BS 103 / 1 marzo 2004

Trasformazione interiore: il movimento profondo che crea un’onda globale di pace

Proposta di pace 2004

di Daisaku Ikeda - presidente della Soka Gakkai Internazionale

Nel celebrare il ventinovesimo anniversario della fondazione della Soka Gakkai Internazionale (Sgi), vorrei cogliere l’opportunità per suggerire alcuni punti di vista e avanzare alcune proposte che potrebbero favorire la ricerca della pace mondiale.
Negli anni iniziali del XXI secolo la comunità internazionale è stata sconvolta dall’emergere di nuove minacce e dal conseguente dibattito sul modo migliore di rispondere a esse, che è stato fonte di ulteriori divisioni. Sin dall’attacco terroristico agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, abbiamo assistito al continuo verificarsi di una violenza indiscriminata che ha devastato la vita di un gran numero di cittadini in tutto il mondo. Contemporaneamente cresce l’ansia per la proliferazione delle armi di distruzione di massa, nucleari, chimiche o di altro genere.
L’anno scorso una delle principali questioni al centro del dibattito e delle preoccupazioni della comunità internazionale è stata quella delle ispezioni volte a determinare se e in quale misura l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa. In marzo, con l’opinione mondiale divisa sui torti e le ragioni dell’uso della forza contro l’Iraq, il cui governo aveva mancato per dodici anni di attuare le numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno deciso di lanciare un’offensiva militare. La schiacciante superiorità delle forze di coalizione ha causato il crollo del regime di Saddam Hussein dopo soli ventuno giorni di guerra formale. Da allora, tuttavia, le forze statunitensi e le altre forze di coalizione che occupano e amministrano l’Iraq sono state sotto costante attacco, insieme agli uffici delle Nazioni Unite. Ciò ha fatto sorgere dubbi sulle prospettive della ricostruzione dell’Iraq e sulla possibilità di portare stabilità nel Medio Oriente.
Un analogo stato di disordine è evidente in Afghanistan, che è stato il teatro di un’azione militare mirata a estirpare l’organizzazione terroristica di Al Qaeda. Benché nel gennaio di quest’anno sia stata finalmente adottata una costituzione, continuano gli attacchi da parte di quelli che sono considerati i resti del regime talebano, e permane il pericolo che la sicurezza in quel territorio si deteriori ulteriormente.
La comunità internazionale non può e non deve chiudere gli occhi davanti a queste nuove minacce. Sebbene sia necessario mostrare fermezza, i recenti eventi rendono anche evidente che contare esclusivamente sulla forza militare non permette di risolvere il problema alla radice.
In aggiunta alle sfide della ricostruzione dell’Iraq e dell’Afghanistan, la questione della pace tra israeliani e palestinesi rimane una delle principali preoccupazioni, insieme ai timori per il programma di sviluppo delle armi nucleari della Corea del Nord. Il futuro di tutte queste situazioni è immerso nell’incertezza.
Parallelamente alla concreta minaccia della guerra e del conflitto, dobbiamo prendere in esame la questione altrettanto critica dell’impatto che questo stato di cose sta avendo sul cuore e sulla mente della gente di tutto il mondo. L’evidente fallimento dell’azione militare nell’aprire una chiara prospettiva di pace ha generato in moltissime persone un opprimente senso di impotenza e di terrore.
Talvolta può essere possibile superare un’impasse tramite l’uso della forza militare o di altre forme di “potere duro”. Nel migliore dei casi, però, l’uso della forza riesce solo a influire sui sintomi del conflitto; ma nella misura in cui pianta i semi di ulteriore odio nelle regioni già dilaniate dal conflitto, contribuisce ad acuire e a radicare gli antagonismi. La preoccupazione per questa disastrosa eventualità, che si sta verificando in molte parti del pianeta, è condivisa da molte persone di coscienza. È per questa ragione che nelle mie ultime due Proposte ho sottolineato la necessità che coloro che possiedono e brandiscono gli strumenti del “potere duro” sviluppino la capacità di autocontrollo e autoregolamentazione. Ciò è necessario se vogliamo che l’esercizio di tale potere determini un risultato diverso dall’acutizzarsi dei cicli dell’odio e della vendetta. Allo stesso tempo, ho sollecitato una risposta congiunta della comunità internazionale che sia centrata sull’uso del “potere morbido”.
Nessuno sforzo conquisterà senza riserve il sostegno della gente, né riuscirà a produrre una stabilità e una pace durature, senza uno spirito di autocontrollo basato sulla viva coscienza dell’umanità degli altri, coscienza che io ritengo essere l’essenza stessa della civiltà.
Le fratture sorte all’interno della comunità internazionale sulla legittimità dell’azione militare contro l’Iraq devono ancora essere sanate. È vitale che tutte le parti riflettano sui propri errori del recente passato e rinnovino il proprio impegno a un dialogo costruttivo. Tutti devono unirsi nella ricerca di quel genere di approccio che non costituisca solo un trattamento sintomatico ma sia una vera e propria cura della malattia.
Cosa deve essere fatto per prevenire il rischio – intrinseco all’essenziale asimmetria di una “guerra” contro il terrorismo – che tale conflitto si trasformi in una palude mortale? Dal momento che è irrealistico aspettarsi l’autoregolamentazione da parte dei terroristi, coloro che vi si oppongono devono dare la priorità all’esercizio dell’autocontrollo, una qualità che nasce dallo sforzo di prendere in considerazione e cercare di comprendere la posizione dell’“altro”. Questo sforzo deve avere la precedenza sull’uso del potere duro. Egualmente essenziali sono il coraggio e la lungimiranza di affrontare la povertà e l’ingiustizia, condizioni di fondo che favoriscono il terrorismo.
Solo in questo modo possiamo offrire una vera dimostrazione di civiltà. Quel che serve non è limitarsi a ripetere i principi universali – sostenendo, ad esempio, che la libertà e la democrazia sono i frutti della civiltà. Le nostre parole devono essere basate sullo spirito di autocontrollo, sulla volontà di imparare dall’esempio degli altri e di regolare di conseguenza il nostro comportamento. Esse devono incarnare quel genere di “potere morbido” che può persuadere, “cooptare piuttosto che costringere”, per dirla con Joseph Nye (The Paradox of American Power: Why the World’s Only Superpower Can’t Go It Alone, New York: Oxford UP, 2002, p. 9). E a meno che non siano messe in pratica in modo tale da poter essere rapidamente apprezzate dai cittadini del mondo, le più nobili espressioni di questi ideali resteranno prive di contenuto, mera e vuota retorica. Non posso fare a meno di preoccuparmi per questo.
A questo punto vorrei considerare il tema della pace da un punto di vista piuttosto differente da quello delle risposte politiche o addirittura militari (le mie Proposte degli ultimi due anni hanno tentato di chiarire una posizione di base in questi ambiti). Specificamente, credo che vi sia nelle persone una sorta di erosione e putrefazione progressive delle radici della consapevolezza del significato della propria umanità, cioè del modo in cui gli individui si definiscono e si relazionano a chi è differente da loro. In un mondo intrappolato nel circolo vizioso del terrorismo e della rappresaglia militare, penso che sia vitale recidere le radici corrotte dalle quali origina il malessere spirituale della nostra era. Solo avendo il coraggio di farlo potremo tornare a respirare i venti liberatori della speranza.
Questo tema, ovviamente, è stato parte integrante della storia spirituale dell’umanità a partire dai grandi maestri come Shakyamuni e Socrate, le cui filosofie, incentrate sull’indipendenza e sulla conoscenza di sé, in definitiva dipendono dal dialogo e dall’impegno verso gli altri. Non è tuttavia mia intenzione esaminare tali argomenti in astratto. Vorrei piuttosto considerarli in termini concreti e vicini a noi, in riferimento al cambiamento che è possibile produrre attraverso sottili modifiche di atteggiamento. Voglio parlare, cioè, dei problemi che hanno di fronte i giovani e del ruolo dell’educazione.

LIBERTà E DISCIPLINA
Non possiamo impegnarci con gli altri in maniera efficace e produttiva se manchiamo di tensione interiore, della volontà e della forza spirituale per guidare e controllare le nostre emozioni. Se non esercitiamo fin da giovani l’autodisciplina, la libertà degenera in permissività autoindulgente

A questo proposito, mi ricordo di un libro che ho letto quand’ero giovane. Essendo nato nel 1928, la mia giovinezza è stata influenzata dalla tragedia e dal conseguente caos della sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, che da un giorno all’altro provocò un completo ribaltamento dei valori stabiliti. I giapponesi si sentirono liberati dal lungo e oscuro periodo bellico, con tutti gli orrori che esso aveva portato, e dalla crudele e oppressiva tirannia del governo militare. Parole come libertà e democrazia, introdotte dall’occupazione alleata, brillavano di una freschezza e di uno splendore oggi inimmaginabili.
Fu in questo scenario che lessi Libertà e disciplina (Jiyu to kiritsu, 1949, Tokyo: Iwanamishoten, 2003) di Kiyoshi Ikeda (1903-1990), al tempo professore di letteratura inglese all’Università Keio. Negli anni Venti Kiyoshi Ikeda trascorse otto anni di studio in Inghilterra, dove frequentò prima una public school e successivamente l’Università di Cambridge. Studiò poi per altri tre anni in Germania, all’Università di Heidelberg. Sulla base di queste esperienze arrivò alla conclusione, così ben descritta nel libro che ho citato, che l’apprezzamento della libertà, necessario per una sana democrazia, non può essere raggiunto senza un severo addestramento e uno sviluppo personale proprio in quegli anni critici della giovinezza che corrispondono, in Inghilterra, agli anni della public school. Senza sperimentare una tale disciplina, sosteneva, la libertà degenera in permissività autoindulgente.
Va notato che il libro del professor Ikeda non affronta le ombre della cultura politica che diede origine alla democrazia parlamentare (mi riferisco, in particolare, ai pregiudizi di razza e di classe e allo sfruttamento coloniale). E tuttavia per le persone della mia generazione, nel Giappone postbellico teatro di un travolgente rigetto per il militarismo e il fascismo – e di una lotta quotidiana per la sopravvivenza – le parole libertà e democrazia splendevano come una stella di speranza, promettendo un futuro migliore e più brillante. Perciò mi ricordo di Libertà e disciplina come di un libro che sembrava contenere l’essenza condensata della democrazia anglosassone.
Il libro riferisce quest’episodio: «Ebbi l’occasione di parlare con un uomo di Francoforte che addestrava cani poliziotto. Mi disse che se un giorno non si sentiva bene o era tormentato da qualche preoccupazione, rinunciava all’addestramento. In quei casi, infatti, c’era il rischio che, nel corso della sessione di addestramento, qualcosa lo facesse arrabbiare sul serio. Durante il processo di addestramento può essere necessario sgridare un cane. Talvolta può essere persino opportuno infliggere una punizione corporale. Ma se si cede alla collera anche una sola volta non sarà più possibile continuare l’addestramento, perché il cane disprezzerà l’addestratore. Neanche un cane accetta di venire addestrato da qualcuno per il quale nutre disprezzo» (ibidem, p. 119).
Colui che viene addestrato è in un certo senso uno specchio in cui si riflette l’addestratore, ed è quindi un partner indispensabile. Il professor Ikeda riteneva che un principio analogo valesse anche nel processo di forgiare e sviluppare il carattere attraverso l’educazione, spingendosi ad affermare: «Nei tre anni in cui ho studiato in Germania questa è la sola e unica cosa che, con le mie limitate capacità, sono stato in grado di imparare» (ibidem).
Credo che la ragione per cui mi ricordo così bene quest’episodio – raccontato in un libro letto moltissimo tempo fa – sia la seguente: per l’addestratore, il cane poliziotto rappresenta la concreta e innegabile presenza di un “altro” che non cede facilmente alla sua volontà, ma offre invece resistenza. L’addestratore aveva imparato che quando il suo autocontrollo era precario, rischiava di perdere la capacità di rispettare il cane come altro, e il cane avrebbe a sua volta risposto a questo cedimento col disprezzo.
Questa verità, che si applica persino all’addestramento di un cane poliziotto, ovviamente concerne – con sottigliezza e profondità di significato di gran lunga maggiori – le interazioni tra esseri umani. «Dopo avere insegnato per quasi vent’anni, trovo di dovere ancora acquisire la padronanza di questo evidentissimo principio» (ibidem). Le parole del professor Ikeda vanno interpretate come la franca e onesta confessione di un eccellente educatore.
L’io richiede l’esistenza dell’altro. Non possiamo impegnarci con l’altro in maniera efficace e produttiva se manchiamo di tensione interiore, della volontà e della forza spirituale per guidare e controllare le nostre emozioni. È riconoscendo ciò che è esterno e diverso da noi, percependo la resistenza che offre, che siamo ispirati a esercitare l’autocontrollo che permette alla nostra umanità di realizzarsi. Perdere di vista l’altro significa perciò compromettere la piena esperienza dell’io.

L'ASSENZA DELL'ALTRO
Perdere di vista l’altro significa desensibilizzarsi profondamente ai sentimenti umani. Proprio questa insensibilità sta dietro all’apatia e al cinismo prevalenti nella società contemporanea. Inoltre, c’è una profonda continuità tra il malessere che infetta i cuori di tanti giovani e il freddo disimpegno della moderna guerra ad alta tecnologia

Osservando le condizioni in cui vivono i giovani in Giappone, più di mezzo secolo dopo che il professor Ikeda scrisse Libertà e disciplina, ci si chiede fino a che misura il suo invito a una salutare tensione nell’educazione sia stata realizzata (e qui sto usando il termine educazione nel suo senso più ampio, non limitato all’ambito strettamente didattico, come la scuola, ma riferito anche alla famiglia e alla società nel suo complesso).
In anni recenti, il comportamento di certi giovani è parso completamente avulso dalle normali regole del “senso comune” ed è diventato motivo di costernazione. Ma l’agire di questi giovani dovrebbe essere visto come un sintomo dell’erosione della funzione educativa della società e della diffusa perdita della tensione spirituale che nasce dal concreto incontro tra l’io e l’altro.
Credo che il comportamento autodistruttivo dei giovani vada interpretato come un terribile allarme per la salute complessiva della società. La loro maggiore sensibilità li rende più vulnerabili alle tossine della vita moderna, e li assimila ai canarini che vengono portati tradizionalmente nelle miniere di carbone per segnalare col loro malessere la presenza di gas velenosi.
Una volta è stato detto che le due immagini che meglio definivano il Giappone postbellico erano i bambini eccessivamente viziati dai genitori e i siti di bellezza naturale deturpati dai rifiuti. Questa sardonica osservazione coglie le fiacche condizioni spirituali che hanno prevalso nella democrazia giapponese postbellica, dove le persone evitano la difficoltà di impegnarsi apertamente nei confronti sia del mondo naturale sia degli altri esseri umani. Come illustra Libertà e disciplina, il carattere può essere forgiato solo all’interno del contesto della tensione interiore suscitata dall’incontro tra l’io e l’altro, e io interpreterei il concetto di “altro” includendovi anche la natura. Sembra che la crescente prosperità del Giappone abbia oscurato questa consapevolezza.
Il professor Nobuo Masataka, dell’Università di Kyoto, ha coniato il termine “a-casa-ismo” per descrivere i sintomi dell’incapacità di distinguere tra l’io e l’altro, e per estensione tra lo spazio pubblico e quello privato [Keitai wo motta saru (Scimmie col cellulare), Tokyo: Chuokoronsha, 2003, p. 57]. Questa sindrome, tristemente comune oggi tra i giovani giapponesi, si manifesta sia come ritiro nello spazio privato che come spudorata sfacciataggine in pubblico. Se ci si accontenta di comportarsi sempre e in tutti i luoghi come se si fosse “a casa”, ci sono poche opportunità di imparare quel minimo di buona educazione e quel senso civico che danno concreta forma all’autocontrollo. L’autocontrollo è qualcosa che può essere raggiunto solo attraverso un intenso sforzo della volontà.
Una società piatta e anonima in cui non incontriamo alcuna reale resistenza, in cui la presenza dell’altro non suscita alcuna distinta reazione, è una società che, per quanto possa apparire libera, in realtà non lo è affatto. C’è qualcosa di soffocante e claustrofobico in una società di tal genere dove, per dirla con le parole dello scrittore e paroliere Yu Aku, «qualsiasi cosa abbiamo e per quanto liberi siamo di fare ciò che vogliamo, ciò con cui restiamo equivale a zero» (ibidem, p. 11). Il senso di frustrazione che è costantemente in agguato dietro la nostra apparente ricchezza e libertà segnala la trappola spirituale della quale la gente sta finalmente cominciando a prendere coscienza.
Un giornalista di mia conoscenza ha notato con una certa sorpresa che la popolare guida annuale ai nuovi termini e concetti in uso nella società giapponese, Imidas, è uscita quest’anno con un volume allegato dal titolo Cosa fare nelle diverse situazioni: cinquantacinque lezioni di buone maniere per il mondo di oggi. Questo volume fornisce istruzioni dettagliate per il comportamento quotidiano: dal più basilare galateo che va osservato a tavola all’etichetta appropriata ai matrimoni, ai funerali e alle altre occasioni cerimoniali. Quel giornalista ha trovato sintomatico dei bisogni dell’epoca che un intero volume dovesse essere dedicato a simili questioni. Appena pochi decenni fa, la maggior parte delle conoscenze offerte da questo libro sarebbe stata assorbita naturalmente tramite le proprie interazioni con la famiglia e con la comunità locale. Sono pienamente d’accordo che sia davvero indicativo dello stato della società che essa abbia bisogno di venire spiegata così dettagliatamente in un libro.
La ragione per cui sto prendendo in esame i costumi sociali giapponesi è questa: credo fermamente che le contraddizioni e le patologie che possiamo osservare in Giappone condividano profonde radici con la più ampia patologia della civiltà contemporanea – le reazioni a catena della violenza che non mostrano alcun segno di diminuzione. Sia sul micro che sul macro livello, perdere di vista l’altro significa desensibilizzarsi profondamente ai sentimenti umani, ed è questa insensibilità che sta dietro l’apatia e il cinismo prevalenti nella società contemporanea.
Come ho cercato di evidenziare nella mia Proposta di due anni fa, c’è una profonda continuità tra il malessere che infetta i cuori di così tanti giovani e il freddo disimpegno della moderna guerra ad alta tecnologia. In particolare, sono preoccupato dall’impatto paralizzante di un genere di conflitto in cui una parte non subisce praticamente alcuna perdita mentre l’altra è devastata in una misura non quantificata ma chiaramente enorme.
L’esperimento degli Stati Uniti di portare libertà e democrazia all’Iraq è messo severamente alla prova dalla violenza e da continue spaccature. Bisogna chiedersi quanto onestamente ci si è posti la domanda di quale significato possa avere un appello ai “principi universali” dell’occidente per persone la cui etica e i cui valori scaturiscono da una diversissima serie di principi religiosi, in questo caso l’Islam. Detto in altre parole, c’è stato un pieno e rispettoso riconoscimento del popolo iracheno come “altro”?
Questa domanda, così vasta nelle sue implicazioni, può di fatto essere affrontata nell’immediatezza delle nostre vite quotidiane. È in questo ambito che possiamo fare il primo fondamentale passo. Per quanto apparentemente piccolo, questo passo non è una deviazione ma un progresso nella grandiosa impresa di ridefinire il corso e la direzione della civiltà.

PRIMI PASSI IMMEDIATI
Per costruire la pace mondiale la famiglia è importantissima: una famiglia che interagisce apertamente con la società produce individui indipendenti e creativi, capaci di affrontare le difficoltà. Infatti, nessun problema globale può essere risolto se non a partire dalla realtà imemdiata: per questo le azioni intraprese da ognuno per fare il primo passo sono di importanza cruciale

Nel marzo dello scorso anno il sottosegretario generale delle Nazioni Unite, Anwarul K. Chowdhury, è stato il principale relatore alla cerimonia di conferimento delle lauree della Soka University e del Soka Women’s College. In quell’occasione paragonò la partenza dei laureati per le loro carriere alla partenza dell’umanità per l’avventura della pace mondiale nel XXI secolo. All’inizio di quest’anno ho ricevuto dal sottosegretario Chowdhury un messaggio di buon anno in cui sottolineava l’importanza della famiglia nella costruzione della pace mondiale. Esprimendo la sua approvazione per la mia opinione che una famiglia che interagisce apertamente con la società produrrà individui indipendenti e creativi, capaci di affrontare le difficoltà, Chowdhury mi ha scritto: «Se le famiglie trasmettono ai bambini, fin dai primi anni di vita, il messaggio di una cultura di pace e i valori della tolleranza, della comprensione e del rispetto per la diversità, credo che nei prossimi decenni il mondo vedrà un concreto miglioramento delle nostre società tormentate dai conflitti e dalla violenza».
Queste parole assumono un ulteriore significato alla luce del fatto che sono state scritte da una persona impegnata a lavorare per la pace dalla prospettiva globale delle Nazioni Unite. Credo che esse riflettano la consapevolezza di Chowdhury riguardo ai seguenti punti: sebbene possa essere talvolta necessaria, in situazioni di emergenza, una risposta col potere duro, deve avere la preminenza l’uso del potere morbido che tocca l’essenza degli esseri umani; se non si coltiva la dimensione spirituale, la meta di una pace duratura resterà lontana; è nella famiglia, la più piccola e forse la più antica comunità umana, che questo cruciale lavoro deve essere intrapreso.
In un certo modo, credo che la medesima consapevolezza sia riflessa nelle parole di Katsushiko Oku, il diplomatico giapponese ucciso l’anno scorso in Iraq nell’adempimento delle sue funzioni. In una serie di articoli intitolati Lettere dall’Iraq Oku descrive le difficili sfide che l’Iraq ha di fronte. Ma scrive anche: «C’è speranza; essa va trovata negli occhi splendenti dei bambini… Quando guardo gli occhi splendenti dei bambini dell’Iraq, mi sento sicuro che per questo paese le cose si sistemeranno» [Iraku no yorokobu kodomotachi (Gli allegri bambini dell’Iraq), Serie Iraku dayori (Lettere dall’Iraq), 15 gennaio 2004].
Nei paesi devastati dal conflitto, come l’Iraq, la sfiducia e l’odio che traspaiono dagli occhi di così tanti adulti possono suscitare un senso di disperazione. Ma anche in questi casi gli occhi splendenti dei bambini sembrano gettare un raggio di speranza su situazioni che condensano gli aspetti più ostici della storia umana. È per questa ragione che dobbiamo concentrarci con rinnovata determinazione sull’educazione nel suo senso più ampio, cioè su tutti i luoghi e tutte le occasioni in cui i giovani vengono indirizzati e il loro spirito è stimolato e ravvivato.
Voglio qui ricordare le parole del mio mentore, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda (1900-1958), che fu spinto dal suo illimitato amore per i giovani a fare questo appello appassionato: «La nostra lotta esige che amiamo tutti gli esseri viventi. Tuttavia ci sono tanti giovani che sono incapaci di amare i loro stessi genitori. Come ci si può aspettare che si prendano cura di perfetti estranei? Lo sforzo di superare la freddezza e l’indifferenza nella nostra vita e di conseguire la stessa compassione del Budda è l’essenza della rivoluzione umana» (Toda Josei Zenshu, vol. 1, p. 58).

RIVOLUZIONE UMANA
È stato Josei Toda a utilizzare per la prima volta l’espressione “rivoluzione umana” per descrivere il processo di riforma interiore che induce la trasformazione positiva delle proprie circostanze e del proprio ambiente. Ciò che Toda voleva definire con questa espressione è l’ideale buddista di “Illuminazione”, un concetto che raramente è stato espresso in termini così concreti e accessibili.
Per Toda, la rivoluzione interiore è anche la sola via per determinare una riforma sociale duratura. Toda asseriva che il solo modo di progredire nello sradicamento del diffuso malessere sociale è che ogni individuo rivoluzioni la propria natura interiore. Il fondamento essenziale deve essere la trasformazione interiore che ha luogo nella vita di ogni essere umano e si espande costantemente all’esterno nella società.

L’amore e la compassione per tutti gli esseri viventi sono il supremo messaggio del Buddismo. Però la compassione, che è il cuore dell’amore universale per l’umanità, resterà un vuoto ideale irrealizzato a meno che non facciamo quel primo passo immediato, la semplice azione di amare i nostri genitori. «Se vuoi trovare l’acqua, scava sotto i tuoi piedi». Come indica questo proverbio, i continui sforzi quotidiani di fare quell’unico passo, per quanto possano sembrare insignificanti, in realtà abbracciano tutto.
In questo contesto, il passo è che il genitore e il figlio, basandosi sull’esistente affetto reciproco, si riconoscano l’un l’altro come individui distinti e autonomi e interagiscano schiettamente sulla base della loro reciproca “alterità”. In questo modo, la loro interazione diventa l’opportunità per educarsi e forgiarsi a vicenda. Questo fa della famiglia il punto di partenza da cui compiamo il primo passo nella comunità e verso il senso civico. Da qua il sentiero conduce a più ampi valori, come un sano amore per il proprio paese e l’amore universale per tutta l’umanità.
Oggi in tutto il mondo il senso spirituale regredisce e si ritrae, quasi in una sorta di melt-down [incidente che causa lo sprofondamento del materiale radioattivo nel sottosuolo, ndt]. Perciò le questioni globali della pace devono essere ripensate dalla prospettiva della realtà immediata della nostra vita. Qualunque tentativo di affrontare i problemi globali senza prendere pienamente in considerazione la nostra realtà immediata non costituirà mai una soluzione definitiva. In quest’ottica, credo fortemente nel valore delle azioni intraprese da ognuno di noi per fare il primo passo dal punto in cui ci troviamo proprio ora.

RECIDERE GLI ARTIGLI DELL’IMPULSO DEMONIACO
Nel 1957 Toda condanna le armi nucleari come un “male assoluto” che minaccia il diritto di esistere dell’umanità. Egli sottolinea così l’importanza di combattere il male fondamentale che si nasconde nella profondità degli esseri umani, operando una trasformazione dell’impulso distruttivo presente in ognuno. Ma per operare questa trasformazione si deve sviluppare una concreta e vivida consapevolezza dell’esistenza degli altri

Vorrei ora esaminare l’appello del mio mentore Josei Toda per l’abolizione delle armi nucleari, che egli lanciò nel settembre del 1957 per lasciare un imperituro messaggio all’umanità. A quel tempo la guerra fredda si stava intensificando; gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano intrapreso una corsa ai test atomici nel disperato sforzo di rendere le armi nucleari sempre più efficaci.
Toda fece la sua dichiarazione appena sette mesi prima di morire, durante una breve tregua della malattia che lo avrebbe portato alla morte. Per scrivere il testo della dichiarazione chiamò a raccolta ogni goccia della sua forza vitale, riversando tutto il suo essere in quello sforzo. La dichiarazione di Toda condanna le armi nucleari come un “male assoluto”, una minaccia al diritto collettivo di esistere dell’umanità, e affida ai giovani il compito di impegnarsi per la loro abolizione. «Oggi è sorto un movimento mondiale che invoca il bando degli esperimenti atomici. È mio desiderio spingermi oltre. Voglio mettere a nudo e recidere gli artigli nascosti nelle profondità di queste armi. Voglio dichiarare che chiunque utilizzi le armi nucleari, a qualunque paese appartenga, che sia tra i vincitori o tra i vinti, dovrebbe essere condannato a morte. La ragione è che noi, i cittadini del mondo, abbiamo l’inviolabile diritto di vivere. Chiunque minacci tale diritto è un demone, un Satana, un mostro» (ibidem, vol. 4, p. 565).
Il riferimento di Toda alla pena di morte intendeva mettere in evidenza l’inderogabile imperativo per i giovani di impegnarsi in una lotta spirituale assoluta per l’abolizione di queste armi apocalittiche e, di fatto, demoniache. Non dovrebbe perciò essere interpretato letteralmente. Piuttosto, Toda voleva sottolineare l’importanza di combattere ed eliminare il male fondamentale che si nasconde nella profondità della vita degli esseri umani. In termini buddisti questo male corrisponde all’impulso di manipolare e sfruttare gli altri a proprio vantaggio. È quest’impulso profondamente radicato che permette alle persone di usare, senza apparente scrupolo, armi che riducono istantaneamente in cenere un enorme numero di vite.
La dichiarazione di Toda cercava di smascherare la fallacia della teoria della deterrenza nucleare che veniva utilizzata per giustificare le armi nucleari come un male necessario. Questo forte ammonimento contro il totale disprezzo per la vita che giace al fondo di simili teorie mantiene ancora tutto il suo significato e il suo impatto. Oggi appare particolarmente rilevante che l’ammonimento di Toda, andando al di là delle ideologie politiche o militari, si concentri sulla più fondamentale dimensione della vita interiore dell’umanità.
L’inconsueta espressione “recidere gli artigli” dimostra una prospettiva, una perspicacia e una intuizione degne di nota. Essa indica la trasformazione della nostra vita interiore, dell’impulso distruttivo esistente in ognuno di noi. Per operare questa trasformazione dobbiamo sviluppare una concreta e vivida consapevolezza dell’esistenza degli altri e coltivare l’autocontrollo, la capacità di governare i nostri impulsi e i nostri desideri, nel contesto di tale consapevolezza. Questo, credo, è il vero significato dell’affermazione di Toda. In definitiva, ciò a cui vanno recisi gli artigli non è qualcosa di esterno a noi: la grandiosa e storica sfida di abolire le armi nucleari comincia con le azioni che intraprendiamo nell’interiorità della nostra stessa vita.
Dall’inizio della rivoluzione industriale, la civiltà moderna ha percorso una strada di progresso febbrile, sostenuto dagli strumenti del razionalismo scientifico. La forza propulsiva è stata il libero perseguimento dei desideri, l’illimitata inflazione dell’io superficiale. Nulla manifesta questo stato di cose più ferocemente delle armi nucleari, che incarnano la velleità di tenere la vita di tutti gli abitanti della Terra in ostaggio della volontà di predominio e degli interessi di sicurezza di determinati paesi. Esse sono il simbolo di una civiltà posta al servizio del desiderio, nata dalla fusione dello sviluppo tecnologico e degli scopi militari.
Come si può resistere a tutto ciò e trasformarlo? Credo che la chiave sia coltivare un’autentica consapevolezza degli altri, consapevolezza che a sua volta costituisce la base per lo sviluppo di virtù come la coscienza sociale e il senso civico.

IDENTITà E COMUNITà
Gli esseri umani, gli animali e persino la natura insenziente conservano il senso della loro separatezza e “alterità”, e allo stesso tempo sono intimamente connessi e reciprocamente legati all’interno della struttura di un destino condiviso. È solo entrando nella comunità e partecipandovi che gli individui possono raggiungere un solido senso di identità, situando la loro vita e la loro morte all’interno di un più vasto insieme che dà loro significato

Cento anni fa, quando il mondo era alla mercé dell’imperialismo e del colonialismo, il fondatore e primo presidente della Soka Gakkai, Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944) definì queste forze “egotismo nazionale”. Dichiarò anche: «Lo stato non esiste separato dall’individuo: lo scopo dello stato è soddisfare le aspirazioni che formano il contenuto del cuore degli individui» [Tsunesaburo Makiguchi, Jinsei chirigaku (Geografia della vita umana), vol. 5, Tokyo: Seikyo Shimbunsha, 1980, p. 27]. Affermò inoltre che l’obiettivo fondamentale sia degli individui che degli stati deve essere “la via dell’umanità” o l’umanitarismo, e questa via può essere percorsa solo compiendo azioni il cui scopo non è limitato alla propria felicità ma include la felicità degli altri (ibidem, p. 30).
Nella sua filosofia dell’educazione Makiguchi espresse una forte ammirazione per il pensatore americano John Dewey (1859-1952), e in questo contesto le idee di Dewey sulla natura dell’identità sociale come base per la democrazia sono interessanti. Nel suo libro Comunità e potere, Dewey cita la descrizione che W. H. Hudson fa della vita in un paese del Wiltshire (Inghilterra). «Ogni casa è il centro della vita umana e della vita di uccelli e animali, e i centri sono in contatto tra loro, uniti come una schiera di bambini tenuti per mano… Immaginai il caso del proprietario di una casa a un’estremità del paese al quale, mentre sta spaccando legna, cade accidentalmente l’accetta affilatissima su un piede, ferendolo gravemente. La notizia dell’incidente volerebbe di bocca in bocca fino all’altro capo del paese, a distanza di un miglio; non solo ogni abitante del villaggio verrebbe informato rapidamente, ma si formerebbe istantaneamente una vivida immagine mentale del proprio compaesano nel momento dell’incidente, con la scintillante e affilatissima accetta che gli cade sul piede e il rosso fiotto di sangue che sgorga dalla ferita; e contemporaneamente gli sembrerebbe di essersi ferito egli stesso e il suo organismo risentirebbe dello choc» [The Public and its Problems, (tit. ed. italiana Comunità e potere, London: George Allen & Unwin, 1927, pp. 40-41)].
Gli abitanti del paese non si limitano a recepire la notizia della disgrazia che ha colpito uno dei loro compaesani, ma la percepiscono e la vivono come un dolore condiviso e personale. Questa sensibilità e questa consapevolezza vitale sono il nucleo dell’identità sociale. È un tale travolgente senso della realtà che lascia una così forte impressione.
In una piccola comunità, come quella del paese del Wiltshire, non solo gli esseri umani ma anche gli animali e persino la natura insenziente conservano il concreto profilo della loro separatezza e della loro “alterità”, e allo stesso tempo sono intimamente connessi e reciprocamente legati all’interno della struttura di un destino condiviso. È solo entrando nella comunità e partecipandovi che gli individui possono raggiungere un solido senso di identità, situando la loro vita e la loro morte all’interno di un più vasto insieme che dà loro significato.
Dewey dichiara: «In una tale condizione di intimità, lo stato non ha pertinenza» (ibidem, p. 41).
Ciò ricorda in qualche modo due personaggi di due opere di Tolstoj, che si dice siano semiautobiografici: Olenin dei Cosacchi e Levin di Anna Karenina, entrambi intellettuali di città che vivono esperienze molto vicine alla rivelazione in cui le loro anime si elevano e si fondono con la vita di tutti gli esseri. [Ma ciò non dovrebbe essere scambiato erroneamente per un invito a un “ritorno alla natura” sulla falsariga di Rousseau (Jean-Jacques Rousseau, Lettre à Rey, le 9 mai 1762, in Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau. vol. X, Banbury: The Voltaire Foundation, 1972, p. 235), oggetto dello scherno di Voltaire: «Quando leggo le vostre opere, mi sento come se camminassi a quattro zampe». Come prova il fatto che Rousseau elaborò una teoria sociale della sovranità popolare, è impossibile eliminare tutto ciò che è artificiale e tornare veramente alla natura].
Ciò che Dewey stava esaminando nel suo libro era la natura delle virtù sociali e dell’interesse pubblico negli anni successivi alla prima guerra mondiale, quando le masse cominciarono ad avere pieno accesso al processo politico. Stava affrontando la questione di come effettuare – in un mondo in cui i villaggi e le altre comunità di piccole dimensioni erano state smantellate nel processo di creazione dello stato moderno – la trasformazione da una “grande società” (grande solo per dimensioni) a una “grande comunità”, i cui componenti si identificassero come membri di una “collettività”. E, come indica Dewey, è difficile se non impossibile creare questa grande comunità in assenza dei mezzi per preservare e trasmettere l’intimo senso di identità che è la base delle virtù civiche e dell’interesse pubblico nelle piccole comunità.
Dewey pensava che i mass media potessero giocare un ruolo chiave nel formare la grande comunità. Temo però che non ci voglia chissà quale riflessione per rispondere alla questione se i media abbiano svolto pienamente e adeguatamente questo ruolo negli anni trascorsi da quando Dewey enunciò queste idee. Benché la responsabilità di ciò non possa essere attribuita interamente ai media, personalmente credo che una cinica indifferenza verso gli altri sia diventata di gran lunga più diffusa di quanto non fosse ai tempi di Dewey. La sfida che Dewey ci ha indicato rimane ancora irrisolta, e semmai il problema è stato ereditato dalla nostra epoca in forma esacerbata.
In effetti, è stato ulteriormente aggravato dalle due principali correnti dei nostri tempi: la globalizzazione e la “virtualizzazione”, le tendenze intrecciate che stanno caratterizzando le società post-industriali. Negli ultimi anni c’è stata una reazione contro la globalizzazione provocata in gran parte dalla disparità dei suoi vantaggi, eccessivamente squilibrati a favore del suo principale fautore, gli Stati Uniti. Dal canto suo, invece, la diffusione e la penetrazione delle reti dell’informazione non mostrano segni di rallentamento. È sicuramente troppo presto per esprimere giudizi sul bilancio finale dei costi e dei benefici, degli aspetti positivi e di quelli negativi di tale fenomeno così vasto e complesso. Ma in ogni caso la rappresentazione virtuale della realtà sta chiaramente al centro della società dell’informazione, e sono le implicazioni di questo fatto che vorrei passare ora a esaminare.

LA DISCONNESSIONE DELLA REALTà VIRTUALE
I computer e le tecnologie della comunicazione non possono sostituirsi al contatto umano diretto, l’unico che costringe a confrontarsi davvero con se stessi. Solo il crudo senso della realtà e la capacità di rispondere in modo non mediato alla vita e al dolore possono rinfrescare l’opprimente mondo virtuale, e farci sentire come nostri le ferite e il dolore degli altri, sviluppando una sensibilità che rappresenta forse l’unico grande deterrente alla guerra

La tecnologia dell’informazione in rapida evoluzione ha ereditato tutti i valori della modernizzazione e impiega le lusinghe della comodità e dell’efficienza sia per soddisfare che per stimolare il desiderio. Un risultato è stato l’indebolimento di quelle strutture famiglia, comunità, luogo di lavoro, scuola, stato – dalle quali la società è stata tradizionalmente configurata. Le distanze fisiche che separano le persone hanno perso importanza grazie alla creazione di reti globali; gli eventi che si verificano dall’altra parte del pianeta entrano nelle nostre vite istantaneamente tramite i computer e la televisione. Ciò ha portato una vasta e largamente benefica espansione delle libertà di azione e di scelta in relazione alle merci e ai servizi, agli hobby e agli interessi, all’impiego e alla residenza. La scelta si sta sempre più estendendo alla composizione della famiglia e persino alla cittadinanza.
Dobbiamo anche essere consapevoli, però, delle insidie della virtualizzazione dalla quale gran parte di questa nuova libertà dipende.
La diffusione di Internet implica che il modo in cui l’informazione e la ricchezza vengono generate, trasmesse e sperimentate sta diventando sempre più virtuale. In un certo senso, ovviamente, l’informazione è virtuale per sua stessa natura. Analogamente, la funzione originale del danaro era quella di mezzo simbolico di scambio per le merci e i servizi prodotti dalle concrete attività economiche. Nella misura in cui, però, esso viene separato da tali attività e diventa oggetto di speculazione, i desideri si accrescono senza limiti e la resistenza e la stabilità, che sono le peculiari qualità della realtà, vanno perdute. Il risultato è un circolo vizioso di avidità sfrenata, poiché la ricerca di denaro genera ulteriore desiderio. Questa è la seduzione aggiuntiva della ricchezza virtuale.
Il solo contrappeso efficace è non perdere mai di vista il fatto che l’informazione e la ricchezza virtuali, benché possano integrare e arricchire la nostra esperienza della realtà, non possono sostituirla. I computer e le tecnologie della comunicazione non possono mai essere un sostituto, ad esempio, del reale contatto umano nel dialogo o dell’interazione diretta in una riunione o nell’istruzione scolastica. E, come scopre nella sua isola deserta e disabitata Robinson Crusoe, il protagonista dell’omonimo romanzo di Defoe, il denaro non può sostituire le merci e i servizi, né tanto meno la compagnia degli altri esseri umani.
La realtà virtuale è fondamentalmente incompatibile con un aspetto scomodo, addirittura doloroso – e tuttavia essenziale – dell’esperienza umana: la necessità, a cui ci costringono i nostri incontri con gli altri, di confrontarci con noi stessi, e la lotta interiore che ne consegue. Il Buddismo parla delle sofferenze gemelle di separarci da chi amiamo e di incontrare chi odiamo. L’efficienza e la comodità sono frequentemente viste come un mezzo per evitare tali difficoltà. C’è una certa ironia nel fatto che queste agevolazioni rendono in definitiva la vita moderna un ambiente inospitale per lo sviluppo dell’autocontrollo e del concomitante interesse per il bene pubblico.
Benché la società contemporanea sia fortemente dipendente dalla comunicazione e dalla tecnologia dell’informazione, essa è nondimeno composta e sostenuta dalle attività delle persone. L’ideale dell’epoca potrebbe essere una rete di “individui liberi” che hanno spezzato le catene dei vincoli e degli impacci tradizionali. Per essere autenticamente liberi, tuttavia, gli individui devono essere autonomi, disciplinati e fondati sulla realtà; devono essere capaci di formulare giudizi chiari senza essere sviati dal fiume di informazioni che si riversa su di loro. Ma queste sono le qualità più difficili da sviluppare in una società virtuale che offre agli individui scarse opportunità di allenarsi e temprarsi. Come si può risolvere questo dilemma?
La risposta, io credo, è vicina a noi ma richiede da parte nostra un approccio diverso e forse impopolare. È il crudo senso della realtà, la capacità di rispondere in modo non mediato alla vita e al dolore, che può alitare nuova vita in questo opprimente mondo virtuale. Se solo potessimo imparare, come i paesani del Wiltshire di Dewey, a sentire come nostri le ferite e il dolore degli altri…
Credo addirittura che questo genere di consapevolezza e di sensibilità rappresenti l’unico grande deterrente alla guerra.

INCONTRARE LA REALTà
:IMM:Senza tristezza non può esserci gioia, senza sofferenza non può esserci felicità. Nella società progettata per evitare la sofferenza e perseguire il piacere viene perduta la consapevolezza della responsabilità verso gli altri. La ricerca della verità nel Buddismo è motivata dal confronto con la sofferenza umana, e la vera felicità sorge solo quando si affronta la sofferenza degli altri come se fosse la propria

Il re Ashoka, noto come l’unificatore dell’antica India, visse il dramma interiore che riorientò completamente la sua vita verso la pace dopo avere assistito all’enorme orrore e alla morte provocati dalla guerra [Akira Sadakata, Ashokao den (Gli editti del re Ashoka), Kyoto: Hozokan, 1982]. Questa rivoluzione interiore, che trasformò gli anni restanti del suo lungo regno, avvenne perché la sua vita fu ricettiva alla realtà delle sofferenze che la sua decisione di invadere un paese confinante aveva causato. Credo che ognuno di noi possa, nel suo ambiente immediato e nelle sue relazioni personali, trovare simili opportunità di esercitare e sviluppare le possibilità di connessione empatica con le sofferenze degli altri.
Senza tristezza non può esserci gioia. Senza sofferenza non può esserci felicità. Su questo punto sono di grande interesse le osservazioni di Masahiro Morioka, professore di Scienze umane all’Università della prefettura di Osaka, sulla patologia di fondo della civiltà contemporanea. «La “civiltà indolore” – egli scrive – è una società permeata da strutture e meccanismi progettati per evitare la sofferenza e perseguire il piacere». Poiché questo tipo di civiltà è strutturata in modo tale da evitare la sofferenza, continua Morioka, di fatto ci deruba della possibilità di sperimentare la gioia della vita stessa. «Come conseguenza, finiamo per vivere un’esistenza vuota, circondati da soldi e da averi ma privi di gioia profonda» [Ron’en-Seimei no yorokobi wo torimodosu tameni zetsubo kuguri ajiwaeru aratana sekai (Far rinascere la gioia di vivere), Tokyo: Seykyo Shimbun, 1 genn. 2004].
In una società di questo tipo, è la consapevolezza della responsabilità verso gli altri che viene perduta. Per citare di nuovo il professor Morioka: «Coloro che sono riusciti ad anestetizzare meglio se stessi contro il loro stesso dolore sono meno capaci di sentire il dolore degli altri. Sono incapaci di sentire le grida degli altri e le ignorano senza nemmeno rendersi conto di averlo fatto» [Mutsu bunmeiron (La civiltà indolore), Tokyo: Transview Corp., 2003, p. 33]. Morioka scrive anche: «Quando si trovano in conflitto con gli altri, poiché non tentano nemmeno di modificare la propria cornice di riferimento, non è possibile alcun vero dialogo. Essi continuano ad affermare se stessi anche se ciò significa mettere gli altri da parte» (ibidem, p. 14).
Vivere in questo modo significa vivere sotto l’influenza di quello che il Buddismo definisce come l’impulso demoniaco di usare gli altri e di sottometterli alla propria volontà. Il professor Morioka guarda al potere della vita stessa – che può cambiare le persone dall’interno – come fonte dell’energia per superare questa impasse. Invoca il ringiovanimento della naturale vitalità umana come la più urgente delle priorità.
La questione definita dal professor Morioka è un tema centrale del Buddismo, simbolizzato dai cosiddetti “quattro incontri”, che secondo la tradizione hanno spinto Shakyamuni ad abbandonare gli attaccamenti terreni e a dedicarsi alla ricerca della verità. Come è noto, l’uomo che sarebbe diventato famoso nel mondo come il Budda era, per nascita, un principe del clan degli Shakya, nell’antica India. Egli visse una vita di agi, senza alcuna privazione, fino al giorno in cui un grande dubbio sorse dentro di lui:
«Benché sia nato ricco ed estremamente cortese e affabile, come puoi vedere, [un giorno] mi venne questo pensiero. Nella loro stupidità, i comuni mortali – sebbene essi stessi invecchieranno e non possano evitare la vecchiaia – quando vedono gli altri invecchiare e cadere in declino, ci riflettono e ne sono angosciati, e provano disagio e odio – tutto senza mai pensare a ciò come a un proprio problema. Nella loro stupidità, i comuni mortali – sebbene essi stessi si ammaleranno e non possano evitare la malattia – quando vedono gli altri ammalarsi, ci riflettono e ne sono angosciati, e provano disagio e odio – tutto senza mai pensare a ciò come a un proprio problema. Nella loro stupidità, i comuni mortali – sebbene essi stessi moriranno e non possano evitare la morte – quando vedono gli altri morire, ci riflettono e ne sono angosciati, e provano disagio e odio – tutto senza mai pensare a ciò come a un proprio problema» (Hajime Nakamura, Gotama budda 1, Tokyo: Kabushikigaisha Shunjusha, 1992, pp. 156-7).
La tradizione buddista sostiene che la decisione di Shakyamuni di cercare la verità fu motivata dal suo confronto con le realtà della sofferenza umana –le “quattro sofferenze” di nascita, vecchiaia, malattia e morte che sono intrinseche all’esistenza umana. Per Shakyamuni ciò implicava non solo l’impatto diretto di queste sofferenze sulla vita degli individui ma anche, e forse soprattutto, l’indifferenza, l’arroganza e la coscienza discriminatoria profondamente radicate che ci impediscono di sentire il dolore degli altri come nostro. Questo è ciò contro cui ci ammonisce la frase ripetuta «tutto senza mai pensare a ciò come a un proprio problema».
Perciò il punto di partenza della visione del mondo buddista è l’insistenza di Shakyamuni sul fatto che la vera felicità – la gioia che sgorga dalla profondità della vita – può essere sperimentata solo quando resistiamo all’impulso di allontanarci dalla sofferenza degli altri e invece la affrontiamo come se fosse la nostra. Tale felicità vive e respira solo quando consideriamo la sofferenza un’opportunità per forgiare e temprare la nostra vita interiore, e ci impegniamo alla dura ma remunerativa missione di lavorare per la felicità sia nostra che degli altri.
La civiltà contemporanea, determinata a evitare del tutto il dolore, ha cercato di ignorare la morte. Piuttosto che affrontare le inevitabili sofferenze di vita e morte, cerchiamo di gestirle e di controllarle con la biotecnologia e con le terapie mediche d’avanguardia. Tali tentativi, di per se stessi di grande valore, spesso avvengono a spese dell’ancor più essenziale sforzo di sviluppare modi di esistenza umana e sociale che permettano alle persone di confrontarsi con successo con queste sofferenze e di godere vite veramente realizzate.
Nel distogliere lo sguardo dalla morte, la nostra civiltà tenta di relegarla all’esterno considerandola “il problema di qualcun altro”, desensibilizzando così gli individui al dolore e alle sofferenze altrui. Non posso fare a meno di pensare che la fuga dell’umanità dal confronto personale con la morte ha fondamentalmente indebolito i freni contro la violenza. Il risultato è stato la carneficina delle due guerre mondiali e di innumerevoli conflitti regionali che hanno fatto del secolo scorso un’era di “megamorte”.
Questo è il più profondo significato della dichiarazione di Josei Toda per l’abolizione delle armi nucleari e della sua determinazione di “recidere gli artigli” delle forze che stanno dietro la loro produzione. Le armi nucleari sono la più orripilante manifestazione di una civiltà che tratta la morte come il problema di qualcun altro. Condannandone l’uso a tinte forti, Toda voleva combattere gli aspetti più oscuri della moderna civiltà allo scopo di trasformarla.
Proprio come l’infelicità non può mai essere strettamente limitata agli altri, così la felicità non è qualcosa che possiamo accaparrare o tenere solo per noi. Siamo di fronte alla sfida e all’opportunità di superare il nostro ristretto egotismo, di riconoscere noi stessi negli altri sentendo gli altri dentro di noi, e di sperimentare la più alta soddisfazione illuminandoci reciprocamente con lo splendore interiore delle nostre vite. È questa sfida che i membri della SGI, come praticanti buddisti, sono decisi ad affrontare.

UN MOVIMENTO PER L’EMPOWERMENT DELLA GENTE
La crisi irachena ha messo in luce l’incapacità delle Nazioni Unite di funzionare adeguatamente quando esiste una grave divisione tra i membri del Consiglio di sicurezza. Ciononostante, non esiste oggi un’organizzazione più universale dell’Onu, l’unica che può veramente fondare e legittimare la cooperazione internazionale. Dunque, in assenza di un’alternativa realistica, la cosa migliore è rafforzarla e renderla più efficace

Ora vorrei discutere specifiche misure mirate a costruire una società globale di pace e coesistenza in vista del 2005, un anno con molteplici significati in quanto segna il sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki e della fondazione delle Nazioni Unite.
Vorrei fare delle proposte nei tre seguenti ambiti:
1) il rafforzamento e la riforma dell’Onu;
2) il disarmo nucleare e il progresso verso l’abolizione delle armi nucleari;
3) l’espansione e il miglioramento della sicurezza umana.
Oltre al dibattito sull’uso della forza militare, la crisi irachena ha messo in luce l’incapacità delle Nazioni Unite di funzionare adeguatamente quando esiste una grave divisione tra i membri del Consiglio di sicurezza. Nel pieno della profonda preoccupazione per questa situazione, su iniziativa del segretario generale Kofi Annan è stato varato il Comitato di alto livello sulle minacce, le sfide e il cambiamento, che si è riunito per la prima volta nel dicembre del 2003. Il suo mandato include i seguenti compiti: esaminare le attuali sfide alla pace e alla sicurezza; considerare il contributo che un’azione collettiva può dare nell’affrontare queste sfide; rivedere il funzionamento dei principali organi dell’ONU e la relazione tra essi; suggerire modalità di rafforzamento delle Nazioni Unite attraverso una riforma delle sue istituzioni e dei suoi processi. I risultati delle deliberazioni del comitato devono essere riferiti al segretario generale in dicembre, prima della fine della sessione ordinaria dell’Assemblea generale.
Il presidente del comitato è l’ex primo ministro tailandese Anand Panyarachun. Nell’ottobre del 2000 ho incontrato Panyarachun a Tokyo e abbiamo discusso le prospettive per le Nazioni Unite nel XXI secolo. Rilevandone gli inevitabili limiti in quanto organismo collettivo di stati sovrani, Panyarachun osservò che l’organizzazione era efficace nell’esatta misura in cui gli stati membri desideravano che lo fosse. Sottolineò tuttavia che la sua esistenza dovrebbe essere considerata una fonte di speranza in quanto innegabilmente sta rendendo il mondo un luogo migliore. Condivido pienamente la sua opinione.
Ci sono, in certi settori, persistenti dubbi sull’efficacia o addirittura sulla necessità delle Nazioni Unite. Alcuni aspetti dell’organizzazione, come essa è ora, possono in effetti risultare incompatibili con le realtà del mondo attuale. Ma con i suoi 191 stati membri non esiste un’organizzazione più universale dell’ONU; è l’unico organismo che può veramente fondare e legittimare la cooperazione internazionale. In assenza di un’alternativa realistica, la cosa migliore è rafforzarla e renderla più efficace. La SGI ha cercato di farlo generando un sostegno di base alle Nazioni Unite su scala mondiale.
Allo scopo di riflettere sulla crisi irachena e imparare pienamente le lezioni che essa ha fornito, sarà necessario sviluppare nuovi sistemi e nuove procedure che possano essere messe in opera quando la comunità internazionale dovrà nuovamente affrontare decisioni difficili. Ma qualunque forma prendano, è chiaro che l’ONU deve continuare a essere il cardine della solidarietà internazionale.

1. La riforma delle Nazioni Unite
Vorrei avanzare due proposte per una riforma istituzionale delle Nazioni Unite e suggerire alcune idee volte a creare un ambiente più positivo per il loro efficace funzionamento.
Per prima cosa, l’impegno per il rafforzamento dell’organizzazione dovrebbe incardinarsi sull’accrescimento dell’autorità dell’Assemblea generale.
Nella Carta delle Nazioni Unite, il ruolo primario per il mantenimento della pace e della sicurezza è attribuito al Consiglio di sicurezza, il solo organismo le cui decisioni sono legalmente vincolanti per gli stati membri (articoli 24-25). Di fatto, però, quando i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza non riescono a raggiungere un accordo, il potere di veto loro accordato impedisce al Consiglio di adempiere le sue funzioni.
Allo scopo di superare i limiti del Consiglio di sicurezza, è essenziale aumentare i poteri dell’Assemblea generale, rafforzandone sia le strutture che le attività.
La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che in tema di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale l’Assemblea generale è subordinata al Consiglio di sicurezza. Ma come sede mondiale di dialogo aperta a tutti gli stati membri, l’Assemblea generale è l’unico organo effettivamente rappresentativo dell’opinione mondiale. Esiste un precedente che permette all’Assemblea generale di riunirsi in sessione straordinaria di emergenza ed emettere raccomandazioni per gli stati membri quando il Consiglio di sicurezza non riesce ad adempiere il proprio compito a causa, ad esempio, dell’esercizio del diritto di veto. Questo precedente è stato stabilito dalla risoluzione “Unirsi per la pace” adottata dall’Assemblea generale nel 1950, che permette la convocazione di sessioni straordinarie di emergenza dell’Assemblea col voto di nove membri del Consiglio di sicurezza o della maggioranza degli stati membri.
Nel XXI secolo, le Nazioni Unite devono essere capaci di rappresentare pienamente e di rispecchiare le opinioni della comunità internazionale nella ricerca dei mezzi più appropriati per la soluzione dei problemi. La pratica di tenere sessioni straordinarie di emergenza dell’Assemblea generale dovrebbe essere incoraggiata, e dovrebbero essere stabiliti dispositivi attraverso i quali le deliberazioni dell’Assemblea possano essere recepite dal Consiglio di sicurezza, particolarmente nel caso in cui quest’ultimo si trovi a un punto morto in una questione che implica l’utilizzo di misure coercitive. Questo meccanismo fornirebbe una più ampia base per la decisione delle difficili risoluzioni necessarie per far fronte ai nuovi tipi di minacce alla pace emerse negli ultimi anni. Nel dicembre del 2003 l’Assemblea generale ha unanimemente adottato una risoluzione che richiede provvedimenti per «aumentare l’efficienza e l’efficacia dell’organismo ed elevarne il livello di visibilità, affinché le sue decisioni possano avere un maggiore impatto» (Revitalization of the Work of the General Assembly, Risoluzione adottata dall’Assemblea generale, A/RES/58/126, New York: United Nations, 19 Dic. 2003).
La forza e l’autorità dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sta nella sua capacità di costruire il consenso all’interno della comunità internazionale. Se è ovvio che le misure per contrastare le minacce alla pace e alla sicurezza debbano essere efficaci, ancor più vitale è che tali misure abbiano una riconosciuta legittimità, che a sua volta è il fondamento del “potere morbido”.
La mia seconda proposta per una riforma istituzionale concerne la necessità di coordinare e integrare le strategie e le attività delle agenzie delle Nazioni Unite che forniscono differenti forme di sostegno alle popolazioni e alle società coinvolte in un conflitto violento. Il coordinamento e l’integrazione devono coprire l’intero processo, dall’inizio del conflitto fino alle attività di costruzione della pace a conflitto concluso.
Recentemente, la mancanza di coordinamento delle attività di soccorso umanitario in situazioni di conflitto è stata identificata come un grave problema. La necessità di eliminare tale frammentarietà è stata sottolineata nel rapporto conclusivo della Commissione sulla sicurezza umana, intitolato Human Security Now (Sicurezza umana ora) e pubblicato nel maggio del 2003. Il rapporto afferma: «Concentrando l’attenzione sulla protezione delle persone piuttosto che sull’adesione ai mandati istituzionali, deve essere superata l’attuale divisione tra numerosi attori scoordinati» (Human Security Now, New York: Commission on Human Security, 2003, p. 134).
Il rapporto sostiene anche che tutti gli attori dovrebbero operare sotto una dirigenza unificata e concentrarsi sui bisogni delle popolazioni e delle società afflitte dalle devastazioni causate dal conflitto. «La responsabilità di proteggere le popolazioni in conflitto deve essere accompagnata dalla responsabilità della ricostruzione, particolarmente dopo un intervento militare internazionale. La misura del successo non è la cessazione del conflitto, ma la qualità della pace che si costruisce dopo il conflitto» (ibidem, p. 136).
C’è un crescente bisogno di sviluppare una struttura globale per le attività di soccorso umanitario e di ricostruzione in risposta a conflitti di natura sempre più complessa. Credo che all’interno delle Nazioni Unite dovrebbe essere creato un organismo che assuma in questo settore la direzione effettiva a livello internazionale. Specificamente, il Consiglio di amministrazione fiduciaria, che ha sospeso le attività, potrebbe essere ricostituito come un “consiglio di ripristino della pace” e adempiere questa responsabilità. Quest’idea elabora ulteriormente un suggerimento già avanzato nella mia Proposta del 1995, dove avevo esortato ad attribuire al Consiglio di amministrazione fiduciaria un nuovo ruolo di protezione culturale ed etnica nelle aree di conflitto, in stretta collaborazione con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Alto commissariato per i diritti umani. Incorporando alcune di quelle funzioni, il “consiglio per il ripristino della pace” potrebbe farsi carico, come sua primaria responsabilità, di promuovere e coordinare l’intero insieme di attività che vanno dal soccorso umanitario alla costruzione della pace dopo il conflitto. Portando avanti il suo mandato, questo consiglio dovrebbe mantenersi in costante comunicazione con tutti i paesi colpiti. Per assicurare un alto livello di trasparenza e credibilità, dovrebbe anche inviare a tutti i paesi coinvolti regolari rapporti sullo stato di avanzamento delle attività.
Allo scopo di rafforzare le Nazioni Unite sono importanti l’impegno e il sostegno delle popolazioni almeno quanto gli sforzi degli stati membri. L’organizzazione delle Nazioni Unite è da anni a corto di denaro, ed è necessario il sostegno in un’ampia gamma di settori.
Si sono avuti, ovviamente, sviluppi positivi. Per esempio, nel febbraio 2003 è stato formato dal segretario generale un gruppo di eminenti personalità col compito di discutere sui rapporti tra la società civile e le Nazioni Unite. Presieduto dall’ex presidente del Brasile Fernando Enrique Cardoso e impegnato in un “processo consultivo aperto e trasparente”, il gruppo sta lavorando per compilare una relazione su come rendere più significative le interazioni tra la società civile e le Nazioni Unite.
Accogliendo favorevolmente questi sviluppi, credo che essi potrebbero essere ulteriormente incoraggiati da un “forum dei popoli delle Nazioni Unite”, un vertice dei rappresentanti delle ONG e della società civile da tenere ad esempio nel 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione delle Nazioni Unite. Facendo seguito al Forum del Millennio delle ONG tenutosi nel 2000, un secondo incontro di questo genere potrebbe aiutare a rafforzare la capacità delle Nazioni Unite di contribuire alla pace nella nuova era.
Il Centro di ricerca di Boston per il XXI secolo, un istituto internazionale per la pace da me fondato nel 1993, sostenne le Nazioni Unite durante il cinquantesimo anniversario della loro fondazione, nel 1995 conducendo una serie di dialoghi sulle raccomandazioni emanate dalla Commissione sul governo globale. La pubblicazione di questi dialoghi, in un volume intitolato A People’s Response to Our Global Neighborhood (Una risposta della gente al nostro quartiere globale), fu seguita da due seminari presso le Nazioni Unite specificamente mirati a discutere l’idea della commissione di indire un forum della società civile. La SGI e le sue istituzioni affiliate sono impegnate a costruire una solidarietà globale tra i popoli e a sostenere le Nazioni Unite attraverso attività come la ricerca d’équipe o l’organizzazione di simposi e di forum pubblici.
Per completare questi suggerimenti per la riforma delle Nazioni Unite vorrei sottolineare, come contromisura centrale al terrorismo, anche l’importanza di costruire un ambiente mondiale in cui il conflitto venga risolto attraverso lo strumento del diritto.
Passi importanti in questa direzione sono già stati fatti. Per esempio, all’interno delle Nazioni Unite è stato formato il comitato antiterrorismo sulla base della Risoluzione 1373 del Consiglio di sicurezza, adottata nel settembre del 2001. E nel giugno 2003, durante il vertice G8 di Evian, in Francia, è stato creato il gruppo d’azione antiterrorismo allo scopo di aiutare le attività del comitato antiterrorismo.

ANTITERRORISMO
Il Comitato antiterrorismo (CTC: Counter-Terrorism Committee) è stato creato nel settembre del 2001 per monitorare l’attuazione della Risoluzione 1373 del Consiglio di sicurezza, che chiede agli stati membri di combattere il terrorismo e li incoraggia a cooperare per prevenire e sopprimere il finanziamento e il sostegno al terrorismo, oltre che a rafforzare le loro strutture giudiziarie per agire contro i perpetratori di atti terroristici.
Il Gruppo d’azione antiterrorismo (CTAG: Counter-Terrorism Action Group) è un’iniziativa del G8 per espandere e coordinare l’addestramento e l’assistenza (quest’ultima focalizzata in particolare sull’aiuto finanziario) per quei paesi con “la volontà ma non la capacità” di combattere il terrorismo, specialmente nei seguenti settori critici:
– finanziamento dei terroristi
– dogane e controlli sull’immigrazione
– traffico illegale d’armi
– polizia e imposizione della legge

La prevenzione del terrorismo richiede di migliorare il funzionamento e l’efficacia dei sistemi giudiziari di tutti i paesi. Una fattiva collaborazione internazionale è essenziale per sostenere gli sforzi delle singole nazioni, e gli organi descritti sopra possono giocare un ruolo chiave. È di cruciale importanza creare – attraverso una rete di cooperazione internazionale e con una particolare enfasi sulle misure preventive – le condizioni in cui il terrorismo possa essere contrastato ed eliminato.
In questo processo il Tribunale penale internazionale (International Criminal Court, ICC) deve avere un ruolo centrale. Varato ufficialmente nel marzo del 2003 col giuramento dei suoi giudici, è l’unica sede internazionale di giustizia dove è possibile processare gli individui per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità. È importante aumentare il numero degli stati che vi aderiscono e incoraggiarne l’effettivo funzionamento.
Il Tribunale penale internazionale può aiutare a interrompere i cicli di odio e violenza che scatenano la guerra e il terrorismo, e può contribuire a creare una cultura della legalità internazionale che sostenga la risoluzione dei conflitti tramite il ricorso al diritto piuttosto che alla forza. Per l’efficacia di tale organismo sono cruciali la credibilità e l’universalità, e in questo senso è auspicabile la più ampia partecipazione possibile. Nel suo ruolo di ONG, la SGI si sforzerà di sviluppare una vasta base di sostegno mondiale per il Tribunale attraverso diverse attività volte a farne conoscere all’opinione pubblica l’esistenza e il potenziale.
In seguito allo sconvolgente attacco terroristico dell’agosto del 2003 al quartier generale delle Nazioni Unite a Bagdad, il Consiglio di sicurezza ha adottato una risoluzione che esprime una forte condanna degli atti terroristici contro il personale delle Nazioni Unite e gli operatori umanitari nelle zone di guerra, identificando questi atti come crimini di guerra. Dovrebbe essere stabilito anche il principio di giudicare questi odiosi crimini in una sede giudiziaria internazionale come il Tribunale penale internazionale. Non dovremmo sottovalutare il potenziale deterrente di simili misure.
In connessione con queste iniziative è necessario rafforzare il Diritto umanitario internazionale, nato per definire il comportamento legalmente accettabile dei combattenti nel corso di una guerra. Ciò è fondamentale per rispondere ai nuovi tipi di conflitto, come le guerre civili che si estendono al di là dei confini tra nazioni, e per garantire che le misure antiterrorismo siano attuate in accordo con lo spirito del diritto umanitario.

DIRITTO UMANITARIO INTERNAZIONALE
Il Diritto umanitario internazionale (IHL: International Humanitarian Law) è il corpo di norme che, in tempo di guerra, protegge le persone che non partecipano o non stanno più partecipando alle ostilità. Il suo scopo centrale è limitare e prevenire le sofferenze umane nel corso di un conflitto armato. Le norme devono essere osservate non solo dai governi e dalle loro forze armate, ma anche dai gruppi armati di opposizione e da qualunque altro gruppo che prenda parte al conflitto. Le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i loro due Protocolli aggiuntivi del 1977 sono i principali strumenti del diritto umanitario internazionale. Tra gli ambiti coperti ci sono la protezione delle popolazioni civili e il trattamento dei feriti, dei malati e dei naufraghi, oltre quello dei prigionieri di guerra.

2. Disarmo nucleare e abolizione delle armi nucleari
Ora vorrei discutere le prospettive per la riduzione e la definitiva eliminazione degli arsenali atomici dal pianeta.
Nel dicembre del 2003 il governo dell’Iran ha firmato un protocollo aggiuntivo con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica che garantisce agli ispettori dell’Agenzia un più ampio diritto di accesso. Nello stesso mese, la Libia ha concordato la dismissione dei suoi programmi di sviluppo e fabbricazione di armi di distruzione di massa, comprese le armi nucleari. Ha anche acconsentito a una immediata ispezione da parte di un team internazionale.
Se tali notizie rappresentano un enorme progresso nella non proliferazione nucleare, l’eliminazione totale della minaccia delle armi nucleari dal mondo resta purtroppo una prospettiva lontana. Sono convinto che per arrivare a una svolta duratura sia vitale spostare l’attenzione dalla non proliferazione – l’oggetto principale delle discussioni di questi ultimi anni – alla riduzione e alla finale abolizione.
Ovviamente, sostenere i regimi di non proliferazione resta un prerequisito per qualunque progresso verso il disarmo nucleare. È per questo che ho ripetutamente chiesto che entri in vigore il prima possibile il Trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari (CTBT), il cui testo è stato definito nel 1996. All’interno del regime di verifiche del CTBT si sta sviluppando un sistema di monitoraggio internazionale, e si dice che una volta che esso diverrà pienamente operativo non sarà più possibile nascondere la realizzazione di test nucleari.

RATIFICA E VERIFICA DEL CTBT (COMPREHENSIVE TEST BAN TREATY)
Il CTBT (Trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari) mette al bando i test nucleari e qualunque altra esplosione nucleare in qualunque ambiente. Per entrare in vigore, il CTBT deve essere firmato e ratificato dai 44 stati che hanno formalmente partecipato ai lavori della sessione della Conferenza sul disarmo del 1966 e che possiedono reattori nucleari di potenza o di ricerca: questi stati sono chiamati gli stati Annex 2.
Fino ad ora, 41 dei 44 stati Annex 2 hanno firmato il CTBT e 32 lo hanno ratificato. I 9 stati Annex 2 che hanno firmato il trattato ma non lo hanno ratificato sono: Cina, Colombia, Congo, Egitto, Indonesia, Iran, Israele, Stati Uniti d’America e Vietnam. I 3 stati Annex 2 che non hanno né firmato né ratificato il trattato sono: India, Corea del Nord e Pakistan.

Il regime di verifica del CTBT è inteso a monitorare l’ottemperanza del Trattato e consiste di:
– un sistema di monitoraggio internazionale (IMS: International Monitoring System)
– un processo di consultazioni e chiarimenti
– ispezioni in loco
– misure di costruzione della fiducia
L’IMS comprende una rete di 16 laboratori e 321 stazioni di monitoraggio, di cui 83 erano operative entro la fine del 2003. Le stazioni monitorano il pianeta per cercare le eventuali prove di esplosioni nucleari in tutti gli ambienti. Il sistema usa quattro metodi di verifica: rilevazioni sismiche, idroacustiche e a infrasuoni per monitorare rispettivamente gli ambienti sotterraneo, subacqueo e atmosferico, e la rilevazione di radionuclidi per scoprire l’eventuale presenza di detriti radioattivi dovuti a esplosioni atmosferiche o rilasciati in seguito a esplosioni nucleari sotterranee o subacquee. Una volta divenute operative, le stazioni dello IMS, attraverso un’infrastruttura di comunicazione globale, trasmettono i dati al Centro dati internazionale, dove vengono analizzati.

Sono passati più di sette anni da quando è stato adottato il CTBT. Mentre il trattato langue in attesa di entrare in vigore, la paura della ripresa di test nucleari è cresciuta. L’anno scorso, per esempio, il governo degli Stati Uniti ha stanziato fondi per la ricerca sulle armi nucleari di bassa potenza capaci di penetrare il terreno.
Nel luglio del 2003 il CTBT è stato ratificato dall’Algeria, uno degli stati la cui ratifica era necessaria per l’entrata in vigore. L’opinione pubblica internazionale deve essere mobilitata per assicurare che i restanti dodici stati, compresi gli Stati Uniti, ratifichino il trattato il prima possibile.
Passando a un tema collegato, è necessario formalizzare in un sistema mondiale gli accordi dell’Assicurazione negativa di sicurezza con cui gli stati che possiedono armi nucleari si sono impegnati a non utilizzarle contro gli stati non nucleari.
Passi come questi, intrapresi con serietà, incarnano lo spirito di autocontrollo che, come ho già detto precedentemente, costituisce l’essenza del comportamento civile. Dimostrare questo spirito concretamente, in modo tale che i popoli di tutta la Terra possano capirlo e apprezzarlo, sarebbe il più potente deterrente contro la guerra e il terrorismo. Nulla sarebbe più utile per la creazione di un sistema stabile di non proliferazione; ciò promuoverebbe meglio la credibilità e l’efficacia dei trattati per il disarmo nucleare, nonché il buon fine degli impegni di vecchia data presi dagli stati nucleari.
L’obiettivo primario del Trattato di non proliferazione nucleare (NPT) è la prevenzione della diffusione delle armi nucleari. Non possiamo, tuttavia, trascurare il fatto che l’NPT ha più firmatari di ogni altro trattato sugli armamenti nucleari per la precisa ragione che il suo testo richiede specificamente alle nazioni nucleari di condurre negoziati in buona fede finalizzati all’eliminazione dei loro arsenali nucleari (Articolo VI).
Nel 1995, in occasione della decisione di estendere il trattato indefinitamente, sono stati adottati due documenti intitolati rispettivamente “Consolidare il processo di revisione del Trattato” e “Principi e obiettivi per la non proliferazione e il disarmo nucleare” (Strengthening of the United Nations: An Agenda for Further Change, Rapporto del Segretario generale. A/57/387. New York: United Nations. 9 Sett. 2002). Questo rafforzamento della struttura per il disarmo deve essere visto come una manifestazione della forte volontà della comunità internazionale.
Nella mia Proposta dello scorso anno ho suggerito che dal momento che il 2005 – anno in cui è fissata la prossima Conferenza per la revisione dell’NPT – segna il sessantesimo anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, venga indetta in quell’anno una sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dedicata all’abolizione delle armi nucleari, alla quale partecipino i capi di stato e di governo. Ho anche caldeggiato la formazione di una nuova agenzia specializzata delle Nazioni Unite che abbia come proprio mandato l’esame della questione del disarmo nucleare.
Il documento finale adottato dalla Conferenza per la revisione dell’NPT del 2000 auspica una «inequivocabile iniziativa degli stati nucleari per realizzare la totale eliminazione dei loro arsenali nucleari» (2000 Review Conference of the Parties to the Treaties on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons. Final Document. NPT/CONF.2000/28). Chiede anche «il più pronto e appropriato impegno di tutti gli stati nucleari nel processo verso la totale eliminazione dei loro arsenali nucleari». La gravità di questi impegni deve essere tenuta in mente e bisogna fare ogni sforzo per realizzarli.
Il primo passo deve essere che i cinque stati nucleari dichiarati – che sono anche i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza – adempiano le loro responsabilità verso tutti i firmatari dell’NPT iniziando negoziati in buona fede per raggiungere il disarmo nucleare. Sono convinto che l’accordo di questi cinque stati nel dare vita a negoziati in vista della Conferenza per la revisione dell’NPT del 2005, o della sessione speciale dell’Assemblea generale che sto proponendo, offrirebbe un’ancora di salvezza, una via per superare l’attuale impasse. Raccomando quindi con forza che questi paesi inizino a elaborare una concreta agenda per l’abolizione delle armi nucleari.
Vorrei infine anche accennare ai timori che la Corea del Nord stia sviluppando armamenti nucleari, timori che si sono intensificati da quando, nel dicembre 2002, il paese annunciò la decisione di riattivare i suoi apparati nucleari. Nell’agosto del 2003 a Pechino si sono svolti negoziati tra sei nazioni: Stati Uniti, Russia, Cina, Corea del Sud, Corea del Nord e Giappone.
Benché non sia stato fatto alcun progresso concreto, le parti hanno raggiunto il consenso su un certo numero di punti, elencati nella sintesi pubblicata dal paese ospitante, la Cina. La sintesi evidenzia la volontà comune di «risolvere il problema nucleare pacificamente attraverso il dialogo, mantenere la pace e la stabilità nella penisola coreana e aprire la strada per la pace permanente» e di «non intraprendere azioni, nel corso della risoluzione pacifica della questione, che possano originare una escalation» (MOFA, Ministero degli Affari Esteri del Giappone, “Six-Party Talks on North Korea Issues”).
La decisione di tenere ulteriori negoziati è stata rimandata, e sebbene nel gennaio di quest’anno la Corea del Nord sia arrivata ad accettare una delegazione americana non ufficiale e a permettere l’ispezione dei propri apparati nucleari, sostanzialmente si sono fatti pochi progressi. Per il Giappone, la questione del rapimento di cittadini giapponesi da parte di agenti segreti nordcoreani nel passato non può essere elusa o ignorata. Tuttavia, è importante che tutte le nazioni coinvolte abbiano un approccio positivo e creino delle strutture per il dialogo multilaterale che è finalmente iniziato, aderendo strettamente allo spirito espresso dalla sintesi del loro primo incontro.
Da parte mia, oltre che sperare in un prossimo inizio di una seconda fase di negoziati tra i sei paesi, credo che dovremmo aver cura di istituire una struttura formale per tali negoziati, come solido veicolo per la costruzione della fiducia nella penisola coreana e nel Nordest asiatico. Come obiettivo a lungo termine dovremmo mirare alla formazione di un organismo regionale – un’Unione del Nordest asiatico – con il più immediato obiettivo di creare una regione del Nordest asiatico denuclearizzata.

3. Sicurezza umana
:IMM:La terza sfida che voglio analizzare è quella dell’espansione e del miglioramento della sicurezza umana.
Il concetto di sicurezza umana è emerso negli ultimi anni dallo sforzo di ripensare la tradizionale nozione di sicurezza. È un nuovo approccio centrato sulla sicurezza delle persone piuttosto che degli stati. Prende in esame non solo le minacce costituite dalle forme dirette di violenza come la guerra, il terrorismo e la criminalità, ma anche la povertà e l’inquinamento dell’ambiente, la violazione dei diritti umani, la discriminazione e la mancanza di accesso all’istruzione e alla sanità. Questi sono tutti aspetti che influenzano seriamente la sicurezza e la dignità degli esseri umani.
Nel suo messaggio di Capodanno, il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha avvertito che la guerra in Iraq ha distolto il mondo dall’affrontare le minacce che uccidono «milioni e milioni di persone ogni anno» come la povertà estrema e la fame, il forzato consumo di acqua non potabile, il degrado ambientale e le malattie infettive. Si è appellato ai leader del mondo perché il 2004 sia «l’anno in cui cominciamo a invertire la rotta» (Secretary-General’s Message for New Year, 2004, Press Release. SG/SM/9095. New York: United Nations. 24 Dec. 2003).
Dal momento in cui, nel 1994, il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha delineato per la prima volta il concetto di sicurezza umana, il riconoscimento della sua importanza è cresciuto costantemente. Il 2001 ha visto la formazione della Commissione sulla sicurezza umana, che nel rapporto Human Security Now, già citato sopra, esamina l’evoluzione del concetto di sicurezza umana definendola come «la protezione delle libertà fondamentali, cioè delle libertà che sono l’essenza della vita» e «la protezione degli individui dalle minacce e dalle situazioni critiche e pervasive» (MOFA, Ministero degli Affari Esteri del Giappone, “Six-Party Talks on North Korea Issues”, p. 4).
Ciò che trovo particolarmente interessante di questo rapporto è che identifica l’empowerment come una delle due chiavi, insieme alla protezione, per la realizzazione della sicurezza umana. Esso sottolinea l’importanza di sviluppare la forza e le capacità innate degli esseri umani, mettendoli in grado così di trovare la loro felicità mentre contribuiscono alla società: «La capacità delle persone di agire a proprio favore – e a favore degli altri – è la seconda chiave per la sicurezza umana. Sostenere questa capacità differenzia la sicurezza umana dalla sicurezza degli stati, dall’assistenza umanitaria e persino da gran parte dell’assistenza allo sviluppo. L’empowerment è importante perché le persone sviluppino il loro potenziale come individui e come comunità» (ibidem, p. 11).
Questa affermazione riecheggia la mia convinzione che lo sforzo di creare valori nuovi e positivi all’interno della società, agendo per il bene degli altri, sia l’indistruttibile fondamento della pace.
Come ho messo in evidenza in varie occasioni – e anche nella prima parte di questa Proposta – credo che l’educazione debba essere il fulcro degli sforzi per estendere la sicurezza umana.
A quanto risulta, oggi nel mondo ci sono 860 milioni di analfabeti e 121 milioni di bambini non hanno accesso all’istruzione (United Nations Literacy Decade: Education for All, A/RES/56/116, New York: United Nations, 18 Jan. 2002). La campagna “Educazione per tutti”, condotta dall’UNESCO, mira a realizzare un’istruzione universale di base attraverso concrete tappe di avanzamento. L’anno scorso era anche l’inizio del “Decennio dell’alfabetizzazione” delle Nazioni Unite (2003-2012).
L’alfabetizzazione apre le porte alla conoscenza, mette in grado le persone di sviluppare le loro capacità innate e di attuare il loro potenziale. Aumentare il tasso di alfabetizzazione tra le donne, che corrispondono ai due terzi del totale delle persone analfabete, ed estendere l’accesso delle bambine all’istruzione primaria sarebbe indubbiamente un potente mezzo per migliorare la vita non solo delle donne ma anche delle loro famiglie e delle loro comunità.
Lo stato dei bambini del mondo 2004, pubblicato dall’UNICEF nel dicembre 2003, ammonisce che nessuno degli obiettivi mondiali di sviluppo può essere raggiunto senza un progresso nell’educazione delle bambine, e invoca una riforma urgente delle attività internazionali per lo sviluppo. La mancanza di fondi ha fatto sì che molti paesi siano rimasti indietro nell’iniziativa per l’istruzione primaria universale, e questo è un ostacolo che bisogna eliminare attraverso la cooperazione internazionale.
Secondo stime delle Nazioni Unite e della Banca mondiale, l’obiettivo di realizzare l’istruzione primaria per tutti entro l’anno 2015 potrebbe essere raggiunto se la spesa militare mondiale di soli quattro giorni fosse devoluta annualmente all’istruzione (Human Security Now, New York: Commission on Human Security, 2003, pp. 117-8).
L’istruzione primaria universale è uno degli otto Obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite. Credo che per progredire verso quest’obiettivo sia necessario creare un “fondo per l’istruzione primaria globale” come perno di una maggiore cooperazione internazionale a livello economico.
Insieme a queste iniziative per assicurare a tutti l’istruzione di base, l’educazione ai diritti umani è una pietra angolare della campagna per costruire un mondo senza guerre.
Il defunto Norman Cousins (1915-1990), che conoscevo personalmente e con il quale ho scritto un libro, affermò nella sua opera Le opzioni umane: «Un atteggiamento noncurante verso il dolore e la sofferenza degli esseri umani è il segno più certo del fallimento educativo» (Human Options, New York: W&W Norton & Company, 1981, p. 30). Come ammoniva il saggio giornalista americano, il prezzo del fallimento collettivo nell’educazione intesa in senso lato è il risentimento e il potenziale per il conflitto. In molte società le tensioni covano sotto la superficie, pronte a manifestarsi come aperta violenza specialmente quando sono esacerbate dalla recessione economica e dalla crescente disoccupazione. Per riuscire a eliminare dal mondo il conflitto violento e a costruire le fondamenta per la coesistenza pacifica, dobbiamo trasformare questi sentimenti latenti di ostilità e di pregiudizio.

EDUCAZIONE PER TUTTI: EGUAGLIANZA DI GENERE
La Struttura per l’azione di Dakar e la Dichiarazione del millennio, entrambe adottate nel 2000, hanno stabilito gli obiettivi di eguaglianza di genere ai quali tutti gli stati sono impegnati: eliminazione delle disparità di genere nell’istruzione primaria e secondaria entro il 2005; raggiungimento dell’eguaglianza di genere entro il 2015.
Finora si sono avuti progressi particolarmente a livello della scuola primaria, dove il rapporto delle femmine rispetto ai maschi iscritti è aumentato dall’88% al 94% tra il 1990 e il 2000. Nelle tre regioni dove le disuguaglianze di genere sono maggiori – l’Africa subsahariana, gli stati arabi e l’Asia meridionale e occidentale – le disparità si sono sostanzialmente attenuate.
Ma molti paesi, nonostante grandi sforzi, hanno fatto pochi progressi. Sulla base del tasso di cambiamento del passato si calcola che il 60% dei 128 paesi per i quali sono disponibili dati non riusciranno probabilmente a raggiungere l’eguaglianza di genere a livello di istruzione primaria e secondaria entro il 2005, e il 40% sono a rischio di non raggiungerla nemmeno nel 2015.

È pensando a ciò che tre anni fa, in un mio messaggio indirizzato alla Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza tenutasi a Durban, in Sud Africa, ho proposto che al “Decennio dell’educazione ai diritti umani” delle Nazioni Unite (1995-2004) seguisse un “Decennio dell’educazione ai diritti umani per la pace”. Lo scorso agosto, la sottocommissione per la protezione e la promozione dei diritti umani delle Nazioni Unite ha emesso una raccomandazione che invita l’Assemblea generale a proclamare un secondo “Decennio dell’educazione ai diritti umani” a partire dal 1 gennaio 2005. Accolgo con grande favore questa raccomandazione, e suggerisco che le iniziative collegate si focalizzino in particolar modo sui bambini, che sono i protagonisti del futuro. Allo stesso tempo credo che debba essere fermamente tenuto in mente il più ampio obiettivo di costruire una società mondiale di pace e coesistenza.
Da parte sua, la SGI continuerà a sostenere le attività delle Nazioni Unite e opererà, in partenariato con altre ONG, per fare tutto ciò che è possibile allo scopo di promuovere in tutto il mondo l’educazione alla pace e ai diritti umani.
Il 2004 è l’“Anno internazionale per commemorare la lotta contro la schiavitù e la sua abolizione”. Questo lo rende sicuramente l’anno ideale per imparare le fondamentali lezioni del passato e per gettare le fondamenta per il superamento del razzismo e dell’intolleranza. L’importanza cruciale dell’educazione ai diritti umani è messa in evidenza dai numerosi casi in cui, negli ultimi anni, i mass media hanno fomentato l’odio contro uno specifico gruppo etnico o nazionale, e dalla proliferazione di siti web che attaccano con odio gli individui in base alla loro etnia, alla loro cultura o al loro credo. Questi fenomeni sono esacerbati dalla rapida crescita della società dell’informazione, alimentando i timori che l’informazione possa diventare un terreno di coltura per il conflitto e i crimini generati dall’odio.
Nel dicembre del 2003 le Nazioni Unite hanno convocato a Ginevra, in Svizzera, il primo Vertice mondiale sulla società dell’informazione. Oltre che discutere sui “ricchi” e i “poveri” dell’informazione – il cosiddetto “spartiacque digitale” – il vertice ha costituito un’importante opportunità per esaminare molti aspetti della società dell’informazione, tra i quali gli abusi appena citati. La Dichiarazione dei princìpi adottata dal vertice, pur riconoscendo l’irrinunciabilità della libertà di stampa e dell’indipendenza dei media, invita all’uso responsabile e al trattamento dell’informazione «in accordo con i più elevati criteri etici e professionali» (World Summit on the Information Society Declaration of Principles. Document WSIS-03/GENEVA/DOC/4-E, Geneva: United Nations, 12 Dic. 2003, p. 8). È mia speranza che in vista del secondo vertice sull’informazione, che si terrà il prossimo anno in Tunisia, verrà promossa una discussione approfondita sulle questioni etiche concernenti le tecnologie emergenti.

PIANTARE I SEMI DELLA PACE
Le iniziative di interesse globale avranno successo se non saranno confinate a livello governativo ma verranno sostenute da accordi e attività dal basso: l'empowerment della popolazione a livello di base può mettere in moto onde di trasformazione senza confini. Alla fondazione della SGI nel 1975 Ikeda invitò i presenti a piantare i semi della pace in tutto il mondo, giurando di farlo per primo. Una convinzione che resta ferma ancora oggi

Affrontare con successo le questioni ad ampio raggio della sicurezza umana richiederà idee coraggiose e innovative e sforzi continuati. A questo fine, spero che le diverse società del mondo si impegneranno in quel genere di “competizione umanitaria” prefigurata da Tsunesaburo Makiguchi, gareggiando tra loro per offrire i più grandi e duraturi contributi alla felicità umana. A questo riguardo possiamo prendere ispirazione, per esempio, dalla Tailandia, che ha recentemente istituito il Ministero dello sviluppo sociale e della sicurezza umana.
In quest’ambito, vorrei anche sostenere la necessità di condividere la conoscenza e la pratica attraverso iniziative come gli scambi tecnologici e la messa a disposizione di personale specializzato per aiutare a realizzare la sicurezza umana su scala globale. E, cosa ancor più importante, credo che tali iniziative avranno maggiore successo se non sono confinate a livello governativo ma vengono sostenute da accordi e attività a livello di base.
Un fondamento essenziale per questo genere di iniziative è fare in modo che l’apprendimento relativo alle questioni che il nostro mondo ha di fronte metta in grado le persone di vederle come un loro problema personale. L’educazione e l’empowerment della popolazione a livello di base possono mettere in moto onde di trasformazione senza confini. Sulla base di questa convinzione, la SGI ha organizzato mostre e altre attività di informazione dell’opinione pubblica a sostegno delle campagne delle Nazioni Unite per il disarmo e i diritti umani e di conferenze internazionali come il Summit della Terra. Tra i temi che abbiamo preso in considerazione ci sono stati il disarmo nucleare, i diritti umani e lo sviluppo sostenibile.
L’anno scorso, all’interno del nostro programma di educazione alla pace, presso la sede dell’UNESCO a Parigi e presso la sede europea delle Nazioni Unite a Ginevra abbiamo organizzato una mostra sulla vita e il pensiero di Linus Pauling (1901-1994), premio Nobel per la chimica e per la pace. In febbraio la SGI-USA allestirà una mostra dal titolo Costruire una cultura di pace per i bambini del mondo, presso la sede delle Nazioni Unite a New York.
Eliminare la parola “povertà” dal vocabolario dell’umanità era l’ardente desiderio del mio maestro Josei Toda. L’Istituto Toda per la pace globale e la ricerca politica, che ho fondato per portare avanti la sua visione, si è impegnato attivamente nella promozione della sicurezza umana e del governo globale, e nella costruzione di una rete mondiale di ricerche per la pace.
Attualmente sto conducendo un dialogo con la studiosa della pace Elise Boulding, che da lungo tempo sostiene una cultura di pace come fondamento della vita umana nel XXI secolo. Nel corso delle nostre conversazioni, Elise Boulding ha osservato che gli esseri umani non esistono solamente nel presente e che una prospettiva a breve termine ci espone a venire sopraffatti dagli eventi attuali. Per mantenere la speranza, invece, dobbiamo intraprendere azioni costruttive con una visione a lungo termine.
Guardando lontano nel futuro, il presidente Toda predisse che la Soka Gakkai sarebbe diventata una profonda e inesauribile sorgente di speranza e di ispirazione per tutta l’umanità. Portando avanti questa grandiosa missione, nell’impaziente attesa di celebrare nel 2005 il trentesimo anniversario della fondazione della SGI, continueremo a promuovere la solidarietà tra i cittadini del mondo come fondamento di una solida e duratura cultura di pace.
L’empowerment della gente, tra la gente e per la gente – l’iniziativa presa dagli individui per realizzare il loro infinito potenziale mentre contribuiscono alla società – è la base del movimento della rivoluzione umana della SGI.
Nel gennaio del 1975, quando ci riunimmo da tutto il mondo per fondare la SGI, feci quest’appello a tutti i presenti: piuttosto che cercare di far fiorire le vostre vite, dedicatevi a piantare i semi della pace in tutto il mondo. E giurai di farlo io per primo.
La mia convinzione resta ferma anche oggi. La pace non è un concetto astratto e lontano da noi. La pace dipende dagli sforzi di ognuno di noi di piantare e coltivare i semi della pace nella realtà della nostra vita quotidiana, nella profondità del nostro essere, per tutta la vita. Sono certo che questa sia la strada più sicura verso la pace duratura.

(traduzione di Momi Zanda)

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– Security Council, Resolution 1441 (2002). Risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza. S/RES/1441. New York: United Nations. 8 Nov. 2002.

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– World Declaration on Education for All: Meeting Basic Learning Needs. 5-9 Mar. 1990, Jomtien [Thailand]. <http://www.unesco.org/education/efa/ed_for_all/faq.shtml>.

UNICEF, The State of the World’s Children 2004.
<http://www.unicef.org/files/SOWC_O4_eng.pdf>.

ISTITUZIONI NON GOVERNATIVE E DELLA SOCIETà CIVILE
Boston Research Center for the 21st Century (BRC). Fondato nel 1993, il Centro di ricerca per il XXI secolo di Boston funge da centro di conferenze, editore e forum di dialogo su temi come la nonviolenza, i diritti umani, la giustizia economica e l’etica ambientale <http://www.brc.org/>.

Commission on Human Security, Human Security Now (New York: Commission on Human Security, 2003). <http://www.humansecurity-chs.org/finalreport/FinalReport.pdf>. La Commissione sulla sicurezza umana è stata fondata nel gennaio 2001 grazie all’iniziativa del governo giapponese e in risposta all’appello del segretario generale delle Nazioni Unite al Summit del millennio del 2000 per un mondo “libero dal bisogno” e “libero dalla paura”.
Press Release. 1 Maggio 2003. <http://www.humansecurity-chs.org/finalreport/pressrelease.html>.

Soka University e Soka Women’s College. Fondati da Daisaku Ikeda rispettivamente nel 1971 e nel 1985, la Soka University e il Soka Women’s College sono parte del sistema educativo Soka (creazione di valore) che comprende tutti i livelli scolastici dal’asilo all’università <http://www.soka.ac.jp/>.

Toda Institute for Global Peace and Policy Research, Human Security and Global Governance: Prospectus for an International Collaborative Research Project, HUGG Prospectus. 17 Genn. 2004. Fondato nel 1996 e con sedi a Tokyo e a Honolulu, l’Istituto Toda per la pace globale e la ricerca politica riunisce studiosi della pace, esperti di politica e della comunicazione e leader di altri settori impegnati su temi come la pace, lo sviluppo sostenibile, i diritti umani e la governance globale <http://www.toda.org/>.

MOSTRE E MATERIALE AUDIOVISIVO
Mostra Building a Culture of Peace for the Children of the World, Soka Gakkai International-USA, <http://www.cultureofpeaceexhibit.org/>.

Mostra Nuclear Arms: Threat to Our World, Soka Gakkai. Sokanet. 2 Feb. 2004 <http://www.sokagakkai.info/sgi-exhibits/MAIN-KAKU.html>.

 


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