BS 87 / 1 luglio 2001

Creare e sostenere un secolo di vita: le sfide di una nuova era

Proposta di pace 2001

di Daisaku Ikeda - presidente della Soka Gakkai Internazionale

immagine di copertina
(Foto L. Marinelli)

26 gennaio 2001: ecco il testo integrale della Proposta di pace presentata alle Nazioni Unite da Daisaku Ikeda. Perché il ventunesimo sia un secolo “di vita” occorre sostituire alla concorrenza un’etica di coesistenza, all’uso delle pressioni esterne e della forza le decisioni autonome dei popoli e delle società. Fondamentale è il ruolo delle donne, che sono naturalmente orientate verso l’unità e l’armonia, la coesistenza creativa e l’autonomia. I grandi problemi della povertà e dell’ambiente potranno essere risolti solo in una lotta guidata dalla gente comune insieme con l’ONU, attraverso il suo “potere morbido”, la cooperazione e il dialogo

Il nuovo secolo è finalmente iniziato. In un simile momento è naturale che a grandi aspettative si affianchino grandi preoccupazioni. Ciò che manca totalmente però, rispetto all’atteggiamento dei movimenti intellettuali dell’inizio del ventesimo secolo, è l’ottimismo. Naturalmente vi sono notevoli aspettative riguardo ai progressi scientifici e tecnologici, specialmente nel campo dell’informazione e delle biotecnologie, ma anche brutti presentimenti, specialmente in Giappone, sul fronte politico ed economico.
Cosa ci porterà dunque il nuovo secolo?
Un profondo senso di disillusione fa sì che molti si chiedano se il ventesimo secolo sia davvero stato un periodo di progresso per l’umanità. Ciò accade perché accanto ai numerosi benefici che i notevoli progressi della scienza e della tecnologia hanno arrecato, l’incessante susseguirsi di guerre e orrori senza precedenti ha proiettato un’ombra incancellabile sul cuore della gente.
Come possiamo dissolvere quest’ombra oscura? Su quali valori di fondo l’umanità deve basare i propri sforzi nel ventunesimo secolo?
Riflettere su queste domande mi ricorda le discussioni con Linus Pauling, considerato il padre della chimica moderna. Nei nostri dialoghi, pubblicati in seguito sotto forma di libro, condividevo con lui la mia convinzione – di lunga data – di rendere il ventunesimo secolo un “secolo di vita” o, come Pauling lo definiva, «un secolo nel quale si presti una maggiore attenzione agli esseri umani, alla loro felicità e salute».1
La vita di Linus Pauling, nato nel 1901, ha coperto l’intero arco del turbolento ventesimo secolo. Come scienziato e attivista per la pace non cessò mai, sino alla morte avvenuta all’età di novantatré anni, di esplorare le realtà sociali e umane. Forse per questa ragione ho attribuito un peso particolare alle sue parole.
Anche la decisione di intitolare l’edizione giapponese del nostro dialogo In a quest of a Century of life (Alla ricerca di un secolo di vita) fu ispirata dalla convinzione che, se l’umanità non sarà in grado di affrontare le questioni fondamentali della vita e della morte, non riuscirà a identificare le sfide da superare o la direzione nella quale avanzare.
Come la storia giudicherà il ventesimo secolo?
A tale riguardo si trovano molti spunti interessanti nell’importante opera di Eric Hobsbawm Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991 (Un’epoca di eccessi: il breve ventesimo secolo, 1914-1991). Nell’introduzione, “The Century: A Bird’s Eye View” (“Il secolo: una panoramica globale”), vengono riportati i giudizi di venti intellettuali di livello mondiale, che colpiscono per il doloroso senso di angoscia che li pervade. Eccone due esempi:
René Dumont, agronomo ed ecologo francese: «Lo considero soltanto un secolo di massacri e di guerre».
William Golding, scrittore e premio Nobel inglese: «Non posso fare a meno di pensare che questo sia stato il secolo più violento nella storia dell’umanità».2
Hobsbawm si chiede: «Perché così tante menti pensanti ricordano il ventesimo secolo senza soddisfazione e sicuramente senza fiducia nel futuro?».
E continua: «Non solo perché è stato senza dubbio il secolo più omicida di cui si abbia memoria, per la scala, la frequenza e la durata delle guerre che lo hanno costellato… ma anche per le dimensioni senza precedenti delle catastrofi umane che ha prodotto, dalle peggiori carestie della storia al genocidio sistematico».3

PROGRESSO MATERIALE, REGRESSO SPIRITUALE

Ma non è del tutto corretto concentrarsi soltanto sui lati più oscuri della storia recente. Indubbiamente vi sono anche aspetti del ventesimo secolo che meritano di essere considerati avanzamenti concreti e segni di progresso.
Anzitutto c’è il fatto che non sono più considerati accettabili imperialismi e colonialismi palesi. Inoltre l’ONU, nonostante i numerosi fallimenti, ha continuato a funzionare come organismo politico globale per tutta l’ultima metà del secolo, molto più a lungo della Lega delle Nazioni, che lo aveva preceduto per un breve periodo.
Sono sempre meno le persone che mettono apertamente in discussione i valori democratici e, anche se c’è ancora molta strada da percorrere, le conquiste ottenute dalle donne, il loro emergere in ogni ambito della società nel corso del secolo scorso, sono fatti davvero notevoli. Se sul fronte della scienza e della tecnologia alcuni risultati sono discutibili, l’accresciuto benessere materiale (seppure con forti diseguaglianze), i miglioramenti nel campo dei trasporti, delle comunicazioni, dell’assistenza medica e delle condizioni igieniche sono tutti contributi di cui nessuno può negare l’importanza. E se consideriamo i diritti umani goduti dall’umanità nel suo complesso, c’è un’enorme differenza tra le strutture legali e istituzionali che esistevano cent’anni fa e quelle attuali.
Eppure, nonostante questi risultati, è un fatto innegabile che il ventesimo secolo sia stato macchiato da uno sconsiderato fiume di sangue. Secondo una valutazione statistica, il numero di esseri umani uccisi nelle guerre dell’ultimo secolo è il doppio di quello dei precedenti quattro secoli messi insieme. È stata un’epoca contrassegnata da carneficine di massa e milioni di morti, senza paragoni nella storia.4
In ultima analisi, il ventesimo secolo è stato caratterizzato da un osceno e totale disprezzo per la vita umana. Ha depauperato, inaridito e contaminato le sorgenti della vita.
Un attento esame rivela inoltre che i progressi e i miglioramenti realizzati in tale periodo sono stati praticamente tutti di ordine materiale e fisico, mentre è innegabile che, per quanto riguarda la dimensione interiore, invece di avanzare si sia andati indietro. In un percorso che sembra a senso unico, la vita spirituale dell’umanità si è ristretta e atrofizzata, prigioniera di quello che il Buddismo definisce “piccolo io”, una condizione di isolamento che si verifica quando vengono recisi i legami fra gli esseri umani e fra questi e l’universo.
Come è possibile invertire questa tendenza e far sorgere un vero secolo di vita? È questa la storica sfida di civiltà che Pauling e io sentivamo di dover affrontare.
Oltre alle analisi degli storici, sono state pubblicate recentemente molte riflessioni sul ventesimo secolo, e tra quelle che ho avuto la possibilità di leggere ho notato con sorpresa che ben poche parlano di crisi spirituale, che è invece l’argomento di un saggio di Paul Valéry (1871-1945), La crisi della mente, del 1919. Scritto dopo la prima guerra mondiale, denunciava con urgenza la crisi spirituale provocata dalla prima guerra “totale” e presagiva che la civiltà europea, apparentemente in un momento di gloria, fosse in realtà sull’orlo del tracollo.5
Le questioni evidenziate da Valéry erano l’impotenza del sapere, i fini crudeli per i quali veniva utilizzata la scienza e il senso di disorientamento. Questi problemi ci sono ancora. Le profonde intuizioni di Valéry sulla bancarotta spirituale dell’occidente moderno descrivono un percorso che si è protratto fino agli ultimi anni del ventesimo secolo.
In un altro saggio lo stesso autore esaminava le cause che sottendono a questa crisi spirituale, descrivendo la contrapposizione tra «gli antichi, che fondavano i loro sistemi filosofici sull’ardente desiderio di popolare l’universo, e noi, che in seguito avremmo basato i nostri sull’intento di svuotare il cosmo da ogni forma di vita».6
Pur forse riflettendo una sorta di ingiustificata nostalgia del passato, tale affermazione racchiude in forma concisa una valutazione essenziale dei tempi in cui viviamo.
Non credo che il processo di “svuotare l’universo della vita” sia intenzionale. La letteratura e la filosofia non sono riuscite a superare le carenze linguistiche per produrre visioni del mondo significative. Gli onesti tentativi di rivitalizzare il linguaggio e suggerire uno spazio semantico vitale sono stati un totale fallimento.
Allo stesso tempo bisogna ammettere che la scienza e la tecnologia hanno svolto un ruolo centrale in questo processo. Premessa per il progresso della scienza moderna è stata la visione meccanicista della natura come oggetto da manipolare e controllare, essenzialmente separato dall’umanità.
Tuttavia negli ultimi venticinque anni alcune questioni hanno cominciato a spingere inesorabilmente verso un cambiamento paradigmatico nell’approccio alla scienza. Fra queste, l’emergere drammatico della crisi ambientale e dei pericoli relativi alle tecniche di clonazione – una tecnologia che rappresenta un’importante frontiera intellettuale ma che, se applicata senza criterio, potrebbe minare le fondamenta stesse dell’umanità. La profonda comprensione della natura e della vita dovrebbe portare a riconoscere l’inseparabilità tra sfera soggettiva e oggettiva e a considerare l’umanità come parte integrante della natura.
Takafumi Matsui, professore all’Università di Tokyo, ha sostenuto che il famoso cogito ergo sum («penso, dunque sono») di Cartesio oggi dovrebbe essere sostituito da qualcosa che potrebbe più o meno suonare così: «Interagisco dunque esisto» o «Entro in contatto, dunque esisto».7 Un’asserzione che condivido pienamente, perché si accorda con la frase che secondo me rappresenta l’essenza della filosofia di José Ortega y Gasset (1883-1955), a cui feci riferimento nella mia Proposta di pace di quattro anni fa: «Io sono me stesso più il mio ambiente; se io non lo salvo, non posso salvare me stesso»8.

VITA, CUORE E SPIRITO

La vita – non nel senso unicamente biologico ma in quello omnicomprensivo indicato da Valéry – è oggetto di crescente interesse e dibattito nel Giappone alle soglie del nuovo millennio. A tale riguardo vengono usate parole semplici e antiche come “vita”, “cuore” e “spirito”, espresse in uno stile tradizionalmente femminile che attinge più alle emozioni che all’intelletto.
Queste discussioni sono state suscitate da un’ondata di crimini impressionanti commessi da bambini, e ciò potrebbe spiegare l’uso di parole dal forte impatto emotivo. Ma più profondamente credo che dimostrino un lento ma sostanziale spostamento degli interessi e dei valori della gente: sta cambiando ciò che determina il clima spirituale di un’epoca e cioè il modo di sentire la vita.
L’incontro con Sir Yehudi Menuhin (1916-99) – uno dei più grandi violinisti del secolo, che rispetto profondamente sia per le sue convinzioni che per le sue realizzazioni – è stato per me una preziosa occasione di confronto sincero e senza reticenze. Menuhin mi citò le parole di Capo Seattle, un leader dei nativi americani che nel 1850 circa, in risposta a un’offerta d’acquisto delle terre indigene da parte dei coloni bianchi, dichiarò: «Se decido di accettare… lo farò a una condizione: l’uomo bianco deve trattare gli animali di questa terra come suoi fratelli… ho visto migliaia di bufali marcire nella prateria, uccisi a fucilate dall’uomo bianco mentre passava con un treno in corsa e poi abbandonati. Io sono un selvaggio e non capisco come il fumante cavallo d’acciaio possa essere più importante del bufalo che noi ammazziamo solo per vivere. Cos’è l’uomo senza le bestie? Se non ci fossero più bestie le persone morirebbero per la gran solitudine dello spirito, perché qualsiasi cosa accade alla bestia accade anche all’essere umano. Tutte le cose sono collegate. Qualsiasi cosa accada alla terra accade anche ai figli della terra».9
Menuhin sottolineò la rilevanza di queste parole per il nostro e per tutti i tempi. Non possiamo certo liquidare come animismo primitivo la consapevolezza e la sensibilità che trapelano da questo discorso, e nemmeno considerarle mero romanticismo bucolico. Il tipo di coscienza discriminatoria che consentiva il massacro degli animali selvatici per puro divertimento giustificava anche l’allontanamento forzato dei nativi americani dalle loro terre per confinarli nelle riserve. Ma questo è profondamente incompatibile con lo scopo di creare un nuovo secolo di vita.
La discriminazione consiste essenzialmente nell’erigere barriere di diversità tra i fenomeni dell’universo e nello stabilire fra loro gerarchie di valore, spezzando così i vincoli che legano e connettono tutte le cose. Viene usata per giustificare l’oppressione e lo sfruttamento, e deve essere quindi condannata come una profanazione della sacralità della vita.

UN MONDO INTERCONNESSO E INTERDIPENDENTE

«Tutte le cose sono collegate». Il Buddismo riecheggia e amplia ulteriormente il tipo di consapevolezza espressa da Capo Seattle. Allo stesso tempo assume come suo massimo imperativo la rimozione di queste barriere di diversità per entrare in contatto con la realtà, il vero aspetto della vita. Ciò viene espresso dall’idea che ogni singolo istante vitale abbraccia sia l’esistenza senziente che quella insenziente. In altri termini, un attimo di vita (giapp. ichinen) contiene in sé tutto il mondo fenomenico (giapp. sanzen)10. Comprende non solo gli esseri senzienti, come la vita umana e animale, ma anche la vita non senziente, come le erbe, gli alberi e perfino le montagne e i fiumi, apparentemente privi di vita. Similmente il Buddismo insegna che la Buddità – il potenziale di massima gioia, saggezza e compassione – esiste in tutte le cose11.
Esistono definizioni precise dei concetti di “istante vitale” e “Buddità”, ma per gli scopi presenti è sufficiente affermare che essi equivalgono sostanzialmente al significato allargato della parola “vita” che finora ho impiegato. Il Buddismo condivide l’apprezzamento incondizionato della vita che caratterizza l’animismo, ma differisce da quest’ultimo in quanto considera la vita, nel suo significato più profondo, non come qualcosa che ci viene semplicemente donato senza sforzo da parte nostra, ma come un regno luminoso e fertile a cui si può accedere e che si può sperimentare completamente solo attraverso il più strenuo impegno spirituale.
Si può tracciare un parallelo con il procedimento descritto da René Descartes (1596-1650) nel Discorso sul metodo. In un mondo che è spesso assurdo e pieno di contraddizioni si può ottenere uno stato vitale pienamente risvegliato soltanto attraverso un processo continuo e doloroso di dubbio e riflessione, che utilizzi appieno le risorse della conoscenza, dell’emozione e della volontà. Solo una sensibilità lucidata e affinata da una infaticabile e costante ricerca può accedere ai regni imparziali ed equanimi della vita.
Definirli imparziali ed equanimi non significa che siano piatti o anonimi. Ciò che sto cercando di descrivere è il concetto buddista di origine dipendente (giapp. engi) – il fatto che tutti i fenomeni sono interconnessi, che ripetono il ciclo di emergenza (nascita) e latenza (morte) in maniera reciprocamente interrelata. Non vi sono parole adeguate a descrivere questa realtà, anche se mi sovvengono termini come pienezza, concentrazione, attenzione, armonia, equilibrio e unità. Il Canone buddista afferma che questi stati sono «al di là di ogni parola e né il pensiero né l’azione possono esprimerli”12.
Perfino il Budda Shakyamuni, nel suo stato pienamente risvegliato, esitò a lungo davanti all’impresa di cercare di trasmettere ai suoi ascoltatori quest’Illuminazione profonda e sottile in maniera che non venisse travisata o disprezzata.
Nei tetri giorni della seconda guerra mondiale il mio maestro Josei Toda (1900-58), secondo presidente della Soka Gakkai, subì gravi persecuzioni da parte delle autorità militari giapponesi a causa delle sue convinzioni religiose.
Durante la prigionia decise che avrebbe cercato di leggere e comprendere con tutto il suo essere il Sutra del Loto. Con preghiere concentrate invocava il mantra del Sutra del Loto circa diecimila volte al giorno e intanto ne leggeva ripetutamente il testo. Nel Sutra degli infiniti significati (Muryogi), che funge da prologo al Sutra del Loto, s’imbatté in un passo che non riusciva assolutamente a capire. In un verso di lode al Budda era scritto:

L’entità non è essere né non essere;
non causa né effetto;
non è se stessa né altro da sé;
non è quadrata né rotonda; non corta né lunga;
… Non è questo né quello;
non è azzurra né gialla;
non è rossa né bianca;
né scarlatta né viola
né di altri colori.
13

Questa strofa contiene in tutto trentaquattro negazioni. Quale Budda poteva mai rimanere o emergere da questo tenace processo che gli negava tutte le possibilità di espressione?
Concentrando e affinando al massimo ogni sua facoltà spirituale Toda giunse all’intuizione, accompagnata da un’immensa e incrollabile condizione vitale, che il Budda non era altro che la vita stessa.
Narrando l’esperienza di Toda nel mio romanzo La rivoluzione umana (Ningen kakumei) scrissi: «Quel momento di apertura nella vita di Toda fu sufficiente a trasformare la direzione futura della filosofia mondiale. Ciò diverrà sempre più evidente con il passare del tempo»14. Ne sono ancora pienamente convinto, ora come nel gennaio 1968, quando scrissi questa frase, e in effetti la crescita costante della SGI, attualmente presente in 165 paesi, trae la sua origine spirituale e la sua fonte di ispirazione da quell’esperienza che Toda ebbe in carcere.
Anche il mio impegno a fare del nuovo secolo un’epoca in cui si onori la sacralità della vita scaturisce dalla stessa fonte. Sono convinto che l’esperienza unica e inestimabile del mio maestro possa essere la leva capace di sbloccare il punto morto a cui è giunta l’umanità. È un’esperienza veramente universale, che trascende ogni ristretto punto di vista settario ed è sufficiente ad arricchire la vita spirituale di tutti gli esseri umani.

LA CRISI DELLA FAMIGLIA

Lo storico inglese Arnold Toynbee (1889-1975) esortava a non farsi catturare dagli aspetti superficiali della storia ma piuttosto a guardare i «movimenti più lenti e impalpabili, che agiscono sotto la superficie e penetrano in profondità».15
In accordo con questa affermazione, ho sostenuto precedentemente che il frequente uso che si fa attualmente in Giappone di termini come “vita”, “cuore” e “spirito” è indice di una profonda trasformazione nell’orientamento degli interessi della gente e di conseguenza nelle tendenze dell’epoca. In sintesi credo che ciò rappresenti una ricerca di identità, di un senso della realtà soddisfacente in un’epoca in cui tutti i valori, le strutture e i sistemi vengono messi radicalmente in discussione.
Negli ultimi anni si è tanto parlato della rivoluzione delle comunicazioni e delle tecnologie legate a Internet. Tuttavia la domanda fondamentale rimane: chi coglierà l’opportunità di rendere concrete le potenzialità positive di questa rivoluzione? Dove sarà possibile trovare un autentico senso di identità e uno scopo?
Se non si affrontano questi problemi, potremmo scoprire che ci aspetta un futuro tutt’altro che roseo, in cui la vita, il cuore e lo spirito saranno di fatto schiacciati e soffocati. È quest’ansia per un futuro incerto che spinge le persone alla ricerca interiore. Mi è impossibile condividere l’incondizionato ottimismo di alcuni commentatori nei confronti del boom delle tecnologie dell’informazione.
La portata e la profondità della crisi che stiamo affrontando può essere colta solo nel contesto storico dell’evoluzione spirituale della specie umana.
Si dice che la famiglia sia la forma più antica di comunità umana. Lo sviluppo dell’unità familiare è presumibilmente ciò che ci rende umani e ci distingue dagli altri animali. In nessun altro luogo l’impatto delle crisi in questioni relative alla vita, al cuore e allo spirito si avverte più intensamente.
Le relazioni genitori-figli sono in genere diverse dalle altre relazioni umane, perché non dipendono da una scelta. Scaturiscono dalle profondità del nostro essere e in quanto tali rappresentano i legami più reali e vitali.
In Giappone la crisi della famiglia è diventata sempre più evidente negli ultimi decenni ed è, a mio avviso, la causa dei crimini assurdi e preoccupanti commessi dai bambini. Dietro ognuno di questi inconcepibili delitti c’è un profondo indebolimento – per non dire un crollo totale – dei legami affettivi familiari.
Come molti hanno messo in evidenza, la famiglia sta cessando di essere un luogo di rinnovamento e rivitalizzazione per diventare un soffocante ricettacolo di isolamento e alienazione.
Si avverte che le relazioni fra individui, così come i legami con la natura e l’universo, stanno perdendo di concretezza e diventano sempre più “virtuali”. Ne è prova il malessere spirituale che oggi affligge così tanti giovani in Giappone e si manifesta come isolamento, chiusura in se stessi, totale apatia, perdita di capacità espressive e smarrimento dell’identità individuale.
Tale malessere spirituale ha minato alla base la capacità della gente di percepire la verità che «tutte le cose sono collegate». L’oscuramento della realtà concreta da parte dei molteplici strati di quella virtuale fa sì che la gente sperimenti ciò che la filosofa francese Simone Weil (1909-43) definiva acutamente déracinement, assenza di radici. Le persone desiderano ardentemente aver coscienza di essere vive: in sintesi, stanno cercando se stesse.

RISPETTO PER LA VITA

Credo che le crisi che riguardano la vita, il cuore, lo spirito e la famiglia abbiano tutte la stessa origine. Per questo vorrei che il profondo rispetto per la vita fosse la forza motrice della prossima era.
Esplorando le profondità dell’esistenza – la vasta e vitale rete di interazioni e interdipendenze – possiamo risvegliare e ricostruire quei legami diventati ormai così sottili. Mi riferisco a quell’amore per la vita che Wolfgang Goethe (1749-1832) fa esprimere a Faust: « …Potrei gridare, allora, “Resta! Sei bello!” all’attimo fugace».16
Una volta illuminati da questo profondo amore per la vita saremo in grado di ricostruire e ritrovare il vero significato delle motivazioni per le quali si vive e si muore.
Solo se riusciremo a rispondere alle domande esistenziali: «Perché questa famiglia?», «Perché sono un uomo o sono una donna?», «Perché queste sofferenze?» saremo in grado di dare una risposta alla domanda fondamentale: «Perché non dobbiamo uccidere gli altri?». Se vogliamo che l’umanità trovi una direzione chiara per il nuovo secolo è necessario un nuovo rispetto per la vita.
Come possiamo riuscire in questa impresa? Come Faust, dobbiamo concentrarci appieno sull’“attimo fugace”. E per farlo dobbiamo tenere presenti due cose. La prima è che tutto è contenuto nel momento presente e l’altra è che il nostro atteggiamento in questo istante è cruciale, e determinerà l’intero corso della nostra vita.
Comprendere il primo punto è necessario perché il vero aspetto della vita, della realtà, si trova solo nel momento presente; tutto il resto è in qualche misura virtuale. È così senz’altro per quanto riguarda il futuro, ma si può dire altrettanto del passato. Gli eventi del passato si inquadrano infatti all’interno di costrutti artificiali come il “tempo” quotidiano, il tempo storico o quello scientifico. Non sono vera realtà.
Nelle scritture buddiste si trova: «Se vuoi conoscere le cause del passato, guarda gli effetti del presente; se vuoi conoscere gli effetti del futuro, guarda le cause del presente».17 Questa frase non descrive una progressione lineare di causa ed effetto, ma piuttosto sta a significare che tutto è contenuto nell’istante presente.
Come scoprì Josei Toda, quando riusciamo a infrangere tutti i nostri costrutti artificiali, compresi i tranelli del linguaggio, veniamo in contatto con le più profonde sfere della vita, dell’origine dipendente. Il principio di origine dipendente spiega in quale misura ogni esistenza individuale sia legata e connessa a tutte le altre.
Carl Gustav Jung (1875-1961), che nutriva un profondo interesse per la filosofia orientale, espresse una visione simile riflettendo sugli orrori della seconda guerra mondiale: «Anche se dal punto di vista giuridico non siamo stati complici del crimine, in virtù della nostra natura umana siamo comunque criminali potenziali».18 Può sembrare un ragionamento un po’ sbrigativo ma, nell’ottica del principio buddista dell’origine dipendente, ha una logica estremamente pregnante.
Quando ci risvegliamo a questa verità possiamo percepire i vincoli atemporali che ci legano a chi vive in punti del pianeta lontani da noi, e possiamo comprendere e apprezzare il fatto che ognuno di noi appartiene alla stessa famiglia umana. Quando il Buddismo parla di “grande io” si riferisce proprio a questa illimitata espansione del sé, alla capacità di sentire che siamo tutti legati da innumerevoli e invisibili fili.
In secondo luogo, il modo in cui affrontiamo il momento presente è essenziale perché è solo grazie a un’incessante lotta spirituale, istante dopo istante, che si può accedere alla vera ricchezza e alla traboccante vitalità dell’esistenza. Un atteggiamento che è l’esatto contrario dell’indolenza e della passività, segnali di fallimento spirituale.
In un famoso brano Nichiren, il saggio buddista del tredicesimo secolo i cui insegnamenti ispirano le attività della SGI, ci esorta a diventare sempre più forti giorno dopo giorno, mese dopo mese, avvertendoci che appena ci rilassiamo possiamo cadere preda delle forze della negatività.19
Solo chi si sforza costantemente di rafforzare la propria mente, chi conserva una coscienza vigile e pura, chi si innalza in un volo continuo sarà in grado di entrare in contatto con la calamita della vera realtà. È questo il concetto della padronanza di sé che Shakyamuni spiegò incessantemente. Al contrario il lassismo, la passività e l’assenza di scopi portano a farsi consumare da passioni negative quali la paura, l’odio, la gelosia e la vigliaccheria.
Mohandas K. Gandhi (1869-1948) affermò: «Nella nonviolenza non esiste sconfitta, mentre il risultato finale della violenza è la sconfitta certa».20 Il Mahatma, che non arretrò mai d’un solo passo, è un grande modello, un pioniere a cui ispirarsi per costruire un secolo di vita.
«Nella nonviolenza non esiste sconfitta». Grande maestro spirituale, Gandhi era pieno di incrollabile fiducia nell’importanza di essere sempre padroni di se stessi, e ne andava fiero. La sua viva eredità spirituale sarà sempre illuminata dalla sfolgorante luce della gloria e del trionfo. Finché quest’unico principio rimarrà puro e incontaminato la vittoria finale è sicura. Ci sono innumerevoli difficoltà da affrontare per realizzare il sogno di Gandhi di un mondo nonviolento, ma sono convinto che nessun ostacolo sarebbe riuscito a scuotere minimamente la sua convinzione.

COESISTENZA CREATIVA E AUTONOMIA

:IMM:Come possiamo caratterizzare lo spirito che deve animare il ventunesimo secolo affinché sia davvero un secolo di vita?
Due tratti specifici mi sovvengono: sono la coesistenza creativa e l’esercizio autonomo della volontà. Entrambi significano qualcosa di estremamente simile alle parole chiave “vita” e “origine dipendente” citate poc’anzi, e ambedue sono stati in larga misura assenti dalla vita spirituale del ventesimo secolo.
Ciò che contraddice totalmente gli ideali della coesistenza creativa e dell’autonomia sono la competizione (nel senso puramente negativo del termine) e la pressione esercitata dall’esterno, aspetti caratteristici delle ideologie totalitarie che hanno dominato il ventesimo secolo, come il fascismo e il bolscevismo. Sono convinto che il prevalere di simili ideologie sia stato un fattore scatenante nel generare un’epoca di massacri senza precedenti.
Tutte le ideologie, non solo il fascismo e il bolscevismo, hanno il difetto intrinseco di creare barriere discriminatorie basate sulla percezione di differenze che poi vengono considerate fisse e immutabili, sancendo così posizioni di superiorità che giustificano l’emarginazione e l’oppressione degli altri.
In epoche di disordine sociale, le ideologie si trasformano in una successione di slogan estremisti e fanatici. La competizione si mostra nei suoi aspetti più primitivi, caratterizzati dal conflitto e dall’esclusione degli altri, e la crudeltà del “potere duro” si manifesta attraverso l’uso della forza. La sanguinosa storia del ventesimo secolo lo dimostra fin troppo.
La ribellione delle masse di Ortega y Gasset è considerata un’opera chiave per comprendere la patologia della società di massa del ventesimo secolo. «Questa è l’epoca delle “correnti” e del “lasciar correre” – osserva acutamente il filosofo – Quasi nessuno oppone resistenza ai vortici superficiali che sorgono nell’arte, nel mondo delle idee e nella politica».21
In un’epoca simile i pericoli dell’esclusione, del conflitto e dell’uso della forza crescono in maniera esponenziale. L’infame motto di Joseph Goebbels era: «Ripeti una bugia centinaia di volte e diventerà verità». Ideologie come quelle del nazionalismo fanatico nel fascismo e della lotta di classe nel bolscevismo sono il prodotto demoniaco di una sottomissione acritica alle correnti prevalenti.
Dobbiamo ammettere che l’attuale movimento verso la globalizzazione contiene in sé il pericolo di diventare un altro “ismo” ideologico. Sono disposto a riconoscere i potenziali positivi e i meriti della globalizzazione come tendenza generale del nostro tempo, ma ancora una volta non mi sento di condividere l’ottimismo incondizionato di alcuni osservatori.
Mi preoccupa in particolar modo che l’applicazione inflessibile dei cosiddetti “standard globali” possa far sì che la logica del conflitto, dell’esclusione e della pressione venga applicata a quelle società e a quelle zone del mondo che non rispondono a un particolare modello di sviluppo. Sono già emersi sufficienti segnali di avvertimento per smorzare l’entusiasmo dei più accaniti sostenitori della globalizzazione. Mi riferisco all’impressionante disparità di ricchezza tra le società e al loro interno, e ai trasferimenti di capitali puramente speculativi e non produttivi del cosiddetto “capitalismo da casinò”.
Credo che dovremmo ricordare la lezione, pagata a caro prezzo, della dominazione dell’ideologia. Dobbiamo sostituire alla concorrenza sfrenata un’etica di coesistenza, all’uso delle pressioni esterne e della forza le decisioni autonome dei popoli e delle società. Per creare un ventunesimo secolo “di vita” dovremmo adottare e sostenere tali valori.
Il principio buddista di origine dipendente, che pone l’accento sull’interrelazione e l’interdipendenza, è sostanzialmente sinonimo di coesistenza creativa. Inoltre nel Buddismo le funzioni della vita – cioè il regno della vera realtà che siamo in grado di vedere quando andiamo oltre gli abili inganni del linguaggio e la tendenza a considerare le cose come entità fisse e immutabili – vengono indicate come «lo spontaneo scaturire di momento in momento».22 Questa frase descrive mirabilmente la natura della forza vitale, che è essenzialmente autonoma e automotivata.
Se questi valori diventeranno lo spirito dominante della nostra epoca saremo in grado di lasciarci alle spalle gli incubi del ventesimo secolo e costruire un secolo di vita e di pace, una pace che sia ben più di un mero interludio fra due guerre.

LE DONNE CONTRO LA GUERRA

È necessario sottolineare il ruolo estremamente importante che le donne possono e devono avere nel realizzare questo tipo di mondo nel ventunesimo secolo.
Piuttosto che al conflitto, l’esclusione e la forza, marchi caratteristici dell’ideologia e tradizionalmente legati alla psicologia maschile, le donne sono naturalmente orientate verso valori come l’unità e l’armonia, verso quella coesistenza creativa e quell’autonomia fondamentali per un secolo di vita.
Sia Gandhi che il suo intimo amico e alleato, il poeta Rabindranath Tagore (1861-1941), se ne accorsero subito. Gandhi espresse le sue aspettative nei confronti delle donne in termini molto chiari e diretti: «Se solo le donne dimenticassero di appartenere al sesso debole, non ho dubbi che potrebbero fare infinitamente di più degli uomini contro la guerra. Vi chiedo cosa farebbero i vostri grandi soldati e generali se le mogli, le figlie e le madri rifiutassero qualsiasi appoggio alla loro partecipazione alle attività militari».23
Anche Tagore sostenne che il contributo delle donne è essenziale per la trasformazione di una civiltà maschio-centrica, basata sulla forza, in una civiltà dello spirito.
«Auspichiamo che la prossima civiltà si fondi non soltanto sulla competizione e lo sfruttamento economico e politico ma sulla cooperazione sociale a livello mondiale; sugli ideali spirituali della reciprocità e non sugli ideali economici dell’efficienza. Allora le donne avranno il loro vero posto».24
I valori, i princìpi e le ideologie che vengono attualmente chiamati in causa sono tutti prodotti di società dominate dal maschio. Ma dal momento che tali società sono in continua evoluzione, e ci si interroga sui loro fondamenti razionali, vengono sempre più alla ribalta valori come vita, cuore e spirito, tutti intimamente legati al “principio femminile”.
Sono certo che nel ventunesimo secolo l’entrata in scena delle donne avrà una portata che andrà al cuore della civiltà umana, e si rivelerà più importante e vitale dell’ottenimento della parità legale ed economica.
Un secolo di vita deve essere anche un secolo delle donne. Il Boston Research Center (BRC, vedi http://www.brc.org) considera il ruolo delle donne uno dei temi centrali dei suoi studi e attività educative fin dalla sua fondazione, nel 1993. Le iniziative di analisi e discussione su questioni come la riforma delle Nazioni Unite, l’ambiente e la creazione di una cultura di pace vengono tutte strutturate dal Centro in maniera da includere la voce delle donne.
Tale approccio si basa sulla consapevolezza che, se non si considera il punto di vista delle donne e non si cerca attivamente il loro contributo, c’è il rischio reale di produrre ricerche prive di idee utili, o a volte addirittura fuorvianti, rispetto alle strategie necessarie per risolvere definitivamente tali problemi.
Uno dei motti del BRC è: «Sii un faro che illumina la strada a un secolo di vita». È mia speranza che il Centro continui a considerare cruciale il contributo delle donne nel costruire una rete globale di ricerca sulla pace, illuminando la strada verso le distese oceaniche di un secolo di vita.

LA FAMIGLIA: UNA FUCINA DI UMANITÀ

La crisi della famiglia, che rischia di minare le fondamenta della nostra umanità, mette in evidenza la necessità che le donne assumano un ruolo più centrale. Il collasso e la ricostruzione della famiglia sono una tendenza caratteristica dei nostri tempi e il tema centrale, per esempio, dell’opera del filosofo Francis Fukuyama Great Disruption: Human Nature and the Reconstitution of Social Order.
In un certo senso la storia della famiglia è la storia dell’umanità. Secondo il primatologo Masao Kawai, se il legame madre figlio risale a qualcosa come 200 milioni di anni fa, quando apparvero i mammiferi, la storia della paternità non ha che cinque milioni di anni. Fu quando i maschi della nostra specie accettarono il ruolo di padri in contrapposizione alle femmine-madri che emerse la struttura distintiva della famiglia umana, differenziandola dagli altri mammiferi. Kawai sostiene che il crollo della famiglia è un segnale di perdita della nostra identità di specie, un abbandono della nostra umanità; una crisi che non ha precedenti nella storia della specie.
Per riuscire a mantenere e approfondire la nostra umanità è essenziale che madri e padri lavorino insieme sostenendosi reciprocamente. La relazione fra di loro deve essere di coesistenza creativa, basata sul riconoscimento dell’interdipendenza ovvero del principio di origine dipendente.
La chiave per realizzare quest’opera di mutuo sostegno è l’iniziativa delle donne. A mio avviso il ruolo degli uomini può essere quello di buoni partner e collaboratori, ma le protagoniste della famiglia sono le donne. L’esperienza diretta e indiretta mi ha convinto che la saggezza e la forza delle madri sono gli elementi centrali per un sano sviluppo degli individui.
Ovviamente non sto invocando un ritorno ai ruoli tradizionali fra i generi, quegli stereotipi, messi oggi in discussione, nei quali la vita delle donne era limitata alla casa. Sto semplicemente affermando che, considerando la storia della famiglia, dobbiamo riconoscere che in essa le donne giocano un ruolo profondo, direi incommensurabile, al quale dev’essere accordato il massimo rispetto.
I limiti dell’identità maschile moderna sono tali che il suo simbolo per eccellenza, il Faust di Goethe, deve cercare la salvezza dall’autodistruzione nell’“eterno femminino”.

CREARE CONSENSI SULLA COSTITUZIONE DI PACE GIAPPONESE

Vorrei ora entrare nel merito dell’attuale dibattito sulla Costituzione giapponese. Si potrebbe pensare che la questione riguardi solo il Giappone, ma io credo che debba invece essere affrontata in un ambito generale se vogliamo realizzare la promessa di un secolo di vita.
Per rispondere ai mutamenti storici e sociali è ovvio e giusto che vengano prese misure per revisionare la Costituzione, la massima espressione legislativa del paese. Anche la Germania iniziò la fase postbellica sotto l’egida di una nuova Costituzione che teneva conto dell’amara lezione della seconda guerra mondiale ma, al contrario dei giapponesi, i tedeschi l’hanno modificata più volte.
Nel gennaio 2000 la Dieta giapponese ha istituito due commissioni di ricerca costituzionale, sia alla Camera alta che a quella bassa, per dare inizio alla procedura di dibattito parlamentare sull’attuale Costituzione. C’è però la tendenza a inquadrare qualsiasi dibattito unicamente nei termini dell’Articolo 9, quello che sancisce la rinuncia alla guerra, perché non c’è accordo proprio sull’opportunità di emendare o mantenere tale clausola. Quest’ottica ristretta è miope e inopportuna, perché oscura altre importanti questioni costituzionali che hanno una diretta rilevanza per il tipo di democrazia che il Giappone aspira a diventare nel ventunesimo secolo. Tra queste vi sono diverse e complicate questioni riguardanti i diritti umani, la necessità di rispondere alle sfide ambientali emergenti e ai problemi sollevati dalle nuove tecnologie di comunicazione e informazione. Meriterebbero considerazione anche l’introduzione del referendum nazionale e dell’elezione diretta del primo ministro come mezzi per rappresentare meglio la volontà popolare.
È importante che la revisione della Costituzione avvenga tenendo conto di questi aspetti, con lo scopo di realizzare una società migliore. In questo senso il dibattito sulla Costituzione è necessario e positivo.
Ma è fondamentale che tale revisione venga condotta nel quadro di una prospettiva a lungo termine, supportata da princìpi duraturi. Revisioni frettolose, basate su scopi miopi che mirano a un immediato vantaggio politico o effettuate senza il tempo necessario per raggiungere un vero consenso nazionale, devono essere evitate a tutti i costi. Sarebbero causa di rimpianto e porterebbero a mettere in discussione la legittimità del processo di revisione costituzionale.
Nel dibattito sulla riforma costituzionale non dobbiamo mai dimenticare gli ideali di pace e cooperazione internazionale espressi nel Preambolo e nell’articolo 9, che sono il nucleo portante della Costituzione giapponese e la qualificano come una “Costituzione di pace”.
Pur essendoci spazio per discutere su specifiche questioni inerenti alla politica di sicurezza nazionale, ciò che mi preoccupa è che i princìpi e lo spirito della Costituzione di pace non vengano toccati. Pe questo ritengo e sostengo da tempo che l’articolo 9 non debba essere modificato.
Purtroppo il tipo di messaggio di pace che il Giappone ha trasmesso al mondo negli ultimi cinquant’anni, sotto l’attuale Costituzione, è stato troppo debole. Gli sforzi effettuati sono stati invalidati da continue mosse anacronistiche per invertire il corso del tempo o addirittura per cercare di giustificare le passate invasioni giapponesi. Di conseguenza agli occhi dei popoli asiatici e del mondo intero l’immagine del Giappone non è certo quella di un paese autenticamente pacifista.

(Foto L. Marinelli)

LA TRAPPOLA DEL “PACIFISMO LIMITATO A UN SOLO PAESE”

In Giappone i fautori della pace sono stati vittime della tendenza a guardare solo al proprio interno, a interessarsi solo al proprio paese. Per questo non sono riusciti a effettuare azioni concrete in grado di trasformare la situazione mondiale. Il risultato finale di questo egoistico “pacifismo limitato a un solo paese”, che ignora i movimenti della società internazionale e i problemi delle altre nazioni, è stata una falsa pace, ben lungi dallo spirito originale della Costituzione nel cui Preambolo viene dichiarato il diritto dell’umanità alla coesistenza pacifica.
Se vogliamo che il nuovo secolo sia totalmente diverso da quello passato dominato dalla guerra, è indispensabile che il Giappone abbandoni le sue chiusure e cominci a muoversi secondo una prospettiva realistica e globale che infonda nuova vita allo spirito e agli ideali dell’articolo 9, condividendoli con il resto del mondo.
Mi tornano alla mente le parole del filosofo giapponese Arimasa Mori (1911-76): «Il mondo è una gara tra chi ha più autocontrollo. In questo senso il politico è superiore al militare. E in ciò risiede anche il vero significato della pace».25
È un punto di vista che dovremmo prendere in seria considerazione. Nella cultura giapponese del dopoguerra – e non solo riguardo al dibattito sulle questioni costituzionali – è mancata soprattutto la padronanza di sé, quella consapevolezza vigile di cui parlavo prima.
È innegabile che negli anni della guerra fredda le azioni dei leader giapponesi non esprimessero né autonomia né fiducia in se stessi. Ma neppure in seguito la situazione è cambiata. La crisi della “bubble economy” giapponese, un evento il cui impatto psicologico viene paragonato a volte alla sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, ha prodotto un panorama spirituale di passività e apatia ben lontano da qualsiasi ideale di determinazione o padronanza di sé.
Lo stesso vale per il dibattito costituzionale. La cosa principale, a questo riguardo, è sviluppare ed elaborare, con cura e in maniera autonoma, i princìpi e le convinzioni essenziali del pacifismo che caratterizzano l’intera Costituzione. E ritengo che questo sia fattibile senza dover toccare l’articolo 9.
L’articolo 9, e in particolare il primo paragrafo, è un tributo al Trattato di Parigi del 1928 in cui i firmatari rinunciarono alla guerra come strumento di politica nazionale. Fu un tentativo di realizzare il profondo desiderio dell’umanità di abolire la guerra. Rinunciando alla «guerra come diritto sovrano della nazione, e alla minaccia o all’uso della forza come mezzi per risolvere le dispute internazionali» la Costituzione giapponese accetta di fatto limitazioni alla sovranità nazionale. Fin dall’inizio l’accettazione di tale condizione da parte del Giappone venne subordinata al fatto che quegli aspetti della sovranità cui la nazione abdicava fossero demandati a una organizzazione internazionale, in particolare alle Nazioni Unite.
La decisione migliore per il Giappone, e la più naturale, sarebbe dunque di trasformare questa limitazione volontaria della sovranità in uno stimolo a cooperare con l’ONU per costruire una pace mondiale duratura.
Ciò si accorda totalmente con lo spirito del preambolo della Costituzione giapponese e della Carta dell’ONU. Inserendo gli specifici obblighi costituzionali giapponesi in un contesto universale più ampio sarebbe possibile mettere in atto un tipo di politica tale da far conoscere il Giappone come una nazione veramente pacifica. Il Giappone ha l’opportunità di svolgere un ruolo trainante nella creazione delle condizioni per un sistema di sicurezza e prevenzione dei conflitti efficace e davvero universale, basato sulle Nazioni Unite.
È inoltre di fondamentale importanza trovare mezzi efficaci per promuovere la comprensione e la cooperazione internazionale. Anche qui c’è spazio per un Giappone dal ruolo più attivo, determinato e fiducioso nelle sue possibilità, capace di contribuire allo sviluppo internazionale e al miglioramento dei livelli di vita così come agli scambi culturali, educativi e sportivi.
Per raggiungere questo traguardo è essenziale che tutti i cittadini giapponesi rinuncino alla loro passività e si impegnino seriamente nel produrre azioni significative. Da tempo auspico che il Giappone possa svolgere un ruolo primario nella sfida di realizzare un mondo senza guerre.

UN RUOLO CENTRALE PER L’ONU

Ma il successo degli sforzi del Giappone è strettamente legato alla direzione nella quale si svilupperà l’ONU nel futuro.
Per realizzare la pace nel prossimo secolo è assolutamente indispensabile sostituire alla consueta preminenza dei singoli interessi nazionali contrastanti – che hanno provocato così tante guerre e tragedie – una comunità internazionale dedicata al benessere dell’umanità e della Terra nel suo complesso.
Le Nazioni Unite possono e devono svolgere un ruolo centrale in tale trasformazione. Le sfide che l’umanità deve affrontare, dalla promozione della pace e del disarmo alla protezione dell’ambiente, all’eliminazione della povertà, richiedono cooperazione e coordinamento degli forzi al di là dei confini nazionali. Dobbiamo unirci come membri di un’unica comunità umana, impegnati in una battaglia comune.
A questo fine, non abbiamo altra scelta se non fare riferimento all’ONU, che per mezzo secolo si è adoperata per costruire attivamente il consenso internazionale ponendosi come forum di dialogo globale e impegnandosi concretamente negli aiuti umanitari e nei programmi di assistenza in varie parti del mondo. È mia opinione che solo le Nazioni Unite, con tutti i loro limiti e problemi, possano svolgere un ruolo centrale nell’unificazione dell’umanità.
A questo proposito la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, adottata durante l’assemblea dei capi di Stato e di governo che si è riunita per la prima volta in occasione del Vertice del Millennio del settembre 2000, riveste un profondo significato.
Nella Dichiarazione, che fa appello ai vari paesi del mondo affinché decidano di condividere la responsabilità di gestire i problemi globali, si afferma: «In quanto organizzazione più globale e rappresentativa del mondo, l’ONU deve svolgere il ruolo centrale».
Il nobile fine e lo spirito con cui l’ONU è stata fondata sono espressi nel Preambolo della Carta: «Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le generazioni future dal flagello della guerra che due volte nel corso della nostra vita ha recato indicibili sofferenze all’umanità».
È tempo di fare un passo avanti verso la creazione di una struttura che impegni davvero tutta l’umanità in una comune lotta per abolire il flagello della guerra dalla faccia della Terra.

POTERE MORBIDO, PARTECIPAZIONE POPOLARE

Discutere sui futuri indirizzi dell’ONU porta inevitabilmente a chiedersi: «Che tipo di mondo vogliamo?» e «Come rispondere ai vari problemi che ci troviamo di fronte?». Nel riflettere su tali questioni non dobbiamo mai dimenticare che la natura dell’ONU risiede essenzialmente nel “potere morbido”, il potere del dialogo e della cooperazione.
La Carta dell’ONU considera ovviamente anche la possibilità di esercitare il “potere duro”, che comprende l’intervento armato – il capitolo VI, dedicato alla composizione pacifica delle dispute, è seguito dal capitolo VII che stabilisce le misure necessarie a far rispettare le risoluzioni dell’ONU – ma dà sempre e comunque la precedenza a una soluzione pacifica dei conflitti; l’uso del potere duro è riservato a situazioni di crisi dove questo tipo di intervento si renda assolutamente necessario. La principale missione dell’ONU è sempre la stessa: realizzare la pace e la sicurezza internazionale attraverso il potere morbido.
L’ONU è nata dall’amara lezione delle due guerre mondiali. Se vogliamo che il ventunesimo secolo sia un secolo di vita, costruito su un’etica di autonomia e coesistenza creativa, è fondamentale non perdere mai di vista questo principio fondamentale.
Pur riconoscendo le legittime funzioni del Consiglio di Sicurezza, l’ONU dovrà basarsi soprattutto sull’esercizio del potere morbido, mettendo in primo piano la prevenzione dei conflitti e la stabilizzazione delle situazioni di potenziale crisi.
Ciò significa preoccuparsi di tutelare la sicurezza e il benessere degli esseri umani e non solo la semplice integrità dei confini nazionali.
A tal fine dovremmo fare pienamente tesoro delle esperienze degli ultimi cinquant’anni, e far sì che il Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) e le organizzazioni umanitarie assumano un ruolo sempre più attivo e costruttivo. A questo proposito attendo risultati significativi dal dibattito sull’impegno dell’umanità per le generazioni future che si terrà in occasione della sessione speciale dell’Assemblea Generale dell’ONU dedicata ai bambini, che si svolgerà nel settembre 2001.
Altrettanto indispensabile per rafforzare l’orientamento dell’ONU in direzione del potere morbido, e per garantire che questa sia davvero un’organizzazione della gente e per la gente, è il miglioramento delle relazioni di cooperazione tra l’ONU e la società civile, ossia l’ampia gamma delle organizzazioni non governative e dei movimenti di volontariato.
Se invece prevarrà la logica dello scontro e dell’esclusione, eredità negativa di un ventesimo secolo dominato da interessi nazionali contrastanti, l’ONU verrà emarginata e privata di potere. Cedendo alla tentazione di seguire pressioni e coercizioni, le Nazioni Unite perderebbero in affidabilità e credibilità, e si creerebbero ulteriori fonti di conflitto. Perciò è essenziale che l’ONU rafforzi la sua identità di organizzazione dedita al benessere di tutta l’umanità e che goda del sostegno popolare. Il destino dell’umanità nel ventunesimo secolo sarà infatti determinato dal successo ottenuto dagli sforzi per potenziare l’ONU e per garantire che la gente comune abbia un ruolo centrale al suo interno.
Questo nuovo imperativo è chiaramente rispecchiato dalla Dichiarazione del Millennio che abbiamo ricordato in precedenza. La parte che riguarda il rafforzamento dell’ONU definisce la società civile un “partner indispensabile” ed esprime la decisione di «offrire al settore privato, alle organizzazioni non governative e alla società civile in genere maggiori opportunità di contribuire alla realizzazione degli obiettivi e dei programmi dell’Organizzazione». È un’affermazione di grande significato che mira esplicitamente a una crescita dell’ONU oltre la sua portata attuale di assemblea di nazioni sovrane.
La partecipazione popolare è il miglior modo per rivitalizzare le Nazioni Unite. Ed è ancor più necessaria se questa organizzazione deve trascendere i suoi attuali limiti e diventare il perno centrale delle attività della società civile globale. Riunendo insieme i più svariati talenti e capacità dei comuni cittadini, l’ONU sarà in grado di arricchire e rafforzare lo spirito umanistico che dovrebbe costituirne l’essenza. Sono convinto che questa sia la futura strada da seguire, e che sia tempo di intraprendere passi concreti per realizzare questo progetto.
A tale riguardo le proposte formulate nel Forum del Millennio delle popolazioni – una riunione delle società civili mondiali tenutasi nel maggio 2000 in preparazione del Vertice del Millennio – sono una grande fonte di idee per intraprendere azioni concrete, come per esempio la creazione di un Forum globale della società civile o l’estensione dei diritti d’accesso consultivi delle ONG e la loro partecipazione all’Assemblea generale e ad altri organi principali delle Nazioni Unite.
Tutte iniziative perfettamente in linea con le mie proposte passate, e che auspico possano essere rapidamente messe in atto.

PROPOSTE DI RIFORMA

L’anno scorso l’Istituto Toda per la Pace globale e la Ricerca politica ha pubblicato Ripensare il futuro26, un rapporto sul Progetto di riforma per un governo globale. Si tratta del risultato di un lavoro di ricerca svolto in collaborazione con l’Università La Trobe di Melbourne e con Focus on the Global South dell’Università Chulalongkorn di Bangkok, con il contributo di due commissioni di esperti tra i quali Boutros Boutros-Ghali, ex segretario generale dell’ONU.
Riferendosi alla democratizzazione del governo globale in quanto elemento chiave per rafforzare l’ONU, il rapporto presenta audaci iniziative di riforma, come per esempio la creazione di un’assemblea della gente che renderebbe l’organizzazione più aperta e accessibile alla società civile.
Riguardo a quest’ultima proposta, in una conversazione di alcuni anni fa Johan Galtung, pioniere degli studi sulla pace, mi disse: «Forse credo di più nei dialoghi a lungo termine, che possono produrre nuove idee e un consenso più radicato, piuttosto che nei brevi dibattiti, che implicano poche idee, si risolvono in decisioni raggiunte per mezzo del voto e nei quali ci sono dei vincitori e dei vinti».27
Occorre escogitare nuovi strumenti istituzionali che consentano la piena partecipazione popolare al processo del dialogo. Questa è la maniera più sicura per sviluppare quel tipo di visione a lungo termine che non trascuri nessuno e prenda in considerazione gli interessi e le preoccupazioni di tutte le parti in causa. Varie organizzazioni stanno suggerendo progetti di questo tipo e credo che sia giunto il momento di cominciare a realizzarli.
Le ONG non dovrebbero essere considerate come semplici organismi di supporto ai vari governi. In realtà esse svolgono un ruolo da protagoniste nella costruzione di un nuovo ordine internazionale basato su un’etica di coesistenza creativa e di autonomia. Le Nazioni Unite riusciranno a tutelare efficacemente la dignità e la sicurezza di ogni individuo solo nella misura in cui riusciranno a convogliare le energie e le iniziative popolari.
Anche la soluzione di uno dei problemi più annosi delle Nazioni Unite, cioè garantirsi fonti di finanziamento stabili, potrebbe passare attraverso l’acquisizione del sostegno della popolazione mondiale.
L’attuale dipendenza dai contributi degli Stati membri minaccia la capacità dell’Organizzazione di rispondere tempestivamente alle crisi o di affrontare specifici problemi in maniera puntuale e continuativa. La stabilizzazione delle finanze dell’ONU grazie a un flusso aggiuntivo di capitale potrebbe migliorare la situazione.
A questo riguardo vorrei suggerire la creazione di un fondo popolare per le Nazioni Unite, seguendo l’esempio delle raccolte indipendenti di fondi intraprese con successo da organizzazioni come l’UNICEF. Tali fondi, raccolti sollecitando donazioni di privati ma anche di enti e imprese, verrebbero utilizzati principalmente per sostenere le iniziative umanitarie dell’ONU.

ELIMINARE LA POVERTÀ E PROTEGGERE L’AMBIENTE

I problemi globali che riguardano la riduzione della povertà e la protezione dell’ambiente sono questioni centrali di estrema urgenza che devono essere risolte con l’impegno di tutta l’umanità, in una lotta guidata dalla gente comune e centrata sull’ONU.
È necessario aumentare i nostri sforzi per eliminare la povertà. Secondo il Rapporto della Banca mondiale sullo sviluppo globale 2000/2001, dal titolo Attaccare la povertà, un miliardo e mezzo di persone, cioè circa il venti per cento della popolazione mondiale, vive con meno di un dollaro al giorno. E tutti i dati fanno supporre che questo numero non potrà che crescere.
L’anno scorso la Banca mondiale ha pubblicato un altro importante rapporto intitolato Le voci dei poveri, risultato di un’indagine decennale che ha raccolto la testimonianza diretta di un campione estesissimo di umanità: sessantamila persone provenienti da sessanta paesi diversi. Mettendo a nudo la cruda realtà di un’esistenza afflitta dalla povertà, lo studio cerca di illuminare le cause profonde del problema e di chiarire le reali esigenze dei poveri.
Secondo le raccomandazioni della Banca mondiale, nell’attuazione di politiche e programmi di assistenza dovrebbero essere tenuti in considerazione i punti seguenti:
1) Allargare le opportunità economiche per emanciparsi dalla povertà.
2) Mettere in grado le persone di elaborare decisioni in grado di influenzare la loro vita e il loro lavoro.
3) Sviluppare infrastrutture e programmi di base per prestare assistenza nelle catastrofi e nelle emergenze.
Anche l’economista premio Nobel Amartya Sen è di questo avviso. Nella sua opera Sviluppo come libertà sostiene che la popolazione non dovrebbe essere considerata soltanto come beneficiaria dei programmi di sviluppo ma che «con adeguate opportunità sociali, gli individui potrebbero plasmare il proprio destino e aiutarsi reciprocamente. Invece troppo spesso vengono considerati in primo luogo fruitori passivi dei vantaggi offerti da abili piani di sviluppo».28
Concordo completamente: le persone dovrebbero essere considerate gli attori del cambiamento. È importante scoprire dalle persone stesse ciò di cui hanno effettivamente bisogno e riflettere queste esigenze nei programmi di sviluppo e assistenza invece che far progetti arbitrari e unilaterali “dall’alto in basso”. Questo è il vero significato della democratizzazione.
A livello internazionale dovrebbe esistere un forum permanente dove i popoli emarginati possano far sentire la loro voce. Attualmente solo i paesi ricchi hanno creato occasioni di questo genere, come i summit dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, OCSE (Organization for Economic Cooperation and Development, OECD), e il convegno annuale del World Economic Forum a Davos, in Svizzera, dove riunirsi e discutere le linee politiche ed economiche internazionali.
Vorrei proporre di istituire quello che potremmo chiamare il “Forum della Terra”, un ponte tra i popoli dei paesi in via di sviluppo e questi incontri internazionali tra i paesi ricchi. Ciò potrebbe facilitare il dialogo e il dibattito verso una società globale veramente giusta ed equa.
Secondo la mia idea questo forum dovrebbe vedere come partecipanti principali i paesi in via di sviluppo attraverso i loro rappresentanti governativi e non, insieme ai vari organismi internazionali fra cui la segreteria generale dell’ONU. Condividere fallimenti e successi tra vari paesi e organismi e imparare dalle reciproche esperienze potrebbe favorire una politica di globalizzazione che rispetti veramente il punto di vista dei paesi più poveri, un tipo di sviluppo umano in grado di soddisfare i bisogni reali della gente. Questo forum potrebbe riunirsi due volte all’anno inviando rappresentanti ai vari summit e a Davos per presentare i propri risultati e richieste, garantendo così alle opinioni dei paesi in via di sviluppo di essere adeguatamente riflesse all’interno di questi programmi internazionali.
Il Summit del G8 di Kyushu-Okinawa è stato il primo vertice dell’OCSE allargato al dialogo tra i leader dei paesi sviluppati e in via di sviluppo. È un’esperienza da proseguire: dialoghi del genere dovrebbero diventare parte integrante della dinamica di ogni summit internazionale, poiché sono di vitale importanza per unire i popoli del mondo nello sforzo comune di eliminare la povertà e le incalcolabili sofferenze che essa arreca.
L’altra sfida che ci attende riguarda la protezione e il miglioramento dell’ambiente.
Il Summit della Terra tenutosi nel 1992 a Rio de Janeiro ha aumentato la coscienza della necessità di collaborare su scala globale per proteggere l’ambiente. Tale consapevolezza ha in seguito dato luogo a negoziati internazionali sulla tutela dell’ambiente, come la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento del clima (United Nation Framework on Climate Change).
Nonostante questi sforzi, tuttavia, la distruzione dell’ambiente terrestre procede più velocemente dei tentativi di arginarla. La situazione a livello globale continua a deteriorarsi, e se questa tendenza non verrà invertita possiamo essere certi che si verificherà una crisi di proporzioni devastanti. L’unica strada che rimane aperta è la rivoluzione nella coscienza dei singoli individui e delle società umane nel loro complesso. È proprio questo l’obiettivo dell’iniziativa della Carta della Terra promossa da Michail Gorbaciov e da altri, e in ciò risiede il suo grande valore.
Da diversi anni la SGI è impegnata in una vasta gamma di attività a sostegno della campagna per la Carta della Terra. Anche il Boston Research Center ha tenuto conferenze e seminari che offrivano prospettive e spunti di riflessione a diversi livelli sul processo di compilazione della Carta della Terra.
Il testo è stato ultimato nel marzo scorso. Il suo linguaggio è il risultato di tenaci sforzi per integrare le voci e le opinioni di popoli con differenti retroterra, provenienti da ogni parte del mondo.
In quattro capitoli e sedici sezioni, la Carta stabilisce un insieme esaustivo di princìpi etici su cui costruire una nuova società globale. I titoli dei vari capitoli sono indicativi della portata e della profondità di questo documento: rispetto e cura della comunità di vita; integrità ecologica; giustizia economica e sociale; democrazia, nonviolenza e pace.
È mia ferma convinzione che i princìpi della Carta della Terra, quintessenza di un processo di dialogo globale, possano costituire le fondamenta di un secolo di vita.
Uno degli obiettivi della Carta della Terra è ottenere l’approvazione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU nel 2002, in occasione del decimo anniversario del Summit della Terra di Rio. È fondamentale che i princìpi espressi in questo documento non rimangano a livello di semplici accordi intergovernativi ma mettano radici nella vita di ognuno come norme di condotta basilari.
La SGI continuerà a promuovere la Carta della Terra attraverso una vasta gamma di attività, comprese alcune mostre di recente programmazione, per far crescere la consapevolezza popolare dell’importanza di una sua adozione ufficiale e incoraggiare l’impegno personale di ognuno a portarne avanti i contenuti.

CINA E INDIA: RUOLI E CONTRIBUTI FUTURI

L’ultimo aspetto che vorrei considerare, nell’ambito delle azioni concrete da intraprendere per realizzare un mondo caratterizzato dalla coesistenza creativa e dall’autonomia, riguarda alcune questioni all’interno dell’Asia e dell’Africa.
Per quanto riguarda l’Asia, vorrei mettere a fuoco il ruolo della Cina e dell’India, due paesi destinati ad assumere un’importanza crescente non solo per dimensioni, quantità di popolazione e significato per la sicurezza internazionale, ma soprattutto nel quadro di quella che definirei una prospettiva di civiltà.
Ricordo con affetto il volto di Arnold Toynbee mentre mi esponeva le sue riflessioni sulla Cina: «Il destino della Cina è forse quello di dare unità politica e pace non solo alla metà ma al mondo intero»29.
Dalle sue parole traspariva la convinzione, fattore determinante della sua grandiosa teorizzazione storica, che la nostra visione non dovrebbe essere offuscata dai fenomeni immediati ma che il futuro può essere delineato accuratamente solo grazie a un attento monitoraggio dei movimenti lenti e profondi che in ultima analisi determinano la storia.
A quell’epoca mi battevo per la restaurazione delle relazioni diplomatiche tra Cina e Giappone e per l’ammissione della Cina in seno alle Nazioni Unite. La valutazione di Toynbee sull’importanza della Cina concordava con ciò che anch’io sentivo. Nel 1974, un anno dopo la serie di dialoghi con Toynbee a Londra, il mio antico desiderio di visitare la Cina si realizzò.
Da allora ho sempre cercato, nei limiti delle mie possibilità di privato cittadino, di promuovere scambi culturali ed educativi a livello di base per approfondire i legami di amicizia fra la Cina e il Giappone. E nella realizzazione di queste iniziative ho sviluppato una precisa consapevolezza delle numerose qualità che Toynbee cita come eredità spirituale della civiltà cinese. Esse rappresentano tuttora una forza vitale che, attraverso un processo di trasformazione e adattamento, mantiene la sua importanza per la società contemporanea.
Una di queste qualità è una visione del mondo che dà priorità all’armonia rispetto al confronto e all’unità rispetto alla frammentazione. L’altra è un pensiero di tipo “umanista” che cerca sempre la miglior soluzione possibile attraverso l’azione pratica piuttosto che attraverso una rigida adesione alla teoria.
L’accento sull’armonia fa pensare a un carattere nazionale basato sulla coesistenza creativa, a una saggezza coltivata nei millenni e simboleggiata dall’utopia datong (datong, o “grande unità”, è uno dei concetti principali del tardo Confucianesimo in Cina, ndt). Questo fra l’altro è stato uno degli argomenti che ho trattato nel mio intervento all’Accademia cinese delle scienze sociali nel 1992. D’altro canto, la percezione della realtà attraverso l’azione pratica ha dato origine a una metodologia gradualista di riforme che si evidenzia nel coraggioso esperimento di un’economia di mercato socialista. Anche l’idea di “un paese, due sistemi”, lanciata dopo la riannessione di Hong Kong e Macao, è un’estensione di questo modo di pensare.
È davvero vergognoso che alcuni elementi della società giapponese insistano nel negare la realtà storica della guerra di aggressione del Giappone contro la Cina, e che queste falsità si siano conquistate addirittura un posto nei libri di scuola. Nel 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario della sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, il primo ministro ha espresso un profondo pentimento e sentite scuse. Non possiamo più tollerare la negazione dell’evidenza storica perché questo atteggiamento non solo mette in dubbio la sincerità di questa dichiarazione ufficiale ma scredita anche la posizione morale del Giappone all’interno della comunità internazionale.
Come nel caso della Cina, la lunga storia dell’India è intrisa di profonda spiritualità. Nella magnifica tradizione che va dal Budda Shakyamuni al re Ashoka al Mahatma Gandhi possiamo vedere il pieno splendore dello spirito umano.
Anche se lo spazio non permette un esame dettagliato, io credo che in India esista quello che potremmo definire un “umanesimo cosmico”. Questa visione trascende i limiti dell’umanesimo caratteristico della moderna razionalità scientifica, che ha sortito l’effetto paradossale di rendere gli esseri umani una presenza ancor più piccola e insignificante, e assume come supremo ideale la coesistenza creativa basata su princìpi spirituali condivisi piuttosto che conquistati con la forza. Cerca inoltre di realizzare una società armoniosa che rispetti le diversità invece che le divisioni originate dalla discriminazione e dall’emarginazione.
Jung affermava che «in India sembra non esista niente che non abbia già vissuto altre centomila volte».30 Questo concetto ricorda l’idea buddista di interconnessione e interdipendenza.
Negli ultimi anni sembra che solo certi aspetti dell’India e della Cina, come il loro potenziale nucleare o le capacità tecniche emergenti, abbiano attirato l’attenzione del mondo. Ma io sono fermamente convinto che il potere dello spirito, la corrente sotterranea che attraversa l’intera storia dei due paesi, abbia il potenziale per diventare una delle forze motrici che faranno sorgere un’era del potere morbido.
Non è affatto mia intenzione glorificare il passato di queste due nazioni, e sono altresì consapevole delle numerose sfide che le attendono. Ciononostante non dubito che entrambe possano dare un contributo sostanziale all’Asia e al mondo intero, se sapranno sviluppare creativamente l’eredità spirituale che hanno coltivato nel corso della loro lunga storia, portandola a maturazione nell’ambito più vasto della nuova civiltà globale.

LE COREE: DIALOGO PER LA PACE

Nessun paese è privo di un passato negativo o di problemi attuali, ma non serve concentrarsi esclusivamente sugli aspetti sfavorevoli di una nazione o di una cultura. È molto più costruttivo invece che ognuna “competa” con le altre nel cercare di esercitare l’influenza più positiva possibile intorno a sé e sul mondo. Questo stesso ragionamento è stato alla base della proposta, che ho formulato per la prima volta nel 1998, di allargare in maniera permanente l’attuale Summit del G8 in modo da comprendere Cina e India, poiché anche questi paesi hanno una particolare responsabilità nei confronti del mondo.
Nella lotta per il predominio il ventesimo secolo ha toccato il fondo. L’umanità del ventunesimo secolo deve abbandonare la ricerca dell’egemonia a favore di una sorta di “competizione umanitaria” che porti a un’era di coesistenza creativa, liberando le qualità interiori, morali e spirituali di ogni cultura e tradizione.
La chiave per porre fine una volta per tutte alla corsa per la supremazia sta soprattutto nel dialogo. L’anno scorso i leader delle due metà della penisola coreana hanno avuto una serie di incontri di grande significato storico, che ci ricordano una volta di più il valore e l’importanza del dialogo.
Nel giugno scorso, per la prima volta in assoluto, i capi di Stato di questi due paesi, il presidente Kim Dae-Jung della Repubblica di Corea e il presidente Kim Jong II della Repubblica popolare democratica di Corea, si sono incontrati a Pyongyang, capitale della Corea del Nord. E per tre giorni hanno discusso questioni inerenti alla pace e al futuro della penisola.
Erano più di quindici anni che chiedevo un incontro diretto tra i massimi leader delle due Coree. Nella Proposta di pace del 2000 sostenevo l’opportunità di cogliere l’occasione, a cinquant’anni dall’inizio del conflitto, per porre termine alla guerra fredda nella penisola coreana. Così ho seguito lo svolgersi di questi dialoghi con particolare emozione.
Per sbloccare la condizione di stallo tra i due paesi, che dura ormai da tempo, e per alleggerire concretamente le tensioni sulla penisola è di fondamentale importanza che questo incontro abbia un seguito.
Spero che la visita del presidente Kim Jong II a Seul, richiesta nella Dichiarazione congiunta Sud-Nord, venga realizzata nel prossimo futuro e che si avvii una serie di regolari incontri al vertice. Spero anche che le due Coree continuino a costruire una fiducia reciproca e ad avanzare nella direzione della distensione nella loro penisola.

(Foto L. Marinelli)

IL PROBLEMA E LA PROMESSA DELL’AFRICA

L’Africa, insieme all’Asia, è un continente di importanza cruciale per la pace nel mondo. Dalla fine della guerra fredda, in vari Stati africani sono esplosi conflitti interni o locali che hanno devastato la vita delle popolazioni e distrutto i loro mezzi di sostentamento. Secondo i dati di un’inchiesta condotta dal SIPRI (Istituto internazionale di studi per la pace di Stoccolma), a undici anni dalla fine della guerra fredda si sono già verificati 108 conflitti armati, ognuno dei quali ha mietuto più di mille vittime. E la maggior parte di questi tragici scontri ha avuto luogo in Asia e in Africa.
A causa delle prolungate situazioni di conflitto sono sempre più numerosi gli africani che vivono come rifugiati. Secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (ACNUR) si parla di 6,2 milioni di persone nel gennaio 2000.
Carestie e mancanza di cibo sono spesso le tragiche conseguenze della guerra. Le condizioni alimentari e agricole 2000, il rapporto pubblicato dalla Food and Agriculture Organization (FAO), riferisce che diciannove paesi africani sono afflitti da carestie la cui causa primaria sono i conflitti armati. Si tratta di casi che aumentano vertiginosamente, molto più di quelli in cui la carestia è provocata da calamità naturali.
Il fatto che fino a oggi non si sia riusciti a trovare rimedi efficaci al persistere della povertà ha dato origine a un errato senso di pessimismo nei confronti del continente africano, accresciuto dalla cosiddetta “fatica degli aiuti” da parte dei paesi sviluppati. Di conseguenza la preoccupazione per l’Africa da parte della comunità internazionale si è ridotta in proporzione inversa alla gravità del bisogno, esacerbato dal problema dell’AIDS.
Ma la crisi africana è un problema che bisogna affrontare se si vuole realizzare la pace in questo mondo sempre più globalizzato. E da un semplice punto di vista umanitario non ci sono scuse all’indifferenza.
Bisogna riconoscere che una delle cause fondamentali dell’attuale crisi va ricercata nelle realtà storiche che l’Africa ha dovuto subire per lungo tempo – il dominio coloniale e l’arbitraria spartizione del territorio da parte delle grandi potenze. Perciò è responsabilità comune di tutta l’umanità garantire che questa tragica eredità non sia perpetrata nel futuro.
L’Africa è il luogo di nascita della specie umana. È stato un continente di speranza che, sin dai tempi antichi, ha dato i natali a una moltitudine di civiltà diverse che hanno arricchito l’umanità in vari campi, fra cui la filosofia e la scienza.
Da diverso tempo penso che il ventunesimo secolo deve essere il secolo dell’Africa. Questa mia convinzione si basa in parte sull’esperienza della mia prima visita alla sede delle Nazioni Unite nel 1960, poco dopo aver accettato la responsabilità di terzo presidente della Soka Gakkai. In quell’occasione fui particolarmente colpito dall’energia e dalla vitalità dei delegati africani che partecipavano all’Assemblea generale e alle riunioni dei vari comitati. In effetti il 1960 era stato un anno straordinario per l’Africa, in cui ben diciassette nazioni avevano conquistato l’indipendenza.
Da allora ho cominciato a sviluppare legami d’amicizia con esponenti della politica e della cultura di vari paesi africani, nella speranza di contribuire alla realizzazione del secolo dell’Africa. Inoltre, come fondatore della Soka University e dell’Associazione Concertistica Min-On, mi sono impegnato a promuovere ampi scambi culturali ed educativi a livello di base.
La SGI si è dedicata in maniera particolare alle attività assistenziali a favore dei rifugiati promosse dall’ACNUR. La nostra campagna di raccolta di fondi e di sensibilizzazione a sostegno dell’attività dell’ACNUR e di altre organizzazioni simili continuerà anche quest’anno, cinquantesimo anniversario della Convenzione sui rifugiati.

SOLIDARIETà PACIFICA: LA MISSIONE DELL’AFRICA

Ottenere una pace duratura in Africa, nostra vicina di casa in un mondo interconnesso, deve essere una preoccupazione immediata per tutti. Nel corso dei decenni sono state avanzate numerose proposte importanti e costruttive per risolvere i problemi di questo continente. C’è stato chi ha suggerito, come il primo presidente del Ghana Kwame Nkrumah (1909-72) e altri leader del movimento panafricanista per gli Stati Uniti dell’Africa, di unificare le nazioni africane in un forte legame di solidarietà e nella ricerca congiunta di pace e prosperità. Non possiamo accantonare simili ipotesi come semplici reminiscenze che risalgono agli albori del periodo postcoloniale.
La prospettiva di costituire gli Stati Uniti dell’Africa fu uno degli argomenti di un colloquio che ebbi con il presidente nigeriano Olusegun Obasanjo due anni fa. Di fatto esiste una crescente consapevolezza tra le nazioni africane dell’importanza di rafforzare la solidarietà pan-africana.
Durante l’incontro al vertice dell’Organizzazione per l’unità africana (Organization for African Unity, OAU) tenutosi a Lomé, Togo, nel luglio 2000, i leader di ventisette paesi hanno siglato una proposta per costituire un’Unione africana. Secondo l’esperienza dell’integrazione europea, l’Unione africana dovrebbe avere un parlamento africano, un tribunale pan-africano e una banca centrale.
Sebbene non sia stato raggiunto un accordo sulla data di realizzazione di un simile progetto, è comunque significativo che i paesi africani si siano trovati d’accordo sullo scopo comune di costituire un’Unione africana.
Nel corso della sua lunga storia l’OAU ha ottenuto numerosi risultati, dall’istituzione della Carta Banjul sui diritti umani e dei popoli al Trattato africano sulla zona denuclearizzata, alla più recente mediazione nel conflitto tra Etiopia ed Eritrea.
È responsabilità della comunità internazionale fornire appoggio e collaborazione senza riserve alla creazione di un’Unione africana e all’ulteriore rafforzamento dell’unità continentale.
Nel rapporto Obiettivi strategici 2000-2005: “Plasmare la nuova Europa”, l’Unione europea ha così riassunto le proprie conquiste dell’ultimo mezzo secolo: «L’Unione europea è la prova vivente che è possibile riportare pace, stabilità, libertà e prosperità all’interno di un continente un tempo lacerato dalle guerre». Visto in un arco di cinquanta o cento anni non v’è motivo di ritenere che ciò che è stato realizzato dall’UE non debba essere possibile anche per l’Africa.
Immaginando i futuri Stati uniti dell’Africa, il presidente del Ghana Kwame Nkrumah ha affermato: «Emergeranno come una grande potenza, la cui grandezza è indistruttibile perché non è costruita sulla paura, sull’invidia o sul sospetto, né guadagnata a spese degli altri, ma è fondata sulla speranza, la fiducia, l’amicizia, ed è diretta al bene di tutta l’umanità».31
Credo che quest’idea di solidarietà pacifica, definita dal presidente Nkrumah come la missione dell’Africa, dovrebbe essere il principio guida dell’integrazione regionale nel ventunesimo secolo. La competizione basata sull’animosità e l’esclusione, sulla pressione esterna e la coercizione non fa altro che alimentare la paura, l’invidia e il sospetto. Per contro, la traboccante vitalità dello spirito umano che cerca la coesistenza creativa e l’autonomia coltiva la speranza, la fiducia e l’amicizia.
Questo è l’Anno internazionale delle Nazioni Unite contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e le relative intolleranze. La Conferenza mondiale su questo argomento si terrà a settembre in Sud Africa. La SGI prevede di partecipare ai forum delle ONG che si terranno parallelamente alle riunioni intergovernative e di sottolineare l’importanza dell’educazione ai diritti umani per contrastare l’ignoranza, che è la causa fondamentale dell’intolleranza.

FORZA, SAGGEZZA E SOLIDARIETÀ

Il destino dell’Africa e di tutta l’umanità nel ventunesimo secolo dipende da quanto le persone comuni risveglieranno le proprie potenzialità interiori di forza, saggezza e solidarietà. Non sottolineerò mai abbastanza il valore di un dialogo aperto nel far emergere queste qualità.
Il dialogo ha il potere di ripristinare e rivitalizzare le caratteristiche di umanità che tutti condividiamo, liberando la nostra innata capacità di fare il bene. È una calamita impareggiabile attorno alla quale le persone si aggregano e la fiducia si alimenta. Le amare tragedie del ventesimo secolo sono scoppiate proprio perché non si è riusciti a basare la società umana sul dialogo.
L’anno 2001 è stato definito “Anno del dialogo fra le culture”. Dobbiamo diffondere lo spirito del dialogo perché diventi la corrente dominante del ventunesimo secolo, un secolo di vita. Potremo così creare insieme un’epoca in cui tutte le persone godranno dei frutti della pace e della felicità e celebreranno la loro illimitata dignità e il loro potenziale senza confini.
Il dialogo può condurre alla creazione di una nuova civiltà globale. I membri della SGI, come cittadini responsabili e impegnati nelle rispettive comunità, continueranno a utilizzare il dialogo onesto per costruire una solidarietà popolare al servizio dell’umanità e della pace in tutto il mondo.

(Traduzione di Marialuisa Cellerino)

NOTE

1) Pauling, Linus e Daisaku Ikeda, A Lifelong Quest for Peace, tradotto da Richard L. Gage, Boston: Jones and Bartlett Publishers, 1992, p. 45.
2) Hobsbawm, Eric, Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991, London: Michael Joseph, 1994, p. 1.
3) Ibidem, p. 13.
4) Sakurai, Tetsuo. Senso no seiki - Dai-ichiji sekai taisen to seishin no kiki [Il secolo della guerra: la prima guerra mondiale e la crisi della mente], Tokyo: Heibonsha, 1999, p. 9.
5) Valéry, Paul, History and Politics, trad. Denise Folliot e Jackson Mathews, Bollingen Series XLV, 10, New York: Bollingen Foundation, 1962, p. 23.
6) Ibidem, p. 39.
7) Matsui, Takafumi, Hayao Kawai, e Takeshi Umehara, Ima inochi o kangaeru [Recenti pensieri sulla vita], Tokyo: Iwanamishoten, 1999, p. 131.
8) Ortega y Gasset, José, Meditations on Quixote., trad. Evelyn Rugg e Diego Marín, New York: W. W. Norton Company, 1961, p. 45.
9) Daniels, Robin, Conversations with Menuhin, New York: St Martin’s Press, 1979, p. 187.
10) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, p. 213.
11) Ibidem, vol. 4, p. 171.
12) Hori, Nichiko, ed. Nichiren Daishonin Gosho zenshu [Le opere complete di Nichiren Daishonin], Tokyo: Soka Gakkai, 1952, p. 563.
13) Taisho shinshu daizo kyo, Japan: Taisho Shinshu Daizo Kyo Kankokai, 1977, p. 385.
14) Ikeda, Daisaku, Ningen kakumei [La rivoluzione umana], vol. 4, Tokyo: Seikyo Shimbunsha, 1973, p. 18.
15) Toynbee, Arnold J., Civilization on Trial, New York: Oxford UP, 1948, p. 213.
16) Goethe, Johann Wolfgang von, Faust, Sansoni, p. 65, trad. V. Errante.
17) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, p. 192.
18) Jung, C. G., Civilization In Transition, 1939, trad. R. F. C. Hull, 2nd ed. Bollinger Series XX, 10, Princeton: Princeton UP, 1978, 296.
19) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 185.
20) Gandhi, M. K., Nonviolence in Peace & War, 2nd ed., Ahmedabad, India: Navajivan Publishing House, 1944, p. 129
21) Ortega y Gasset, José, The Revolt of the Masses, New York: W. W. Norton & Company, 1960, p. 105.
22) Hori, Nichiko, op. cit., p. 752.
23) Gandhi, M. K., All Men Are Brothers: Life and Thoughts of Mahatma Gandhi As Told in His Own Words, Switzerland: UNESCO, 1958, p. 163.
24) Tagore, Sir Rabindranath, Personality, New York: The Macmillan Company, 1917, p. 218.
25) Mori, Arimasa, Kigi wa hikari o abite [Alberi immersi nella luce], Tokyo: Chikumashobo, 1972, p. 163.
26) Camilleri, Joseph A., Kamal Malhotra, Majid Tehranian, et al., Reimagining the Future: Towards Democratic Governance, Bundoora, Australia: The Department of Politics, La Trobe UP, 2000.
27) Galtung, Johan e Ikeda Daisaku, Scegliere la pace, Esperia, Milano, 1996, p. 212.
28) Sen, Amartya, Development as Freedom, New York: Anchor Books-Random House, Inc., 1999, p. 11.
29) Toynbee, Arnold J. e Ikeda Daisaku, Dialoghi, Bompiani, Milano, 1988, p. 245.
30) C. G. Jung, op. cit., p. 517.
31) Nkrumah, Kwame, I Speak of Freedom, 1961. London: Panaf Books Limited, 1973, p. xii.

ALTRI RIFERIMENTI

Earth Charter Initiative, <http://www.earthcharter.org/>.
EU, Strategic Objectives for 2000–2005: “Shaping the New Europe”,<http://www.europa.eu.int/ comm/off/work/2000-2005/index_en.htm>.
FAO, The State of Food and Agriculture 2000. <http://www.fao.org/docrep/x4400e/x4400e00. htm>.
Fukuyama, Francis, Great Disruption: Human Nature and the Reconstitution of Social Order, Free Press, 1999.
G8 Kyushu-Okinawa Summit 2000, <http://www.g8kyushu-okinawa.go.jp/e/outline/eng/overview.html>.
Ikeda, Daisaku, A New Humanism: The University Addresses of Daisaku Ikeda, New York: Weatherhill, 1996.
Costituzione giapponese, art. 9.
Min-On, associazione concertistica. Fondata nel 1963 da Daisaku Ikeda è una delle principali associazioni musicali giapponesi e promuove la pace attraverso scambi musicali e culturali.
OAU, <http://www.oau-oua.org/>.
Serizawa, Shunsuke, Iesu no hakobune ron [Pensieri sull’incidente dell’Arca di Gesù], Japan: Chikumabunko, 1995.
SIPRI Yearbook 1999: Armaments, Disarmament, and International Security, Stockholm: Stockholm International Peace Research Institute, 1999.
Soka University, <http://www.soka.ac.jp/>. Istituita da Daisaku Ikeda nel 1971 come un college di quattro anni sulle arti liberali. Per superare i confini nazionali attraverso l’educazione ha promosso scambi con 73 università in 36 paesi del mondo.
Istituto Toda per la pace globale e la ricerca politica. Ha due sedi, a Tokyo e Honolulu. Fondato nel 1996 da Daisaku Ikeda, promuove incontri tra ricercatori di pace, personalità politiche, mezzi di comunicazione e leader di comunità su temi come la pace, il disarmo, la risoluzione nonviolenta dei conflitti, lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, i diritti umani, le Nazioni Unite e il governo globale. Vedi http://www.toda.org/.
United Nations, Charter. <http://www.un.org./aboutun/charter/index.html>.
United Nations, Millennium Declaration. “Resolution Adopted by the General Assembly.” A/55/L.2.
<http://www.un.org/millennium/declaration/ares552e.htm>.
United Nations Special Session on Children 2001, <http://www.unicef.org/specialsession/>.
United Nations We the Peoples Millennium Forum,<http://www.millenniumforum.org/ html/papers/mfd26May.htm>.
United Nations World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and Related Intolerance,
<http://www.un.org./WCAR/>.
United Nations Year of Dialogue Among Civilizations, <http://www.un.org/Dialogue/>.
UNHCR, Refugees by Numbers, 2000 edition, <http://www.unhcr.ch/un&ref/numbers/numb2000.pdf>.
UNHCR, 2001 Global Appeal. Introduction, <http://www.unhcr.ch/fdrs/ga2001/foreword.pdf>.
Weil, Simone, The Need for Roots: Prelude to a Declaration of Duties Towards Mankind, Trad. A. F. Wills, London: Ark Paperbacks-Routledge & Kegan Paul Ltd., 1987.
World Bank, World Development Report 2000/2001: Attacking Poverty, New York: Oxford UP, 2000.
World Bank, Voices of the Poor, 3 vol., New York: Oxford UP, 2000. Per l’edizione digitale vedi <http://www.worldbank.org/poverty/voices/overview.htm>.

 


buddismoesocieta.org