Iniziare a praticare il Buddismo, e continuare a farlo, è una decisione, una necessità?
Nel mio caso non è mai stata quel tipo di “decisione” che, stando all’etimologia, richiama l’idea di un definire per sottrazione, dove la multiformità della vita è infilata dentro una prospettiva circoscritta ritenuta oggettivamente migliore di altre.
È piuttosto un potente impulso vitale che mi spinge quotidianamente a praticare. Per riconoscermi, “andarmi a trovare” internamente dove, seguendo un tragitto non mentale che dà senso e fa pace con le mie incompiutezze, non scarto parti di me in favore di qualche ipotetica perfezione esterna. È questo che mi affascina e commuove, che mi lega indissolubilmente a questa pratica da più di trentacinque anni: la possibilità di ascoltare, dare dignità e storia a verità interne, fragili e quasi indecifrabili, che grazie alla pratica di Nam-myoho-renge-kyo diventano la mia avventura e la mia strada. Nell’azione, sempre rinnovata, di continuare a illuminarle, farle parlare, maturare e renderle progetto in relazione al resto e agli altri.
E così è stato sempre, fin dall’inizio della mia pratica. Dapprima con maggiore incertezza, più speranza che fiducia, di poter uscire dalla nebbia e trovare risposte alle domande e alle sofferenze più segrete; poi con maggiore sicurezza, e gratitudine. Sempre in fedeltà all’irrinunciabile della mia storia (karma, destino, spinta esistenziale) e sempre recitando Nam-myoho-renge-kyo con fede e spirito di avventura, per procedere senza scoraggiarmi.
Nichiren scrive: «Sviluppa sempre più la tua fede fino all’ultimo momento della tua vita, altrimenti avrai dei rimpianti. Per esempio, il viaggio da Kamakura a Kyoto dura dodici giorni: se viaggi per undici giorni e ti fermi quando ne manca uno solo, come puoi ammirare la luna sopra la capitale?» (Lettera a Niiike, RSND, 1, 910).
Mi sono chiesta di cosa si nutra la decisione di non fermarsi e continuare a praticare. Nella mia esperienza soprattutto della voglia di vita: di respiro quando sto soffocando, di orizzonte quando sto faccia a terra, di capacità quando mi pare di aver esaurito tutte le mie carte. Di speranza, ancora e comunque, quando il mondo sembra irreversibilmente incattivito.
Essere fedele a me: lo faccio costantemente se continuo a recitare Daimoku. Non mi posso tradire se continuo a praticare. Perché con la pratica di Nam-myoho-renge-kyo ho scoperto la maniera di non perdere le tracce di quel sentiero interiore, fatto di indizi – grumi di dolore o guizzi di speranza – che mi fanno vedere con chiarezza dove comprendere di più, cambiare qualcosa, aprirmi al coraggio o alla compassione. Per rispondere in modo autentico e senza ambiguità alle questioni che mi presenta il mio essere nata e viva sulla terra. E avvicinarmi passo passo a quell’irrinunciabile di me che alla fine dei miei giorni mi farà sentire compiuta e soddisfatta.
«Recita Nam-myoho-renge-kyo con un’unica mente ed esorta gli altri a fare la stessa cosa; questo resterà il solo ricordo della tua vita presente in questo mondo umano» (Domande e risposte riguardo all’abbracciare il Sutra del Loto, RSND, 1, 58). (Marina Marrazzi)