo si è incentrato sul significato profondo dell’attività di piantare alberi, e a questo proposito abbiamo parlato della figura di Shakyamuni, il quale duemila e cinquecento anni fa insegnava il profondo valore insito nell’attività di piantare alberi; abbiamo discusso anche del re Ashoka, il grande sovrano indiano, famoso sia perché rinunciò alla guerra a favore di politiche basate sulla nonviolenza, la compassione e la tolleranza, sia perché attuò programmi concreti per la protezione dell’ambiente, creando frutteti di mango e facendo piantare alberi lungo le vie di comunicazione. Il movimento Green Belt ha contribuito in larga misura all’empowerment delle donne, e ci siamo trovati d’accordo sul fatto che “piantare alberi significa piantare la vita”, seminare e coltivare i semi del futuro e di una società pacifica.
Una mera acquisizione di conoscenze sulle questioni ambientali non è sufficiente a rendere significativo il Decennio dell’educazione allo sviluppo sostenibile. È vitale che le persone percepiscano concretamente il valore insostituibile dell’ecosistema di cui sono parte integrante e si impegnino per proteggerlo. Il modo migliore per sviluppare una tale consapevolezza è la partecipazione a esperienze pratiche, come ad esempio i progetti di piantagione di alberi.
La Campagna per un miliardo di alberi, promossa dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) e originariamente sollecitata da Wangari Maathai, rappresenta una notevole iniziativa condotta a livello di base per contrastare il cambiamento climatico. La Campagna ha avuto un successo straordinario: nel 2007 sono stati piantati un miliardo e novecento milioni di alberi e per il 2008 è stato fissato l’obiettivo di piantarne un altro miliardo. Questa iniziativa offre opportunità importanti per favorire l’apprendimento basato sull’esperienza e mi auguro che nell’avanzamento di questo programma saranno rafforzati i legami con il Decennio dell’educazione allo sviluppo sostenibile.
Il successo del Decennio, e soprattutto il successo di tutti gli sforzi volti a rallentare e invertire il degrado ecologico, dipenderanno dalla capacità individuale di ciascuno di sentire questi impegni come sfide personali e, su tale base, di agire concretamente. Abbiamo bisogno di riflettere e discutere su ciò che possiamo fare nel nostro ambiente – a livello individuale, nella famiglia, nella nostra comunità e sul luogo di lavoro – per creare un futuro sostenibile e lavorare insieme per questo scopo.
Questo tipo di approccio potrebbe essere immaginato come una sorta di rete di azione per un futuro sostenibile che non si limita soltanto ad affrontare le questioni ambientali. Ampliando i legami di cooperazione con attività in altri ambiti, quali la diminuzione della povertà, i diritti umani e la pace, possiamo creare solide basi per una lotta comune tesa a risolvere i problemi dell’umanità. La Sgi è impegnata a svolgere un ruolo sempre più attivo nella creazione di questa rete di azione.
SOSTENERE LA DIGNITÀ UMANA
Le questioni relative ai diritti umani non devono essere oggetto di dibattito solo dei governi, ma deve sorgere una cultura globale condivisa strettamente collegata alla concreta realtà quotidiana e basata sul rispetto della dignità umana
Durante gli ultimi anni della sua vita ho avuto il privilegio di dialogare con l’ex presidente dell’Accademia delle Lettere del Brasile Austregésilo de Athayde (1898-1993), che svolse un ruolo importante nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani. Durante la nostra conversazione Athayde, parlando di quel suo impegno, ha osservato: «Nell’elaborazione della Dichiarazione universale dei diritti umani abbiamo affrontato una serie di difficoltà, ma c’era un punto a me particolarmente caro: riuscire a creare legami spirituali fra i popoli del mondo e più specificamente stabilire l’universalità dello spirito».25
Athayde partecipò al lavoro di stesura della Dichiarazione con la ferma convinzione che fosse essenziale sviluppare legami più nobili, più ampi e più duraturi capaci di riunire tutti i popoli del mondo. Le relazioni fra i paesi basate sulle condizioni mutevoli che governano l’economia e la politica sono troppo fragili e instabili per poter diventare il fondamento di una pace duratura.
Come ho già ricordato, il 2008 segna il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il 10 dicembre dell’anno scorso, su iniziativa dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, è stata lanciata una campagna della durata di un anno che ha come titolo “Dignità e giustizia per tutti noi”, finalizzata a far conoscere la visione universale espressa dalla Dichiarazione. Per dare concretezza a questo anniversario è vitale che i governi e la società civile lavorino insieme per promuovere attivamente programmi concreti di educazione ai diritti umani rivolti a tutti.
Ho ribadito più volte l’importanza di stabilire un quadro di riferimento globale sui diritti umani, come avevo sottolineato nel mio messaggio indirizzato alla Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza che si è svolta a Durban in Sudafrica nell’agosto del 2001. Dopo la conclusione del Decennio delle Nazioni Unite per i diritti umani (1995-2004), nel gennaio del 2005 l’Onu ha lanciato il Programma mondiale per l’educazione ai diritti umani. Garantire una continuità di azione su questo tema è un fattore di grandissima importanza.
Le questioni relative ai diritti umani non possono essere oggetto di dibattito solo dei governi, ma deve sorgere una cultura globale condivisa dei diritti umani che sia strettamente collegata alla concreta realtà quotidiana e basata sul rispetto assoluto della dignità umana.
Nel corso di una sessione dell’Assemblea generale dell’Onu si è parlato della promozione dell’educazione ai diritti umani come uno dei compiti primari del Consiglio per i diritti umani, un organismo istituito nel 2006 in seno al processo di riforma delle Nazioni Unite. Nel settembre del 2007 il Consiglio per i diritti umani ha deciso di preparare una bozza di dichiarazione sull’educazione e la formazione ai diritti umani. Una volta adottata, questa dichiarazione sarà aggiunta ai dispositivi esistenti sui diritti umani nell’ambito della legislazione internazionale, insieme alla Dichiarazione universale dei diritti umani e al Patto internazionale sui diritti umani. È fondamentale che il processo di elaborazione della dichiarazione tenga adeguatamente conto dei punti di vista e delle preoccupazioni della società civile e che il documento finale promuova una cultura dei diritti umani veramente radicata nella vita quotidiana delle persone.
A tal fine desidero proporre, come parte integrante del processo di stesura della dichiarazione, la convocazione di una conferenza internazionale dedicata al tema specifico dell’educazione ai diritti umani che raccolga le opinioni più diverse in seno alla società civile. Sebbene sul tema dei diritti umani siano state realizzate conferenze a livello regionale e incontri di esperti su piccola scala, non è ancora in agenda l’organizzazione di una conferenza internazionale su larga scala. Una conferenza a questo livello, promossa dalla società civile e su di essa incentrata, sarebbe in grado di discutere non solo della nuova dichiarazione ma anche di misure atte ad assicurare il successo del Programma mondiale per l’educazione ai diritti umani.
Vorrei ora richiamare nuovamente l’attenzione sugli Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals, Mdgs) che fissano le strutture sociali e di supporto indispensabili per la salvaguardia della dignità umana. Gli Obiettivi includono mete concrete come quella di dimezzare la percentuale della popolazione che soffre per la povertà e la fame, e nel 2007 si era a metà del cammino verso il fatidico traguardo del 2015. Secondo il rapporto delle Nazioni Unite sullo stato di avanzamento degli Obiettivi esiste la concreta preoccupazione che, se si procede alla velocità attuale, gli scopi fissati non verranno raggiunti, nonostante si sia registrato un aumento delle iscrizioni alla scuola primaria nei paesi in via di sviluppo e una diminuzione del tasso di povertà e di mortalità infantile.
Nel luglio 2007 è stata firmata dai capi di stato di Stati Uniti, Canada, Giappone, Ghana, Brasile, India e di alcuni paesi europei la Dichiarazione sugli Obiettivi di sviluppo del millennio. In questo documento, che ha visto la luce grazie all’iniziativa del primo ministro britannico Gordon Brown, si ribadisce l’importanza di raccogliere il consenso politico, sia nei paesi avanzati che nei paesi in via di sviluppo, sulla necessità di avviare «politiche e riforme appropriate che dispongano di risorse adeguate».26
Le Nazioni Unite hanno proclamato il periodo 2005-2015 come Decennio internazionale di azione “acqua per la vita” e il 2008 come Anno internazionale dei servizi igienico-sanitari. In questo contesto desidero sollecitare la creazione di una struttura a livello mondiale che raccolga tutte le politiche e le riforme adeguate e le risorse sufficienti a garantire l’accesso all’acqua pulita e a condizioni di vita migliori dal punto di vista sanitario per tutta la popolazione mondiale.
Si calcola che oggi più di un miliardo di persone non hanno diritto all’acqua pulita e che due miliardi e seicento milioni di persone non hanno accesso a servizi igienico-sanitari adeguati. Il risultato è che circa un milione e ottocentomila bambini muoiono ogni anno di diarrea e di altre malattie. Inoltre il peso della raccolta dell’acqua ricade in misura sproporzionata sulle spalle (letteralmente!) di milioni di donne e ragazze che la trasportano ogni giorno nelle loro case. Questo non fa che accrescere le discriminazioni di genere già esistenti sia a livello occupazionale sia a livello scolastico. Le malattie croniche causate dalla mancanza di acqua pulita e di servizi igienico-sanitari frenano la produttività e la crescita economica, aggravando le disuguaglianze a livello globale e costringendo le popolazioni più vulnerabili a vivere nella povertà.
Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp, The United Nations Development Programme), il superamento della crisi sanitaria e idrica è una delle sfide cruciali per lo sviluppo umano in questa prima metà del secolo, e la riuscita in questo ambito contribuirà al raggiungimento di tutti gli Obiettivi del millennio. Si ritiene che i costi previsti per garantire l’approvvigionamento di acqua pulita e la fornitura di servizi igienico-sanitari per tutti richiedano una spesa aggiuntiva di circa 10 miliardi di dollari all’anno, che tuttavia equivale a soli otto giorni di spesa militare in tutto il pianeta. Il rapporto sullo sviluppo umano 2006 dell’Undp afferma: «Per ciò che concerne il rafforzamento della sicurezza umana, che è un concetto nettamente distinto dalle varie nozioni di sicurezza nazionale, convertire anche soltanto piccole quantità di denaro destinate alla spesa militare in investimenti per infrastrutture idriche e igienico-sanitarie produrrebbe grandissimi risultati».27
Il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria fondato nel 2002 rappresenta un buon esempio di struttura che mette a disposizione risorse finanziarie per contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del millennio. Questo Fondo globale è una struttura innovativa, in quanto si impegna a garantire che i progetti finanziati siano gestiti direttamente dai paesi in via di sviluppo. Il Fondo sovvenziona programmi sulla base dei bisogni effettivi dei vari paesi e, invece di assegnare un budget prefissato per ciascuna regione e per tipo di malattia, destina le risorse finanziarie a quelle aree che più necessitano di interventi attraverso un processo di valutazione indipendente.
Nel consiglio di amministrazione del Fondo sono presenti i governi, i rappresentanti del settore privato, le Organizzazioni non governative sia dei paesi avanzati che di quelli in via di sviluppo, e i gruppi di difesa dei malati. Tutte le parti hanno uguale diritto di parola e di voto, il che assicura che i diversi punti di vista trovino un’adeguata rappresentanza nel processo decisionale.
A questo proposito vorrei proporre l’istituzione di un Fondo mondiale per l’acqua per la vita, finalizzato al reperimento di fondi e all’elaborazione di strategie volte ad assicurare il rapido miglioramento delle pessime condizioni di vita che continuano a minacciare la dignità di così tante persone.
«La sicurezza umana […] riguarda la dignità degli esseri umani». Sono le parole di Mahbub ul-Haq (1934-98), che nel corso di un discorso programmatico nell’ambito della conferenza internazionale organizzata nel 1997 dall’Istituto Toda per la pace globale e la ricerca politica ha messo l’accento sul fatto che: «È più facile, più umano e meno costoso far fronte alle nuove problematiche relative alla sicurezza umana “a monte” piuttosto che affrontarne le gravi conseguenze “a valle”».28 Haq, grande collaboratore dell’Istituto Toda sin dalla sua fondazione, è stato un pioniere nell’introduzione del concetto di “sviluppo umano”, nucleo del progetto “Sviluppo umano, conflitto regionale e governance globale” (Hugg2) che l’Istituto Toda ha avviato due anni fa.
Haq ha scritto che la sicurezza umana dovrebbe riflettersi concretamente nella vita delle persone: «Un bambino che non è morto equivale a una malattia che non si è diffusa».29 In questo senso gli sforzi per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del millennio devono essere dispiegati non soltanto per arrivare al traguardo del 2015, ma anche per ridare benessere agli individui che soffrono.
L’eliminazione della parola “miseria” dal vocabolario umano era il fervente desiderio del mio mentore, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda (1900-58). La sua filosofia di pace ha ispirato le attività dell’Istituto Toda, che continuerà a promuovere conferenze internazionali e ricerche per collaborare al raggiungimento degli Obiettivi del millennio, per contribuire allo sviluppo sostenibile e per supportare altre attività finalizzate allo sviluppo umano su scala mondiale.
IL SECOLO DELL'AFRICA
L’Unione africana è un esempio di collaborazione per la costruzione della pace e della crescita sostenibile. Il rinascimento di questo popolo precorrerà quello dell’intera umanità
Desidero ora rivolgere la mia attenzione all’Africa, il cui futuro è cruciale per la costruzione di una società globale che sostenga la dignità umana.
Nella ricerca di una pace duratura e di una crescita sostenibile, sin dall’inizio del nuovo secolo le nazioni africane hanno intrapreso una nuova sfida con l’istituzione dell’Unione africana (Au) destinata a svolgere un ruolo chiave. Fondata nel 2002 in sostituzione dell’Organizzazione per l’unità africana (Oau), l’Unione africana è composta da cinquantatré nazioni e territori ed è l’organizzazione a livello regionale più grande del mondo. Si sta definendo rapidamente la struttura degli organi istituzionali che ne assicurino l’operatività – un’Assemblea dei capi di stato e di governo come organo supremo, un Parlamento panafricano, il Consiglio per la pace e la sicurezza, il Consiglio economico, sociale e culturale e la Corte di giustizia.
Nel corso degli anni mi sono dedicato al dialogo con esponenti africani e con esperti di diversi campi, e ho promosso scambi culturali ed educativi tra i popoli. Nel fare questo sono sempre stato sorretto dalla convinzione che il ventunesimo secolo sarà il secolo dell’Africa e a tale proposito mi auguro sinceramente che l’Unione africana produca ampi risultati a beneficio del popolo africano. Con immutata convinzione ribadisco che il rinascimento africano precorrerà il rinascimento del mondo e dell’umanità.
Infatti negli ultimi decenni molte delle importanti iniziative volte a trasformare le tragedie dell’umanità sono nate nel continente africano. Lo si è visto sia nel lavoro compiuto dal popolo sudafricano sotto la guida del presidente Mandela, che ha portato allo smantellamento del sistema dell’apartheid e alla realizzazione del processo di “verità e riconciliazione”, sia nel programma di empowerment delle donne e nel programma di protezione ambientale realizzati dal già citato movimento Green Belt della dottoressa keniota Wangari Maathai. Queste iniziative di cambiamento stanno suscitando molto interesse e hanno ispirato la realizzazione di attività analoghe in altre parti del mondo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito alla risoluzione di numerose guerre e conflitti civili nel continente africano. Alcuni paesi sono passati a forme civili (non militari) di governo e in molte zone del continente è aumentato il tasso di crescita economica.
Questo non significa sottovalutare la gravità dei problemi che affliggono l’Africa. Ci sono conflitti in corso nella regione del Darfur e in Somalia; ci sono situazioni di estrema povertà e la tragica condizione dei rifugiati; a ciò si aggiunge il fatto che purtroppo nell’Africa sub-sahariana le misure per realizzare gli Obiettivi di sviluppo del millennio risultano inadeguate.
Oggi le nazioni africane, che già si sono rifiutate di soccombere al peso della schiavitù e del colonialismo, si stanno impegnando nel costruire forme di solidarietà, liberando le loro potenzialità e affrontando le sfide comuni. Ritengo che siamo di fronte a un’impresa di grandissima portata.
Manifestazione concreta di questo spirito di solidarietà è la Nuova partnership per lo sviluppo dell’Africa (Nepad). L’adozione di questo accordo testimonia che i leader africani, basandosi sul riconoscimento condiviso che l’Africa “possiede le chiavi del proprio sviluppo”, si stanno impegnando per la pace, la sicurezza, la democrazia, la governance economica stabile e lo sviluppo centrato sulle persone. È cruciale che la comunità internazionale sostenga attivamente questo ambizioso progetto messo in campo dal popolo africano.
Nel prossimo mese di maggio (2008) si svolgerà a Yokohama, in Giappone, la quarta Conferenza internazionale di Tokyo sullo sviluppo dell’Africa (Ticad IV, Tokyo International Conference on African Development). Questa iniziativa è stata avviata su proposta del Giappone nel 1993 e da allora si tiene ogni cinque anni in cooperazione con le Nazioni Unite e altre organizzazioni. Vi partecipano i capi di stato africani e rappresentanti di organizzazioni internazionali; la conferenza ha la finalità di servire da forum per costruire una consapevolezza comune sui problemi che l’Africa ha davanti a sé e per prospettare delle soluzioni.
Auspico che il dibattito si focalizzi sull’adozione di misure concrete per assicurare che al centro di tutte le proposte politiche vi sia l’empowerment dei giovani. È cruciale adottare ora delle misure concrete per spezzare il circolo vizioso che genera povertà intergenerazionali e condizioni di vita misere. Migliorare le condizioni di vita dei giovani è l’elemento cardine per il graduale miglioramento delle condizioni di vita di tutte le generazioni.
La Ticad ha promosso lo sviluppo delle risorse umane mettendo in campo programmi di accesso all’istruzione elementare, sostenendo i centri per l’apprendistato e la formazione professionale. Sulla base di questi risultati, propongo la creazione di un programma per la partnership dei giovani africani come uno dei pilastri della Ticad, allo scopo di aiutare lo sviluppo di giovani talenti che avranno il ruolo cruciale di creare un brillante futuro per l’Africa.
Inoltre vorrei avanzare la proposta di creare una rete di e per i giovani, che faciliti gli scambi fra i giovani dell’Africa, del Giappone e di tutti i paesi del mondo, e che serva da piattaforma comune per far fronte alle sfide che interessano non solo l’Africa ma il mondo intero. Il 2008 è stato designato come l’anno degli scambi fra Giappone e Africa. Vorrei sperare che gli eventi in calendario durante quest’anno diventino un punto di partenza per l’avvio di programmi regolari di scambi fra gli studenti e i giovani africani e giapponesi.
CREARE LE INFRASTRUTTURE DELLA PACE
Con la fine della guerra fredda e delle minacce di una guerra nucleare totale, è emerso il nuovo pericolo della proliferazione nucleare. Bisognerebbe stabilire un consenso internazionale sulla illegalità delle armi atomiche
Per cercare di ridurre gli attriti e prevenire un’ulteriore escalation nella corsa agli armamenti, nel periodo di maggiore tensione della guerra fredda proposi degli incontri al vertice tra i leader delle due superpotenze e mi impegnai in attività di diplomazia cittadina per incoraggiare il dialogo e lo scambio. Quando – oltre a quello tra Usa e Urss – anche il conflitto tra Cina e Unione Sovietica arrivò a un punto critico (1974-75), viaggiai nei tre paesi in veste di privato cittadino per incontrare, tra gli altri, il premier cinese Zhou Enlai, il premier sovietico Aleksei Kosygin e il segretario di stato americano Henry Kissinger. Attraverso questi sforzi speravo di poter costruire ponti che avrebbero portato a un miglioramento delle relazioni fra i paesi in conflitto.
Allora ero spinto dalla determinazione che si dovesse prevenire a tutti i costi un conflitto nucleare su larga scala, che avrebbe avuto effetti catastrofici per l’intera specie umana, e che si dovesse porre fine alle guerre che stavano dividendo il mondo al prezzo di enormi sofferenze. Ora, con la fine della guerra fredda e la cessazione delle minacce di una guerra nucleare totale, è emerso un nuovo pericolo: la proliferazione nucleare.
Nella mia proposta del 2007 chiesi che si avviasse un processo di transizione verso un sistema di sicurezza che non dipendesse più dalle armi nucleari, e proposi di creare un’agenzia internazionale per il disarmo nucleare che assicurasse l’adempimento in buona fede degli attuali impegni legali in materia di disarmo.
Per ottenere l’abolizione delle armi nucleari è altrettanto importante costruire un consenso internazionale sulla natura fondamentalmente illegale di tali ordigni. Per contribuire a questo sforzo vorrei attirare l’attenzione sulla proposta avanzata nell’agosto del 2007 dal gruppo canadese Pugwash di creare una Zona artica denuclearizzata (Nwfz, Arctic Nuclear-Weapon-Free Zone). La Sgi, come organizzazione che si batte per un mondo libero dal nucleare, offre il suo appoggio a questa richiesta in accordo con lo spirito della dichiarazione pronunciata da Josei Toda nel 1957 sull’abolizione delle armi nucleari.
Durante gli anni della guerra fredda il Mar glaciale artico occupava una posizione altamente strategica a livello geopolitico, perché i sottomarini a propulsione nucleare di entrambi i blocchi occidentale e orientale trasportavano missili balistici al di sotto della calotta polare. Se il riscaldamento globale dovesse causare il restringimento o addirittura lo scioglimento della calotta polare durante i mesi estivi, si potrebbe aprire la strada a una militarizzazione della regione artica, scatenando la corsa allo sviluppo dei trasporti e allo sfruttamento del fondo marino e di altre risorse, provocando uno scontro di interessi fra i paesi coinvolti. Per questo è urgente che venga vietata la militarizzazione della regione, e messo a punto un dispositivo legale per la conservazione della zona come patrimonio dell’umanità, e che si arrivi all’istituzione della Zona artica denuclearizzata.
Con la ratifica del Trattato antartico nel 1959 venne messa al bando ogni attività militare sul continente più a sud del mondo; inoltre vennero dichiarati fuori legge le esplosioni nucleari e il deposito di scorie radioattive nelle regioni al di sotto del sessantesimo parallelo meridionale. Da allora sono stati ratificati cinque trattati che proibiscono lo sviluppo, la fabbricazione, il possesso, il trasporto, la consegna, la sperimentazione e l’uso di ordigni nucleari. Le Zone denuclearizzate (Nwfz) si sono estese includendo l’America Latina e l’area caraibica, il Pacifico meridionale, il sud-est asiatico, l’Africa e l’Asia centrale. Tali regioni, che coprono la maggior parte delle terre emerse dell’emisfero sud, servono da freno alla proliferazione nucleare in quelle aree e contribuiscono a rafforzare la spinta verso la messa al bando delle armi nucleari. Insieme alla Mongolia, che nel 2000 ha dichiarato il proprio status di paese libero dal nucleare, oltre cento stati – più della metà dei governi della Terra – hanno firmato questi accordi, lanciando così il messaggio che lo sviluppo e l’uso delle armi nucleari è o dovrebbe essere illegale secondo la legislazione internazionale.
Mi auguro che vengano fatti ulteriori passi verso la creazione di altre zone libere dal nucleare, perché ciò contribuirebbe ad accelerare il processo già in atto di un riconoscimento condiviso a livello mondiale sulla natura illegale delle armi nucleari; questa coscienza comune potrebbe portare alla creazione di un trattato internazionale per la proibizione totale delle armi nucleari e di ogni attività finalizzata al loro sviluppo, acquisizione, possesso e impiego. Come passo concreto in questa direzione propongo l’introduzione di un trattato per il divieto dell’uso a scopi militari e la denuclearizzazione della regione artica, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il Giappone, come paese che ha sperimentato direttamente gli orrori della guerra nucleare e che fonda la sua politica sui tre principi di non possedere, non sviluppare e non consentire l’installazione di armi nucleari sul proprio territorio, dovrebbe assumere un ruolo attivo nella realizzazione di tale impresa, cooperando con gli altri stati e con i partner della società civile impegnati nella realizzazione di un mondo libero dal nucleare.
Ritengo che questo tipo di approccio si può rivelare particolarmente efficace in merito alla questione della non-proliferazione nucleare nell’Asia nord orientale. I Colloqui a sei devono continuare la loro azione fino al completo smantellamento del programma nucleare nord coreano. Dal canto suo il Giappone dovrebbe continuare a perseguire le proprie politiche anti-nucleari e dispiegare tutti i suoi sforzi diplomatici per la denuclearizzazione di tutta l’Asia nord orientale.
Per essere efficace, ogni tentativo di riduzione e messa al bando delle armi nucleari richiede la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale. Sulla base di tale convinzione ho suggerito – all’interno di una mia proposta dell’agosto 2006 sul processo di riforma delle Nazioni Unite – la proclamazione di un decennio di azione per l’abolizione del nucleare che vedesse come protagonista la gente di tutto il mondo, concentrando così tutte le energie e le risorse delle realtà di base per fare un necessario passo avanti.
Lo scorso anno, per commemorare il 50esimo anniversario della Dichiarazione sull’abolizione delle armi nucleari pronunciata dal secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda, la Sgi ha inaugurato la mostra internazionale Da una cultura della violenza a una cultura della pace: trasformare lo spirito umano, con l’intento concreto di promuovere il disarmo e l’educazione alla non-proliferazione come richiesto dalle Nazioni Unite. A partire dagli anni ottanta la Sgi ha organizzato una serie di mostre per accrescere la consapevolezza dei cittadini sui pericoli insiti nelle armi nucleari, cooperando con le Conferenze Pugwash e con vari partner della società civile che condividono l’obiettivo di costruire un consenso civico sul tema della proibizione e dell’abolizione degli ordigni nucleari. Tali sforzi rappresentano una parte significativa della nostra missione di buddisti che promuovono il rispetto e la sacralità della vita.
Un’altra mia proposta per creare le infrastrutture per la pace è quella di stilare e ratificare a breve un trattato che preveda la messa al bando delle cosiddette bombe “a grappolo” (cluster). Sono armi che contengono un numero enorme di mini-esplosivi capaci di diffondersi in un’area molto vasta. Questi ordigni disumani continuano a uccidere indiscriminatamente e a menomare le persone che vivono nelle aree bersaglio; le mini-bombe rimaste inesplose rappresentano un pericolo mortale anche a distanza di anni dalla fine di un conflitto, causando un grave ostacolo alla ricostruzione.
Si calcola che quattrocentoquaranta milioni di mini-esplosivi siano stati impiegati in ventiquattro paesi e territori uccidendo e ferendo circa centomila persone, e che vi siano ancora circa settantatre paesi che ne continuano a fare stoccaggio.
Nel 2003 si è costituita la Coalizione anti-cluster, una rete di organizzazioni della società civile che si battono per proibire l’uso, la produzione e lo stoccaggio di munizioni a grappolo. Il movimento ha acquisito un grande slancio, e alla conferenza che si è svolta a Oslo nel febbraio del 2007 per impostare un nuovo trattato di messa al bando di questi ordigni hanno partecipato oltre quaranta governi e rappresentanti della società civile. Come risultato concreto è stata lanciata un’iniziativa denominata Processo di Oslo che – analogamente al Processo di Ottawa che nel 1997 portò al trattato di messa al bando delle mine anti-persona – riunisce le organizzazioni non governative e gli stati interessati con l’obiettivo di prospettare azioni comuni.
Nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite su specifiche armi convenzionali (Certain Conventional Weapons, Ccw) sono attualmente in corso discussioni sulle bombe a grappolo, ma finora non sembra essersi fatto alcun passo avanti. Per quanto sia auspicabile che il maggior numero di stati aderisca alla Convenzione, ritengo che debba essere data priorità alla ratifica di un trattato entro la fine di quest’anno, come proposto dal Processo di Oslo. Così come il Trattato di Ottawa ha acquisito peso nell’ultimo decennio in quanto dispositivo umanitario internazionale che scoraggia anche gli stati non firmatari a usare le mine anti-persona, si dovrebbe costruire all’interno della società globale un consenso simile rispetto all’uso delle bombe a grappolo.
Il successo di questi sforzi, accompagnato dal forte sostegno della società civile, avrà un impatto positivo nella spinta al processo di disarmo in altri ambiti.
COLLABORAZIONE E SCAMBIO IN ESTREMO ORIENTE
Se la Cina, la Corea del sud e il Giappone, insieme all’ASEAN, proseguiranno con tenacia nelle azioni di coordinamento e cooperazione, sarà possibile consolidare le infrastrutture della pace in estremo oriente
Infine, vorrei parlare delle prospettive future riguardo alle relazioni fra Cina e Giappone e della creazione di infrastrutture di pace in tutto l’estremo oriente.
Sono passati ormai trent’anni dalla firma del Trattato di pace e amicizia fra Cina e Giappone. Il primo ministro cinese Zhou Enlai mi comunicò di avere grandi aspettative circa la ratifica di un tale trattato quando lo incontrai nel dicembre del 1974. Condividevo totalmente la sua visione. Il mese successivo incontrai il segretario di stato americano Henry Kissinger e gli comunicai l’aspirazione di Zhou Enlai alla costruzione di relazioni di amicizia fra Cina e Giappone e il mio impegno in questa direzione. Kissinger espresse il suo sostegno alla realizzazione di un trattato di amicizia fra i due popoli.
Visitai nuovamente la Cina nell’aprile del 1975, e discussi dell’importanza di una ratifica a breve di un trattato di amicizia nel corso del mio incontro con il vice premier Deng Xiaoping (1904-97), il quale mi affidò un messaggio per il primo ministro giapponese Takeo Miki (1907-88). Subito dopo ci fu una ripresa dei negoziati a livello governativo e nell’agosto del 1978 si arrivò alla firma del trattato, che aprì un nuovo capitolo nelle relazioni fra i due paesi.
A partire da quella data sono stati realizzati scambi in vari campi e sul fronte economico si è creata una maggiore interdipendenza tra i due paesi. La Cina è divenuta il principale partner commerciale del Giappone, superando gli Stati Uniti, e nel 2006 più di quattro milioni e settecentomila persone hanno viaggiato fra i due paesi.
Negli ultimi anni si stanno tenendo regolarmente riunioni al vertice fra i leader cinesi e giapponesi, segnali positivi che attestano la volontà di costruire relazioni bilaterali. Nell’aprile del 2007 il primo ministro cinese Wen Jiabao si è recato in visita ufficiale in Giappone per una serie di colloqui con il primo ministro giapponese. Dopo la conclusione del vertice i due premier hanno rilasciato una dichiarazione congiunta alla stampa sulle politiche bilaterali: «I nostri due paesi rafforzeranno l’azione di coordinamento e di cooperazione e affronteranno insieme le sfide riguardanti le questioni regionali e le questioni globali».30
In occasione della sua visita ho avuto il piacere di incontrare il primo ministro cinese e sono rimasto colpito dalla sua constatazione che l’amicizia fra Cina e Giappone sta proseguendo e che ciò costituisce un’aspirazione condivisa dai due popoli.
Lo scorso dicembre il primo ministro giapponese Yasuo Fukuda ha visitato la Cina, dove è stato a colloquio con il presidente Hu Jintao e altri esponenti politici. Alla fine degli incontri è stata rilasciata una dichiarazione comune dove si preannuncia un piano di cooperazione sulle questioni ambientali ed energetiche e sul programma di scambi giovanili.
Sono passati quarant’anni da quando per la prima volta chiesi la normalizzazione dei rapporti fra Cina e Giappone, e saluto con grande soddisfazione i passi significativi fin qui compiuti verso la costruzione di una solida partnership per la pace, la sicurezza e lo sviluppo dell’Asia e del mondo.
Oltre all’ammorbidimento delle relazioni fra Cina e Giappone, si è registrato un costante miglioramento dei rapporti tra Giappone e Corea del sud. Legami solidi fra i tre paesi aiuteranno il processo di evoluzione del Summit dell’estremo oriente come luogo di esplorazione di nuove modalità di cooperazione in ambito regionale.
Nel mese di novembre dello scorso anno l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean, Association of the South-East Nations) ha raggiunto un accordo sull’elaborazione di una Carta dell’Asean che contempli obiettivi come la promozione della pace, della sicurezza e della stabilità nella regione, la diminuzione della povertà e il mantenimento per il sud-est asiatico dello status di area libera dal nucleare. Sempre nel corso dello stesso summit, gli stati membri dell’Asean hanno messo a punto un piano per la creazione di una comunità economica dei paesi dell’Asean entro il 2015.
Sono convinto che se la Cina, la Corea del sud e il Giappone, insieme all’Asean, proseguiranno con tenacia nelle azioni di coordinamento e cooperazione, sarà possibile consolidare le infrastrutture della pace in estremo oriente.
A partire dal 2007 il governo giapponese ha avviato un programma quinquennale che prevede di invitare annualmente a studiare in Giappone seimila giovani provenienti principalmente dalla Cina, dalla Corea del sud e dai paesi dell’Asean. Avendo chiesto da molto tempo un’intensificazione degli scambi giovanili ed educativi in estremo oriente, io spero fortemente nel successo di questo programma e formulo il mio augurio che questa opportunità di approfondire la comprensione e l’amicizia sia anche l’occasione per i giovani della regione di imparare a sviluppare una consapevolezza e una responsabilità condivisa sul futuro. In tale ambito desidero proporre la creazione di opportunità per realizzare incontri e colloqui con lo staff delle Agenzie dell’Onu, affinché i giovani possano apprendere direttamente dai programmi di educazione all’ambiente e al disarmo promossi dalle Nazioni Unite.
In definitiva i giovani hanno le chiavi del futuro: l’umanità è nelle loro mani. È questa l’opinione espressa da quasi tutti i leader e gli esperti che ho incontrato e con i quali ho dialogato.
Il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda ha dichiarato: «Il nuovo secolo sarà creato dal potere e dalla passione dei giovani». Facendo nostre le parole e lo spirito che ci ha trasmesso, noi membri della Sgi vogliamo mantenere uno sguardo attento sui giovani, coltivando il loro potenziale illimitato per costruire le basi di una solidarietà diffusa che ci porterà verso la risoluzione dei difficili problemi che il nostro pianeta si trova di fronte.
(Traduzione di Giuseppe Gualtieri)
Note
1) Linus Pauling e Daisaku Ikeda, Seimei no seiki eno tankyu (La ricerca per un nuovo secolo della vita), Tokyo, 1990, Yomiuri Shimbunsha, pp. 15-16.
2) Ban, Ki-moon, “Remarks at the Inauguration of the Alliance of Civilizations Forum”, 2008 (discorso inaugurale per l’Alleanza delle civiltà), http://www.un.org./apps/sg/sgstats.asp?nid=2954.
3) Nicolas Sarkozy, “Sarkozy Wants to Change UN, G8, Europe” (Sarkozy vuole cambiare l’Onu, il G8 e l’Europa/sommario), http://www.earthtimes.org/articles/show/170773.html
4) Cfr. Platone, 1888, The Republic of Plato (La Repubblica), Trad. B. Jowett, 3° ed. Oxford: Clarendon Press, p. 268.
5) William Hermanns, Einstein and the Poet: In Search of the Cosmic Man (Einstein e il poeta, alla ricerca dell’uomo cosmico), Brookline Villane 1983, MA, Branden Press, Inc., p. 53.
6) André Gide, Retour de l’Urss (Ritorno dall’Urss), Parigi, Gallimard, 1936, p. 13.
7) WND, 2, 843-44.
8) Kazuo Watanabe, Kyoki ni tsuite (Sulla follia), Tokyo, 1993, Iwanami Shoten, p. 163.
9) Daisaku Ikeda, Un nuovo umanesimo, Esperia, 2004, p. 163.
10) Elie Wiesel, And the Sea Is Never Full: Memoirs, 1969 (E il mare non si riempie mai: memorie, 1969), trad. Marion Diesel, New York, 1999, p. 370.
11) Jules Michelet, Bible de l’humanité (La Bibbia dell’umanità), Parigi, 1864, F. Chamerot, Libraire-Éditeur, p. II.
12) Ibidem, p. 484.
13) Ibidem, p. IV.
14) Ibidem, p. 13.
15) Ibidem, p. 283.
16) Ibidem, p. 485.
17) Ibidem, p. 484.
18) Mahaparinibbana Sutta: The Great Passing. The Buddha’s Last Days, in The Long Discourse of the Buddha: A Translation of the Digha Nikaya, a cura di Maurice Walshe, Boston, 1995, Wisdom Publications, p. 245.
19) Watanabe, op. cit., pp. 120-21.
20) Thomas Mann, “Achtung, Europa!” (Attenta, Europa), in Thomas Mann Essays Band 4 (I saggi di Thomas Mann, vol. 4), Frankfurt, 1995, S. Fischer Verlag GmbH, pp. 159-60.
21) Platone, Fedone, trad. M. Valgimigli, Laterza, Bari, 1943, p. 102.
22) Carl Friedrich von Weizsäcker, Der Mensch in seiner Geschichte (L’umanità nella storia), Monaco, 1991, Carl Hanser Verlag, p. 15.
23) Citato in: WND, 1, 295.
24) UN (United Nations), 1948, “Universal Declaration of Human Rights (1948-1998)” (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), http://www.un.org/Overview/rights.html.
25) Austregésilo de Athayde e Daisaku Ikeda, 21 seiki no jinken wo kataru (I diritti umani nel ventunesimo secolo), Tokyo, 1995, Ushio Shuppansha, pp. 128-29.
26) Dfid (Department for International Development), “Declaration on the Millennium Development Goals by Heads of State”, 2007 (Dichiarazione sugli obiettivi di sviluppo del millennio da parte dei capi di stato), http://www.dfid.gov.uk/mdg/declaration-heads-07.asp.
27) Undp (United Nations Development Programme), “Human Development Report 2006” (Rapporto sullo sviluppo umano 2006), http://hdr.undp.org/en/media/hdr06-complete.pdf.
28) Mahbub Ul-Haq, “Global Governance for Human Security” (Governance globale per la sicurezza umana), in Worlds Apart: Human Security and Global Governance, ed. Majid Tehranian, London, 1999, I. B. Tauris, p. 80.
29) Mahbub Ul-Haq, Reflections on Human Development (Riflessioni sullo sviluppo umano), New York, 1995, Oxford University Press, p. 116.
30) Mofa, 2007, (Ministero degli Esteri del Giappone), “Japan-China Joint Press Statement” (Dichiarazione congiunta alla stampa di Cina e Giappone), http://www.mofa.go.jp/region/asia-paci/china/pv0704/joint.html.